A Mariano Filipepi piaceva scherzare, a partire dal nome: Sandro Botticelli.

Questo brano è tratto da “Forse non tutti sanno che a Firenze…”, di Francesco D’Isa e Matteo Salimbeni. Si ringrazia Newton Compton per la gentile concessione.


Reading-jester-q75-760x753Sandro Botticelli nasce a Firenze il 1° marzo del 1445. In realtà Sandro Botticelli nasce dopo qualche anno. Il famoso pittore de La Primavera viene al mondo col nome originario di Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi. Il soprannome di Botticelli se lo guadagnerà solo qualche anno dopo quando, bambino indiavolato, tumultuoso, sempre pronto alle corse, allo scherzo, al volo, mai fermo e mai domo, viene spedito dal padre, esausto, in bottega da un suo conoscente. «Era nientedimanco inquieto sempre; né si contentava di scuola alcuna, di leggere, di scrivere o di abbaco, di maniera che il padre infastidito di questo cervello sì stravagante, per disperato lo pose a lo orefice con un suo compare chiamato Botticello», scrive Giorgio Vasari. È un orafo, dunque, il primo maestro di Botticelli? È lui a passargli il nome che lo consacrerà nella storia? Forse. Eppure, escluse le parole del Vasari, niente ce lo conferma. La verità rischia di essere molto più banale. Il soprannome Botticello sarebbe stato “di proprietà” del fratello e poi dal fratello passato a Sandro. Tutto qui. Alcune fonti, inoltre, ci restituiscono un’immagine del tutto contraria al fanciullo tutto fuoco e argento vivo addosso. In una dichiarazione al catasto il padre scrive che Sandro «sta allegere ed è malsano», dove per “allegere” potrebbe voler dire o che passa molto tempo a leggere o che sta in una bottega a legare gioie. Una cosa, tuttavia, è certa: già dal nome Botticelli, volente o nolente, gioca a confondere le acque. Ovvio, non è il solo e non sarà l’ultimo. Michelangelo Merisi deve il suo nome d’arte al paese d’origine dei suoi genitori: Caravaggio. Cimabue mica si chiamava Cimabue: il suo nome era Cenni di Pepo. Andrew Warhola americanizzò il suo nome in Andy Warhol. Don Backy è nato a Santa Croce sull’Arno. Da ragazzo, quando passava per le strade del suo paese, tutti lo chiamavano Aldo. Aldo Caponi. Due delle attrici più belle di tutti i tempi si chiamavano Betty Joan Perske e Lovisa Gustafsson, ma chiedere a qualcuno se preferisce lo sguardo sconvolgente della Perske o l’enigmatica Lovisa sarebbe piuttosto sciocco. Coi nomi di Lauren Bacall e di Greta Garbo forse si potrebbe ottenere maggior successo. Nessuno ha mai pronunciato la seguente frase: «Vado matto per Farrokh Bulsara». Eppure, chiunque ascolti Bohemian Rhapsody, saprà dire che quella voce è di Freddie Mercury.


Una cosa, tuttavia, è certa: già dal nome Botticelli, volente o nolente, gioca a confondere le acque. Ovvio, non è il solo e non sarà l’ultimo. Michelangelo Merisi deve il suo nome d’arte al paese d’origine dei suoi genitori: Caravaggio. Cimabue mica si chiamava Cimabue: il suo nome era Cenni di Pepo


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Sì, quel Botticelli.

Di pseudonimi, nomignoli, soprannomi è pieno il mondo e quindi non c’è da stupirsi se Sandro Botticelli non si chiamasse Sandro Botticelli. Crescendo, il giovane frequenta la bottega di Filippo Lippi. Nel frattempo legge, e molto. E pensa, ragiona. Si perde negli antri, nelle spelonche e nei paesaggi de La Divina Commedia. In parallelo alla pittura coltiva un amore immenso verso le lettere, la poesia. Si avvicina al Poliziano, il cui vero nome, a dir la verità, è Agnolo Ambrogini. Nelle Madonne degli esordi il riflesso di questa tendenza è appena percettibile. Nella maturità artistica le sue opere, invece, non si limiteranno a eccellere nelle linee, nei corpi, nei colori. A essere, insomma, delle buone o delle geniali pitture. Andranno oltre, presentandosi come dei rompicapi. Come dei rebus. Il campo festoso per una miriade di simboli, richiami, segreti. Una stanza del Poliziano, la 68, recita così:

Ma fatta Amor la sua bella vendetta,
mossesi lieto pel negro aere a volo,
e ginne al regno di sua madre in fretta,
ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo:
al regno ov’ogni Grazia si diletta,
ove Biltà di fiori al crin fa brolo,
ove tutto lascivo, dietro a Flora,
Zefiro vola e la verde erba infiora.

Ai pittori piace scherzare
I pittori scherzano spesso.

In molti hanno osservato La Primavera di Sandro Botticelli alla luce di questi versi. Non solo per divertimento intellettuale. Ma perché, è evidente, il Botticelli stesso dipingeva con l’eco di queste e altre parole, dando luogo a una serie di raffinati passaggi alchemici dove la pittura si fa poesia, la parola diventa immagine, e viceversa, all’infinito, in un gioco inestricabile di specchi. Quella che si potrebbe definire una classica missione allegorica in Botticelli assume ulteriori connotati. O, forse, sarebbe più opportuno dire: non è solo l’adesione alla filosofia neoplatonica e la sua frequentazione che spinge Botticelli a giocare con lo sguardo dell’osservatore. Non è tanto una pensosità da accigliato artista, a guidarlo. È un gusto, quello del Botticelli: «…pittore, fu discepolo di fra Filippo et huomo molto piacevole et faceto», è scritto nel Codice magliabechiano. «Dicesi che Sandro era persona molto piacevole e faceta, e sempre baie e piacevolezze si facevano in bottega sua, dove continovamente tenne a imparare infiniti giovani, i quali molte giostre et uccellamenti usavano farsi l’un l’altro…», rincara il Vasari. A Sandro piaceva da morire uccellare, scherzare, far burlette e fare il grullo. Così, anche, nella pittura. L’indole di Botticelli non è dunque annientata, come alcuni potrebbero credere, dall’adesione a un movimento filosofico. Né Sandro si limita a essere il rigido megafono artistico del neoplatonismo. Tutt’altro. Il suo carattere faceto ben si accorda con il gusto per i dettagli, gli incastri e le allusioni letterarie che quella filosofia esige.

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A Botticelli piace scherzare molto più che al giullare.

A Sandro piaceva da morire uccellare, scherzare, far burlette e fare il grullo. Così, anche, nella pittura.


Botticelli coltiva una passione smodata verso le infinite possibilità dello sguardo e dell’intelligenza umana. Pretende, Botticelli, di giocare con lui. Cosa sarebbe, altrimenti, la pittura? Ma la pretesa del pittore non è portata avanti in maniera sguaiata. A casaccio. Alla base del neoplatonismo c’è questa convinzione: l’uomo si può elevare verso l’Idea soltanto per il tramite della Bellezza. Affinché questo processo si compia non si può dipingere in maniera disordinata, naturalmente. È necessario dar vita a qualcosa di straordinariamente bello. E, per farlo, oltreché capaci, bisogna essere seri. Non si spiegherebbe altrimenti come la bottega del Botticelli, così vitale, così allegra, sia stata capace di dare alla luce in così breve tempo così tante opere. Non solo capolavori – per quelli Botticelli spesso si ritirava, solitario, in ville fuori città. Ma manufatti d’ogni genere: ritratti, ricami, immagini per libri, incisioni, pale d’altare. Alessandro Cecchi, nel suo Botticelli, sintetizza perfettamente il contesto in cui il maestro si trovava:

Sandro, come altri artisti del suo tempo, dovette lavorare pertanto in una notevole confusione, accresciuta dalle chiacchere dalle burle e dalle celie dei garzoni che, secondo la prassi, avevano ottenuto da lui vitto e alloggio per le loro prestazioni e dovevano risiedere in bottega o nella casa, e dai clamori e dagli schiamazzi di una vita frequentata e densamente abitata, in una città popolosa come Firenze, ove si viveva “a strati” e gli opifici si mescolavano alle abitazioni…


Non a caso Eraclito, filosofo molto caro ai neoplatonici, scriveva: «L’uomo è molto più vicino a se stesso quando raggiunge la serietà di un bambino che gioca».


Dirigere i lavori in un ambiente del genere con urlacci, frustate e piglio autoritario avrebbe significato strozzare in partenza le possibilità espressive della bottega. Assecondare troppo la baraonda, di contro, avrebbe trasformato la produzione della bottega in una serie di pale sghembe, di tele malconce, al massimo di chiassose e approssimative chiazze di colore. Botticelli riuscì a trovare un equilibrio. E a trasmetterlo ai propri allievi. Con l’esempio. L’esempio di chi è rapito a tal punto nel gioco da prenderlo tremendamente sul serio. Non a caso Eraclito, filosofo molto caro ai neoplatonici, scriveva: «L’uomo è molto più vicino a se stesso quando raggiunge la serietà di un bambino che gioca». E di giochi, di burle sono piene la vita e la pittura di Sandro Botticelli. Il Poliziano ce lo descrive come un uomo senza freni e dalla risposta sempre pronta: se qualcuno gli consiglia di metter la testa a posto e sposarsi egli perde il capo, si trasforma in una mina vagante e insonne, e di notte vaga per le strade di Firenze in preda all’agitazione. Se qualcuno si lamenta di avere solo una lingua per conversare, gli consiglia di starsene zitto e di pensare piuttosto a metter su cervello. Lorenzo il Magnifico lo descrive come un gagliardo beone, amante della sugna e del lusso:

Botticel la cui fama non è fosca, Botticel dico;
Botticello ingordo, ch’e più impronto e più ghiotto ch’una mosca.
Oh di quante sue ciancie hor mi ricordo,
Se gli è invitato à desinar, ò cena,
Quel che l’invita non lo dice a sordo.
Non s’apre a l’invitar la bocca a pena,
Ch’ e’ se ne viene, e al pappar non sogna,
Va Botticello, e torna botte piena.

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Savonarola non sembra proprio un giocherellone.

Intorno al 1480 Sandro Botticelli imbastì un cantiere nella chiesa d’Ognissanti, a Firenze (dove oggi, fra l’altro, è sepolto). Andava dipingendo un Sant’Agostino e, oltre al via vai d’allievi che gli davan mano e di fedeli che pregavano, ebbe modo di conoscere le abitudini dei frati della zona. E infatti era proprio in piazza Ognissanti che, intorno alla prima metà del Duecento, si erano installati gli Umiliati, un ordine che predicava la castità, e il ritorno a costumi più umili e austeri. Lì tenevano i loro sermoni. Lì avevano eretto il loro convento. Quella era la loro chiesa. L’affresco per composizione, luci, significati è rigoroso. Il santo sta in mezzo ai suoi alambicchi umanistici: libri di geometria, sfere, calendari, oggetti astronomici. Vicino alla sua testa un orologio indica l’ora del tramonto. Non è un dettaglio casuale. Anche qui Botticelli chiama in causa l’osservatore. Lancia una carta. Attende il turno dell’altro. Gioca. In una delle sue epistole sant’Agostino ci racconta infatti che una volta – il sole era quasi calato e l’uomo meditava da così tanto da aver perso il senso del tempo – ebbe un’illuminazione. Afferrò la penna per scrivere all’amico Girolamo. Ma proprio in quel momento Girolamo apparve. Lì, nel suo studio. Disse che la beatitudine non si può pensare, immaginare. Si può vivere. E basta. Lui, in quel momento, la stava vivendo. Perché lui, Girolamo, proprio in quel momento, era morto. Il dipinto di Botticelli ci racconta questo straordinario evento. Ma non è finita qui. A fianco dell’orologio c’è un libro aperto. Non si legge niente perché la scrittura è simulata in scarabocchi. Non si legge quasi niente. Perché in mezzo a tutti quegli scarabocchi l’osservatore attento troverà una frase di senso compiuto: «Dov’è fra Martino? È scappato. E dov’è andato? È andato fuor dela Porta al Prato». Nel corpo d’un affresco Botticelli inserisce un invisibile accenno alla vita quotidiana. Una battuta, svolta con ironico biasimo. Il riferimento, probabilmente, è a uno dei frati umiliati che Sandro vedeva tutti i giorni al convento. Questi aveva avuto una crisi mistica, aveva perso la trebisonda per qualche pulsione di troppo, e se l’era data a gambe levate. Ma Botticelli non si limitava a manipolare le proprie opere. All’occorrenza lo faceva pure con quelle altrui. Una volta Sandro riuscì a piazzare per la cifra di sei fiorini un tondo fatto da Biagio, un suo allievo. Glielo comunicò e disse che l’acquirente sarebbe giunto il giorno dopo per vedere l’opera. Biagio, tutto contento, petto in fuori, e gonfio d’amor proprio, se ne andò a casa. Sandro no. Sandro restò. Tutta notte in bottega. Con un altro suo allievo, Jacopo. A lavorare febbrilmente. Senza pause. Tenuti svegli da quell’agitazione incontenibile e bambina che, da secoli, da sempre, sorregge gli artefici dello scherzo nella preparazione degli scherzi. Ed ecco cosa fecero: prima si addentrarono nella notte, raggiunsero l’acquirente, lo persuasero e tramarono un piano. Poi tornarono in bottega e «fecero di carta otto capuci a uso di cittadini, e con la cera bianca gl’accommodarono sopra le otto teste degl’Angeli, che in detto tondo erano intorno alla Madonna». Infine attesero. Eccitatissimi. Quando Biagio, alla mattina, entrò in laboratorio con il compratore e vide i suoi angeli avviliti da quei cappucci rossi divenne una statua di cera. Serrò i denti per non cacciare un ululato di terrore e disperazione. Facendo spallucce, sudato fradicio dall’imbarazzo, si voltò verso il compratore per scusarsi. Con suo enorme sorpresa lo trovò estasiato. Egli annuiva e lodava l’opera. Biagio accompagnò il complice-compratore a casa e prese i sei fiorini di pagamento. Qualche ora dopo tornò in bottega. I cappucci non c’erano più. Il tondo era come lo aveva fatto lui. Disse: «Maestro mio, io non so se io mi sogno, o se gli è vero; questi Angeli quando io venni qua havevano i capucci rossi in capo, e hora non gli hanno, che vuol dir questo?», balbettò.
«Tu sei fuor di te Biagio, disse Sandro. Questi danari t’hanno fatto uscire del seminato», fu la lezione del maestro nelle parole del Vasari.


Nel corpo d’un affresco Botticelli inserisce un invisibile accenno alla vita quotidiana. Una battuta, svolta con ironico biasimo. Il riferimento, probabilmente, è a uno dei frati umiliati che Sandro vedeva tutti i giorni al convento. Questi aveva avuto una crisi mistica, aveva perso la trebisonda per qualche pulsione di troppo, e se l’era data a gambe levate.


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Ai pittori piace davvero scherzare.

Meno edificante fu la lezione che Sandro Botticelli affibbiò, invece, a un suo vicino. Questi era un tessitore. Senza preoccuparsi del disagio che avrebbe potuto procurare, aveva installato in casa otto telai e li faceva andare notte e giorno e causava un gran frastuono, facendo persino ballare i muri di casa. Sandro si recò dal vicino e gli chiese di moderarsi. Perlomeno negli orari. Questi lo squadrò per traverso e con un sorrisetto arrogante ebbe l’ardire di pronunciare le seguenti parole: «In casa mia voglio e posso far quel che mi piace». Pur indispettito dalla risposta Sandro non fece una mossa. Non lo attaccò al muro. Non chiamò parenti o altri vicini a sostenerlo. Tornò in casa, e cominciò a costruire. Con pazienza. Un’impalcatura. Poi uscì e, non si sa dove, e non si sa dopo quanto tempo, tornò con un macigno. Sì, con un masso di dimensioni stratosferiche. Lo montò sull’impalcatura e lo lasciò poggiato sul muro in comune. Il muro di casa Botticelli era più alto di quello del vicino. E così, ogni volta che il tessitore attivava l’attrezzatura e che la casa di Sandro ballava, ballava anche il masso. Un terremoto. Un inferno. E ballava il masso, rischiando di bucare il muro, rischiando di sfondare il tetto, rischiando di rotolare sulla testa del tessitore e di spiaccicarlo. Quando l’uomo si presentò da Sandro, ormai vinto, il pittore rispose: «In casa mia voglio e posso far quel che mi piace». L’aneddoto in realtà, più che una lezione di vita, è una vera e propria vendetta. Una di quelle vendette, però, svolte con classe e con disciplina. Che rilanciano, appunto, l’affronto al di là del muro. Botticelli gioca, anche qui. Persino con i superbi. Persino con chi lo irride. E lo fa con un gusto e con una serietà che sono stupefacenti. Sandro non chiuse la partita. Semplicemente, la sua mossa fu così ben assestata e sapiente, che l’avversario rimase sgomento, non trovò la forza di reagire. Ma il gioco avrebbe potuto proseguire. Il vicino avrebbe potuto rinforzare il muro, andarsi a cercare un sasso più grande. Rilanciare la sfida. Botticelli avrebbe allora costruito un argano grande quanto una cattedrale e avrebbe piazzato sulla testa del malcapitato tessitore una nuova, colossale minaccia. Una cupola, magari. Un meteorite. Così, all’infinito. Già, chissà cosa sarebbe accaduto se Sandro Botticelli avesse incontrato, almeno una volta nella vita, un altro Sandro Botticelli…


forse-non-tutti-sanno-che-a-firenze_7115_di Francesco D’Isa e Matteo Salimbeni, da Forse non tutti sanno che a Firenze… Newton Compton, 2015.

Immagini: (c) Wikimedia, Newton Compton, Surrealismo medievaleStańczyk by Jan Matejko, Nascita di Venere, di Sandro Botticelli, Moretto da Brescia, Ritratto di domenicano. A Dalmatian Sea Monster, di Poggio Bracciolini.

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