Affonda

L’agosto letterario de L’indiscreto – cioè l’unico mese dell’anno che dedichiamo alla narrativa anziché alla saggistica – sta per concludersi. Oggi un racconto di Fabio Rodda, che ringraziamo.


IN COPERTINA un’opera di gracie de vito

di Fabio Rodda

(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)

 

Vedo un uomo che sogna in un mondo che affonda
Dentro un uomo che sogna
Posso solo fuggire non potete capire
Perché voglio fuggire
Sogna – Ritmo Tribale

 

Jerôme cercava di riprendere fiato, le mani tremanti graffiavano l’asfalto umido spazzato dai dread a penzoloni. La camicia a scacchi strappata era sporca del sangue che ancora gocciolava dal sopracciglio spaccato. Luca tossiva chiazze rossastre nel gomito del maglione. Si massaggiava la nuca, accucciato contro il guardrail con le ginocchia al petto, i capelli biondi spettinati gli cadevano sul livido bluastro che si gonfiava sulla fronte. Respirava l’odore ferroso che continuava a riempigli la bocca e che sputava tra gli anfibi slacciati; si strattonava un dente: «Vara, quella testa di cazzo me ha spacà la bocca, mi dondola tutto». Jerôme si era seduto e si teneva il fianco sinistro. Inspirava profondamente, apriva e serrava il pugno libero a pochi centimetri dagli occhi scuri, il palmo chiarissimo sotto la pelle creola. Fissava le sue nocche sbucciate: «Almeno je l’ai tiré un claque, due ganci li ho dati a quei fils de pute». Manuel, qualche metro più in là, la schiena appoggiata a un cassonetto, tentava di prendere boccate d’aria densa e gelata guardando il buio sopra di loro. La maglietta dei Marlene Kuntz strappata sotto al chiodo, inghiottiva lacrime che non voleva far vedere a nessuno. Di nuovo per terra. Di nuovo, qualcuno lo aveva messo giù, al tappeto. Di nuovo, amici che stringevano ferite. 

Un’ora prima erano tutti e tre al bar Àncora di Cles a bere birraccia e bourbon. Era l’autunno del 2001, e scappare da Bologna, dalle droghe, dall’ansia dell’Emilia paranoica gli era sembrata un’ottima idea. Staccare per un po’, riprendere fiato, fare fatica, stancarsi a tirar giù mele, pomi, come dicevano quelli di lassù. Forse, riuscire a dormire la notte. Mollare tutto: feste, libri, quello che restava del movimento.

Luca era scappato di casa. Nessuno sapeva la sua età: lui diceva a tutti di avere quattro anni, il tempo passato a vivere per strada. L’accento tradiva il Veneto, forse della bassa, chissà. Di lui non si poteva conoscere nulla che risalisse a prima del 1997. Jerôme era francese, di Marsiglia diceva lui, forse per darsi un tono da delinquente o forse perché era nato veramente lì, dove la Costa Azzurra si dimentica per un attimo turisti e allegria, vacanze e barche a vela, per mostrare la sua faccia meticcia e rabbiosa. Rubava tutto ciò che poteva e lo ammetteva senza colpa: la vita non gli aveva dato quello che regalava agli altri, e lui se lo prendeva. 

Si erano incontrati lì, in quel bar, una settimana prima: tre randagi stanchi dalle dieci ore di lavoro nei campi, che non avevano voglia di rimanere nei paesini, nelle stamberghe o nei garage in cui li facevano dormire i padroni. E, allora, Cles era l’unico porto in cui andare a sbattere la testa e l’Àncora l’unico bar in cui non venir guardati storti dai paesani.

«Oh, ma hai sentito del tizio a Nenno? Quello caduto dall’échelle, dalla scala? Dicono qu’il est mort.»

«Ma no, Jerôme, ti te bevi qualsiasi puttanata. L’è in sedia a rotelle, questo sì!», aveva sentenziato Luca, seccando uno shot di Four Roses, «L’è capità la, vicino a ti, Manuel. Ne sai niente?».

Manuel scosse la testa. Aveva sentito qualcosa su un tizio di colore caduto male da una scala, ma in paese non s’era detto altro. Non aveva voglia di pensarci, su quelle scalette malferme ci passava la giornata, sotto il sole o la pioggia che fosse. Buttò giù il whyskaccio e uscì. L’aria era grassa, pareva servissero le branchie per respirarla; come pochi mesi prima, come quel pomeriggio, quando aveva perso Dimitri e Laura nella confusione, quando il cielo estivo era diventato scuro di fumo. 

Luca gli schioccò le dita davanti agli occhi: «Tuto ben, toso?»

Manuel respirò come se fosse in apnea da un’ora: «Sì, sì, mi ero… niente. Birra, eh?»

Qualcosa di viscido gli si appiccicava sulla pelle, quella sera. Qualcosa di melmoso che lo teneva attaccato a quel maledetto pomeriggio di luglio. Era lì con la testa come non gli capitava da settimane. Anche lassù, in quella valle piena di nulla e di mele, la violenza bussava e non lo lasciava in pace. Poteva annusarla sotto le nuvole cariche che lampeggiavano nel cielo indaco attraversato da tuoni lontani, fuori dalla porta spalancata del bar.

«Ce ne andiamo, ragazzi?»

Luca guidava una Renault 4 rossa scassata con più buchi di canne nella tappezzeria che vernice sui parafanghi, ma camminava e, senza quella, sarebbero davvero impazziti a sgobbare tutto il giorno e stare al bar del paesello tutta la sera, a sentire i vecchi lamentarsi della gentaglia che andava su a far la raccolta, come se non fossero lì anche loro, come se fossero fantasmi. 

Partirono verso nord, pochi chilometri di statale e, se non li avessero fermati gli sbirri, sarebbero arrivati in meno di venti minuti. Era ancora presto e nessuno aveva veramente voglia di andare a dormire. 

«Ehi, ragazzi. Ma se ci beviamo le dernièr?»

«Ma non l’abbiamo già fatto l’ultimo? Mica è Capodanno. Domani si lavora…»

«E, dai, Manuèl, che pappamolle. Dai, facciamo un “à la tienne” final e andiamo dormire.»

«Mi guide e fae quel che volé voialtri.»

«Le dernièr, le dernièr! L’ultimo, dai: facciamoci quattro risate! Dai, c’è quel bar de merde sulla strada.»

«Ma lì ci vanno solo i contadini…»

«M’en fouti! E chi se ne frega? Andiamo e gli cantiamo la chanson de pomme. E ci facciamo due ghignate.»

A Manuel l’idea non piaceva, non l’avrebbero presa a ridere. Quelli della valle non avrebbero apprezzato i rasta di Jerôme, né il piercing sul labbro di Luca. Non i suoi Levi’s neri a sigaretta infilati negli anfibi. Di loro, non sarebbe piaciuto niente ai figli ricchi dei contadini, coi jeans slavati sulle Timberland chiare e i bicipiti gonfi nelle polo. Ma bisognava farsi l’ultima e buttarla in vacca, farsi una risata e chissenefrega. Bisognava riderci su. Bisognava. Il temporale che non voleva esplodere faceva mulinare le foglie a bordo strada e caricava l’aria di ioni negativi. Entrarono nel parcheggio, scesero dalla macchina e si guardarono negli occhi per un momento. Luca indicò la porta del bar. Manuel lo fissò: «Due risate?»

«Do risate», sorrise Luca.

Ma, forse, quella sera non avevano voglia solo di ridere. C’era un bolo nero in fondo allo stomaco che le bevute dell’Àncora avevano ribaltato e portato su, qualcosa che era risalito lungo l’esofago a riempire la gola. 

Erano entrati decisi. Si erano abbracciati e avevano spinto la porta di quel bar di provincia: «C’avete solo i pomi, c’aveeete sooolo i poooomiiii!». La stanza, un profondo odore di muffa malgrado le perline d’abete, era crollata in un silenzio di ghisa. Luca aveva allargato il suo sorriso pazzoide in faccia a un tizio sulla trentina che lo fissava da un tavolino con le carte spianate davanti. «Dai, su! Si schersa, dai: c’aveeeete solo i poooomi, c’aveeeete solo i…», ma non aveva finito la strofa perché era crollato con un tonfo sordo sul pavimento scuro al primo colpo dritto in faccia. I due grossi appoggiati al flipper avevano lasciato che la pallina cadesse nella buca suonando una stupida musichetta, per prendere Manuel e gli altri e ributtarli oltre la porta da cui erano appena entrati. I berrettini da baseball in testa, le Lacoste stirate e le mani pesanti: li avevano riempiti di botte per una decina di minuti. Solo Jerôme, i muscoli rabbiosi, aveva tenuto testa a un paio di loro. Messi a terra Luca e Manuel, il branco si era occupato del negro, come lo chiamava fra un calcio e l’altro. 

Avevano smesso solo quando la vecchia proprietaria del bar era uscita nel parcheggio urlando qualcosa in dialetto. Bassa e tozza, la gonna nera lunga fino ai piedi, aveva comandato a voce alta e quelli se ne erano andati coi loro pick up e fuoristrada.

«Ve la siete cercata, boce.», aveva sentenziato la donna, sforzando una frase in italiano. Nel pugno, teso verso Manuel che la guardava dal basso, uno straccio chiaro riempito di ghiaccio. 

«Era uno scherzo, signora. Solo un gioco.»

Lei aveva abbassato gli occhi, lo aveva fissato un istante per rialzare la fronte verso il nulla: «Voialtri de fora non imparerete mai. Mai boni de tegnìr a bada le lingue. De tàser. Né a casa a dormire. Né via!» 

Le luci dentro la stamberga di muri storti e legno si erano spente col rumore della chiave che girava nella toppa. 

Manuel si alzò dolorante. Ci aveva provato a non odiare. Ci aveva provato a mandar via quella rabbia dal fondo della pancia. A dirsi che davvero stavano solo scherzando. Era scappato da tutto questo, dalle botte, dai manganelli di una città che prima di quell’estate era solo un porto e una scuola di cantautori. Digrignava i denti: «Avete visto la testa di cazzo col pick up rosso?»

«Mi ho vist solche na pioggia de pugni. Pezzi de merda.»

«Quell’enculé con la maglietta bianca? Oui che l’ho visto, la merde. Pourqua, Manuél?»

«Perché so dove sta. È un amico del figlio di puttana per cui lavoro. Un pomeriggio, dopo il campo mi ha portato da lui ad aggiustargli l’antenna della tv. Ha una casa gigante. Non è lontana da dove dormo io. La porta del garage si apre solo a guardarla.»

Jerôme sorrise, fece sì con la testa. Luca salì in macchina e accese il motore. 

 

Era quasi mezzanotte. Tutto taceva, a parte il brontolio sommesso del cielo che, illuminato dai lampi, ora pareva una lastra di zinco. Avevano spento il motore, fatto scendere la macchina in folle fino al garage che era la casa di Manuel per quel mese in Val di Non. Lì c’era la stufetta a legna al centro della costruzione bassa di cemento grezzo, l’unico modo per asciugarsi dopo le ore di lavoro nei giorni di pioggia. Lì c’era tutto quello che serviva. Entrarono e uscirono senza far rumore. Nel buio della notte umida, non si sentivano nemmeno i loro passi sulla strada sterrata che portava fuori dal paese. 

Manuel indicò con un movimento della testa la casa bianca che spiccava nel buio a qualche decina di metri. Jerôme la guardò cattivo, Luca era pallido e senza espressione. Camminavano in fila indiana. In pochi minuti erano al garage sul retro. Jerôme, un ferro curvo nella toppa, ruotò la maniglia nera così lentamente che nemmeno sentirono scattare la serratura. Erano dentro. Diavolina, giornali, legna secca. Sotto al pick up. Sotto la caldaia che puzzava di gasolio. Manuel sentiva lo stomaco espandersi e contrarsi come una spugna, come qualcosa di vivo che trasudava rabbia. In fondo, quello che davvero non sopportava della violenza, era chi riusciva a voltarsi senza farsi contagiare. La vigliaccheria dei giusti. Trattenevano il fiato. Gli accendini illuminarono occhi persi, immersi ognuno nel proprio buio sconosciuto agli altri. 

Uscirono. Camminavano lenti verso la cima della stradina di terra battuta. Si sedettero sotto una pioggia sottile che cominciava a bagnare la terra nera. Si sentì il rumore sordo di qualcosa che scoppiava. Le luci al piano di sopra che si accendevano. Un’esplosione appena più forte, forse la caldaia a gasolio non era ancora stata riempita. 

Mai come allora, all’alba di un nuovo millennio, tutto puzzava di violenza: denaro e violenza, potere e violenza, sottomissione e violenza. Seduti sui calcagni, Jerôme e Luca fissavano la casa che prendeva fuoco. Nell’aria le urla di una donna e le bestemmie del padrone, usciti sul prato. Manuel, gli occhi chiusi, sentiva fischiare i lacrimogeni, l’odore acre che gli riempiva la gola. Sentiva le urla delle compagne picchiate a sangue nella Diaz, i piercing strappati dai capezzoli, quel pomeriggio nella caserma maledetta; i manganelli usati per sodomizzare. Vedeva le teste spaccate, i Defender che correvano, che passavano sopra a mani alzate, a un corpo ormai senza vita. Riviveva l’angoscia di quel pomeriggio, quando aveva perso Dimitri e Laura nel caos. Il panico, quando aveva visto una ragazza trascinata per strada, un bikini nero e una tuta da operaio con le maniche legate in vita. Era scomparsa dentro un furgone senza scritte, buttata su a forza da sbirri in borghese. Era Laura? Cose le avrebbero fatto? Aveva provato a urlare, a correre verso di lei ed era stato placcato da qualcuno coi capelli fucsia. Dimitri, spuntato dal fumo, che lo trascinava dietro a un cassonetto. Un attimo dopo, una jeep dei carabinieri era sfrecciata nella nebbia acida che riempiva l’aria, proprio dove lui stava correndo. Vedeva lampi di sangue. Dimitri preso alle spalle, due guanti neri attorno al collo, e sparito in un attimo. Corpi claudicanti al Carlini, quella sera. Ragazzine che piangevano. 

Ci aveva provato a scappare da tutto quell’odio, da quella rabbia. Laura in ospedale, che non voleva parlare con nessuno. Dimitri su un treno per Berlino, dove sognava di poter fare la sua musica in un posto che ancora un po’ gli somigliasse. Lui, rimasto solo, a Bologna a domandarsi cosa fare dei suoi vent’anni. “Qualora non venga soddisfatta, la violenza continua ad immagazzinarsi finché a un certo punto non trabocca e si spande intorno con gli effetti più disastrosi.”, una frase di Girard che non gli si levava dalla testa: ricordava quando era uno studente di filosofia all’Università. Quando la mattina stava in aula e i pomeriggi in assemblea. Le notti lisergiche a ballare e cercare nuove visioni. Un tempo era finito e uno stava iniziando. E, Manuel l’aveva capito bene, per quelli come lui non ci sarebbe più stato posto.

 

Aprì gli occhi all’improvviso, come al risveglio da un incubo. Una finestra si illuminò in alto: il volto di una bambina si affacciava perplesso. Un istante, e un botto fece tremare la terra e i vetri della casa esplosero in una spaventosa fiammata. Il poggiolo scivolò giù come carta bruciacchiata. Manuel si alzò in piedi. La donna si mise a correre verso la porta d’ingresso rimasta spalancata, l’uomo la placcò. Luca e Jerôme si guardarono: «Andiamo via! Vite, vite mes amis!» 

Manuel non rispose. I due sparirono nel buio. Il tizio che qualche ora prima li aveva massacrati ora si muoveva in tondo, come un roditore impazzito, in una danza macabra davanti alla sua casa in fiamme. 

I soccorsi. Bisognava chiamare qualcuno. Ci avrebbero comunque messo troppo. 

La donna si divincolò, Manuel la vide correre verso lo scheletro della porta che sputava lingue di fuoco. Ci fu un grido e poi un silenzio irreale abbracciò il buio che affondava in un’alba metallica.

 

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