Andy Warhol era il mio psicoterapeuta, negli anni ’70. Una volta a settimana andavo da lui coi miei problemi e gli parlavo del mio ultimo arresto, il mio ultimo litigio di coppia, o divorzio – quello che era capitato in settimana. Lui mi rispondeva sempre e solo «Non importa», poi chiedeva se avevo visto quella trasmissione in TV ieri sera, «quella con Mary Tyler Moore? Com’è invecchiata ultimamente», diceva, «sono sicuro che ha i brufoli e il cameraman prova a nasconderceli. È così, la TV».

E andava avanti in questo modo, settimana dopo settimana. Qualunque trauma portassi in seduta, non faceva differenza, era come se non avessi detto niente. Andy semplicemente rispondeva parlando dei fatti suoi.
La situazione iniziava a farsi frustrante, e in me montava la rabbia di chi non si sente ascoltato. Un giorno, allora, l’ho affrontato, gli ho detto che pensava solo a se stesso e che ero stanco di sentire le sue cazzate su TV, gente ricca, gente famosa, hot dog e Coca Cola. Volevo una risposta umana. Volevo che mi dicesse perché mio padre se n’era andato di casa quando avevo otto anni. Perché mia madre era morta quando ne avevo quattordici. Infuriato fino a contrarre le mani e tremare d’ira, tiravo pugni ai muri e calci ai mobili.
Quando mi sono stancato, Andy ha detto solo che sembravo molto arrabbiato e che forse dovevo guardare un po’ di TV, o mangiare qualche caramella o magari un hot dog: «Ho delle bibite in frigo se vuoi, le ho prese da Schwarz, sulla Quinta».
Mi sentivo completamente perso. Mi sentivo vuoto e frustrato, nemmeno il mio terapeuta mi ascoltava. Ho guardato in giro per la stanza, ho visto una foto di Marilyn Monroe. Mi era sempre stata indifferente, e ho pensato che forse era questa, la mia condizione; era questa, la vita – un bombardamento di immagini ricorrenti di persone che non conoscevo davvero. Persone con cui mai avevo, o avrei, avuto contatti. Un mondo di superfici dissociate. Ho guardato la faccia impassibile di Andy e gli ho detto che mi sentivo vuoto, e per la prima volta mi ha ascoltato. Ha risposto: «Perché non provi a vedere della televisione?, c’è qualche programma davvero bello».
In questa risposta futile e superficiale qualcosa mi è stato di conforto, un’universalità condivisa che rendeva possibile un legame, tra noi due, e abbiamo proseguito per un po’ a parlare di come ci si sente a doversi allacciare le scarpe tutti i giorni, e di quanto è noioso respirare, farlo di continuo, senza potersi trattenere.
Al termine della seduta, ho pagato Andy e sono andato avanti con la mia vita. Andy non era più il mio terapeuta, ma nel corso degli anni è capitato ogni tanto di trovarci per una Coca in giro, o a qualche frivolo raduno d’arte, e di scambiare le nostre osservazioni superficiali. Adesso avevo compreso che la mia vita precedente, in gran parte, era stata puro e semplice atteggiamento reazionario. Adesso apprezzavo il fatto che le mie reazioni emozionali al mondo fossero prive di conseguenze, in una cultura di immagini infinitamente ricorrenti, e il fatto che io non fossi nulla, di fronte a questo assalto – un vuoto in un mondo pieno dei detriti delle idee di altri popoli. Capivo che non potevo più arrabbiarmi per questo, non più di quanto potessi arrabbiarmi perché avevo cinque dita in ciascun piede. Il senso di perdita e il risentimento verso il mondo si erano dissolti, e da lì in poi è sembrato che la vita mi scorresse attraverso – più leggera che una sitcom popolare attraverso il cervello.
Molti anni dopo, quando mi è stato chiesto di scrivere dei metodi terapeutici di Andy e di come avevano funzionato nel mio caso, mi sono ricordato di quel senso di perdita. Inventare una risposta a questa richiesta era come introdurre nella mia natura qualcosa che non le apparteneva, come mettere una domanda gratuita tra me stesso e il mondo. Dopotutto, non importava perché fossi com’ero, e non importava perché Andy fosse com’era – se riesci a essere assente a te stesso, è una cura a cui non serve spiegazione.
Ricordo che una volta Andy e io stavamo chiacchierando, e lui ha suggerito che potesse fare bene, alle persone, avere un “tautologo” anziché un terapeuta. Qualcuno che ti ripeta tutto quello che dici, o comunque ripeta qualcosa in continuazione. Diceva di aver visto repliche di programmi televisivi, di averle viste così tante volte da aver visto l’intero processo di rendimenti progressivamente decrescenti man mano che il programma si faceva sempre più familiare e sempre meno interessante, per capire, alla fine, che è quello che è. Un tautologo, suppongo, direbbe la stessa cosa.
-->Soren James, Andy Warhol, or My Tautologist Said The Same, in Every Day Fiction (www.everydayfiction.com), 16 marzo 2014. Traduzione italiana di Daniele Zinni (DUDE MAG)
Questo racconto è tratto da Materiale d’importazione vol. 1, un ebook gratuito pubblicato da DUDE MAG con quattordici racconti selezionati e tradotti dall’inglese, illustrati da Fabio Pistoia. Si tratta di storie molto diverse per genere ed esperienza di lettura, accomunate dal formato della flash fiction, ossia da una lunghezza inferiore alle 1500 parole. Ce ne sono di divertenti, inquietanti, malinconiche, illuminanti, e molte, nonostante la brevità, riescono a essere più di una cosa alla volta. Tra gli autori che le hanno scritte ci sono esordienti assoluti e autori pluripremiati, uomini e donne, giovani e meno giovani, provenienti da almeno tre continenti diversi.