Antipatia, l’emozione inconfessabile

Qual è la natura profonda di un’emozione incoffessabile come l’antipatia?


In copertina, Joanna Górska, Resistance I (2007). Courtesy Centre of Contemporary Art Znaki Czasu

Questo testo è tratto da La vita segreta delle emozioni, di Ilaria Gaspari. Ringraziamo Einaudi per la gentile concessione.


di Ilaria Gaspari

Le nostre esperienze ci seguono; le nostre antipatie ci precedono.

Leo Longanesi 

Quando porto a spasso il mio cane – anzi, meglio dire: quando il mio cane mi porta a spasso, perché prima che me lo insegnasse lui non avevo mai saputo cosa volesse dire aggirarsi senza meta per le strade del quartiere, sempre le stesse, e fermarsi ogni due per tre, lui per annusare qualche oscura traccia di liquami sul marciapiede, una foglia, la terra umida alla base degli alberi, una cartaccia che forse un tempo ha ospitato un panino con la mortadella; io per guardare finalmente il cielo, le nuvole, il sole, la pioggia che arriva, le ombre sull’asfalto. Insomma: quando ce ne andiamo a spasso, badando ognuno a modo suo alla stessa porzione di mondo, lui principalmente tramite l’olfatto, come si conviene ai cani, io principalmente tramite la vista, il senso preponderante degli umani, si verifica con frequenza impressionante un evento di capitale importanza nella vita quotidiana di un cane urbano: l’incontro con un altro cane. 

Cani con guinzagli allungabili, cani senza guinzaglio, cani con guinzagli da allenamento, con cappotti da pioggia, cappottini scozzesi, collari istoriati o sportivi, pettorine, bretelle quasi; cani minuscoli o giganteschi, cani con codina mozza o con coda a piumino, orecchie pendenti, sporgenti, pelose, orecchie fasciate in fasce speciali per cocker; cani con occhi a palla esorbitati, cani con occhi azzurri, con occhi languidi, occhi tristi, occhi grandi; cani con nomi di persona, con nomi di cose, come Pizza o Macchia o Virgola; cani con nomi da cani come Briciola o Birillo, cani con nomi snob come Lapo, con nomi incomprensibili o inspiegabili, cani con nomi perfetti per la loro fisionomia: tutta quest’infinita varietà di cani, per quanto siano variegate età, abitudini, fattezze, dimensioni, segue un identico cerimoniale. Le bestiole si avvicinano, al guinzaglio dei padroni che si sorridono con vago imbarazzo, o anche senza imbarazzo, dipende dal carattere, perché anche per loro vale quello che vale per i cani: si incontrano, e devono capire chi hanno di fronte. Solo che per i cani, almeno ai nostri occhi umani, la liturgia ha una semplicità disarmante, che qualche volta, lo confesso, mi sorprendo a invidiare. Si avvicinano, si annusano a vicenda, anzi, annusano i rispettivi deretani, e da quella semplice sniffatina, che talvolta può prolungarsi per diversi secondi, addirittura minuti, traggono le loro conclusioni. Capiscono se si amano, nel qual caso tentano immediatamente di dimostrarselo, senza por tempo in mezzo, incuranti del sorridente disagio dei padroni. Capiscono se si trovano perfettamente indifferenti, circostanza rara ma pur sempre ammissibile. Capiscono, soprattutto, se si detestano: e in tal caso la situazione si fa subito tesa, almeno per come la vedono i padroni, che naturalmente non possono prescindere dal proprio sguardo sulle cose – basti pensare che qui non ho altre parole da impiegare che antipatia, indifferenza, innamoramento: parole umane che applico a reazioni e relazioni canine, in mancanza di meglio. È molto difficile, per chi ha un cane, abituarsi a quel genere – immediato, superficiale, passeggero – di aggressività. Allo stesso tempo, è istruttivo: un cane violento è una cosa, un cane che ringhia per antipatia è incidente di poco conto. E non c’è da sgridarlo, o da arrabbiarsi; è la sua indole, non la volontà, a guidarlo. 

Conosco i nomi di tutti o quasi i cani del circondario; piú raramente quelli dei padroni, perché viene spontaneo, nel contesto degli incontri canini, concentrarsi sui quadrupedi, su quel che combinano. Anche noi padroni, però, durante la sequenza di annusatine, sbuffi, ringhi, guaiti, uggiolii, di salti e piroette, ci scambiamo qualche parola, qualche sguardo, che equivalgono un po’ allo sniffarsi compulsivo dei cani, ne sono una versione urbana, civile, repressa: perché se il risultato di questi sondaggi dovesse essere un’istintiva antipatia (ci avete mai fatto caso? Fra uomini, e fra cani, al contrario degli innamoramenti, le antipatie sono quasi sempre reciproche!), noi umani non avremmo il permesso, pena la rottura di un patto di civiltà, di gettarci a capofitto nella zuffa, di inscenare una lotta improvvisata, né di ringhiare e allontanarci senza colpo ferire. Possiamo solo rimanere lí impalati, e cercare di far cadere la conversazione, con il desiderio di stare da tutt’altra parte. 

Con l’antipatia coltivo un rapporto difficile, travagliato. Soffro di quella che mi ispirano gli altri; ma anche, a ben guardare, di quella che posso suscitare io. Mi accade da sempre, dubito che riuscirò a cambiare. D’altronde, come spiegava egregiamente Spinoza a margine della sua teoria degli affetti, non ha nessun senso costringersi a trasformare per via razionale quello che sentiamo. La vita emotiva non sente ragioni, a poco valgono i tentativi razionali di reprimere i moti dell’animo: lo scarso successo dei miei sforzi per tenere a bada l’antipatia ne sarebbe, da solo, la prova perfetta. 

Mi è capitato, come a tutti, di incontrare persone che non mi piacevano: ho compreso al primo sguardo, alla stretta di mano, quel che il mio cane avverte annusando l’aria in prossimità di un altro cane. L’ho sentita come un istinto, un richiamo alla fuga, l’antipatia; mi sono sentita colpevole, umiliata dalla mia stessa sommaria fretta di giudicare. E allora ho fatto una cosa che non avrei dovuto; perché quello che avrei dovuto fare sarebbe stato tenermi la mia antipatia, temperandola magari di civile buona educazione, tenermi anche, eventualmente, un poco di quel senso di colpa – non bisogna mica essere perfetti – da trasformare alla prima occasione nella possibilità di cambiare idea, di ricredermi. Cosa che forse poi sarebbe avvenuta naturalmente, se solo la vergogna, il fastidio per me stessa (il cui correlativo speculare ero io, io, io che volevo essere quella simpatica, quella buona, quella nel giusto) non mi avessero spinta a compensare i sentimenti di avversione con un’apertura esagerata, una gentilezza affettata, una giovialità direttamente proporzionale a quella prima antipatia. Cos’è successo poi, ogni santa volta? Cocenti delusioni. Ho scoperto che l’antipatia iniziale mi avvertiva, per una via quasi inconscia, dell’incompatibilità fra me e quelle persone; incompatibilità che mi sono imposta di cancellare come si riempie in fretta e furia una buca, riversandoci dentro tutto il mio desiderio di rimediare, tutti i miei buoni sentimenti, purché nessuno, anzi: purché io non mi avvedessi della mia stessa debolezza. 

Quello che posso fare, ora che so che non c’è modo di convincermi a uscire dal sentire, cosí robusto e idiosincratico, cosí immediato, dell’antipatia – nell’impossibilità di sbrigarmi a sfogarla e superarla, come fanno i cani –, è cercare di decifrarla: provare a capire perché la tal persona faccia vibrare quelle corde ostili, ben sapendo che anche se ogni emozione ha le sue cause, in parte arcane, e in parte, invece, rintracciabili con un poco di autoanalisi, non saranno mai vere e proprie ragioni, né tantomeno giustificazioni; se non altro, però, mi potranno aiutare a mettere una distanza fra me e la persona che tanto mi irrita. E la distanza, qualche volta, è già una protezione. Per non parlare del fatto che evitare di colpevolizzarsi per le proprie antipatie scongiura il rischio che crescano a dismisura in risposta alla repressione, come molle compresse a piú non posso che a un certo punto son costrette a scattare. Aiuta, anche, mettere in prospettiva la cosa; vedere che forse, da una certa distanza, possiamo anche trovare una logica nelle ragioni di chi da vicino ci pare irritante, comprenderle, riconoscendo che nemmeno noi siamo irreprensibili; per questo però, come vedremo, ci serve anche un po’ di letteratura. Esercitare lo sguardo alla distanza, comunque, è ben diverso da cercare di compensare con eccessiva giovialità il fastidio dell’antipatia: non va ignorato, né represso, se si vogliono evitare le disavventure che ho sperimentato fin troppo di frequente. Non sopravvalutarlo, quel fastidio, pena l’accumulare aggressività biliosa e soffrirne, né sottovalutarlo, pena il tradirsi e dunque inacidirsi fino a farsi bistrattare anche dall’antipatico redento: è una sfida sottile, quella che ci pone l’antipatia. Accettare di poter essere antipatici, poi, è un altro paio di maniche, sfida interessante pure quella; anche lí, devo dire, la letteratura mi ha insegnato parecchio. 

A ben guardare, l’antipatia è la cosa piú naturale del mondo – e forse per questo è cosí difficile da ammettere, da giustificare, da confessare: perché ha cause ma non ragioni, perché è un sentimento immediato, «naturale», anche se, come tutto quello che sentiamo, in realtà è mediata dagli inevitabili fattori culturali in mezzo ai quali ci formiamo, cresciamo, esperiamo il mondo e viviamo la nostra stessa vita. 

Ma qui dico naturale nel senso piú stretto e letterale della parola. Nell’Encyclopédie, l’articolo antipathie chiama immediatamente in causa la fisica: in fisica l’antipatia, sostantivo femminile, composto delle parole greche ἀντὶ, anti («contro») e πάθος, pàthos («passione», «affezione») indica «l’inimicizia naturale, o l’avversione di una persona o di una cosa per un’altra». Seguono gli esempi, che chiariscono in che senso mai il concetto di antipatia sia applicabile – come con disinvoltura riporta D’Alembert, autore della voce, rifacendosi a fonti antiche – anche alle cose: il che può forse suonarci un po’ eccentrico, ma ci offre anche la riprova del carattere potente e universale di questo sentimento di repulsione, opposto speculare della simpatia. 

Un esempio, continua la voce dell’Encyclopédie, è, a quanto si dice, la naturale opposizione reciproca fra la salamandra e la tartaruga (?), il rospo e la donnola (?!), la pecora e il lupo (l’ultima, quantomeno, la conoscevo anch’io). O l’avversione, altrettanto naturale e invincibile, di certe persone per i gatti, i topi, i ragni; avversione che qualche volta può portare chi la prova a svenire alla sola vista di questi animali. D’Alembert cita, come esempi estremi di antipatia, quelle che noi chiamiamo fobie; e in effetti, come dimostrerà un secolo e mezzo piú tardi Freud, studiando come un detective le paure dell’uomo dei lupi o del piccolo Hans alla luce della scoperta dell’inconscio, c’è spesso, nelle repulsioni forti e immotivate, una ragione nascosta, il cui perdurare nell’ombra corrisponde al persistere dell’avversione, o dell’antipatia, per dirla con D’Alembert. 

Il quale cita poi, da altre fonti, ulteriori esempi, «favolosi e assurdi»; noi diremmo, piú che altro, intrisi di pensiero magico, o comunque molto simili, almeno a un’occhiata superficiale, a superstizioni: l’idea che un tamburo di pelle di lupo farebbe rompere un tamburo di pelle di pecora (?) o che le galline prenderebbero il volo, al suono di un’arpa le cui corde fossero ricavate dal budello di una volpe. Segue un rimando alle voci musique e tarentule, cioè la malattia dei tarantolati, che per D’Alembert sarebbe uno dei casi di antipatia «piú reali». Peccato che Jaucourt, l’autore della voce sul tarantolismo, sostenga in quella sede che si tratti di una malattia inesistente, e dunque, a sua volta, di una leggenda superstiziosa. 

Boyle – continua D’Alembert – racconta di una signora che aveva una forte «antipatia» per il miele (e qui drizzo le orecchie, perché detesto il miele pure io); il suo medico, convinto che in quest’avversione dovesse esserci «beaucoup de fantaisie», vale a dire, che c’entrassero certe sue fantasticherie o, come diremmo oggi, che fosse una fissazione tutta psicologica, mescolò un po’ di miele in un impacco che fece applicare ai piedi della signora. Quale non fu la sua sorpresa quando si avvide di essersi sbagliato! L’impiastro provocò una fastidiosa irritazione, che li obbligò a liberarsi immediatamente del composto di miele per evitare altri danni. Benissimo, mi terrò lontana dagli impacchi di miele ai piedi, nel dubbio che anche nel mio caso si tratti di un’intolleranza fisiologica. Una signorina «della Nuova Inghilterra», invece, secondo il racconto di tale dottor Mather, aveva l’abitudine di svenire (e come biasimarla!) ogni volta che vedeva qualcuno tagliarsi le unghie con un coltello. E qui mi dico che sono fortunata a vivere in un tempo in cui questa discutibile usanza non viene praticata, non che io sappia, almeno, perché altrimenti mi troverei nelle stesse condizioni della signorina americana; la quale, comunque – continua la voce «antipathie» –, non faceva una piega se la suddetta persona, anziché ricorrere al coltello, si spuntava le unghie con un paio di piú civili forbici. 

Ad accumulare esempi del genere, osserva D’Alembert, si potrebbe andare avanti all’infinito. Oltretutto lui non se la sente, confessa, di mettere la mano sul fuoco a proposito della validità di questi casi che si trovano citati in letteratura. L’importante, dice, con ammirevole pragmatismo illuminista, è che l’esistenza delle antipatie è un fatto certo, e assodato come tale. 

Ma le cause? I Peripatetici, come correttamente riferisce D’Alembert, avevano per l’antipatia una spiegazione insieme fisiologico-naturalistica e misteriosa, scientifica e magica. A sentir loro le antipatie verrebbero da certe qualità occulte inerenti ai corpi. E, certo, qualcosa di vero ci sarà: lo dimostrano i cani che si annusano e capiscono, dall’odore, se si piacciono o si detestano; ma anche noi, che qualche volta, al solo vedere una persona, al sentirne la voce, o il passo, o il nome, istintivamente rabbrividiamo, ci ritraiamo all’indietro, ci infastidiamo e non sappiamo bene come dissimulare, senza tradirla, la repulsione incontrollata. Piú saggiamente, continua D’Alembert, i filosofi moderni confessano di ignorare la causa dell’antipatia – d’altra parte, per poterne abbozzare un’interpretazione soddisfacente bisognava aspettare la scoperta dell’inconscio. Ma la spiegazione che segue è una metafora splendida, nonostante mantenga un punto oscuro: il cuore opaco dell’antipatia, la sua imperscrutabile volubilità. Qualcuno, riferisce l’Encyclopédie, «ha preteso di spiegarla guardando il nostro corpo come una specie di clavicembalo, in cui i nervi sarebbero le corde. Il grado di tensione dei nervi, differente in ogni uomo, dà luogo, dicono costoro, in ognuno, a un diverso tremito al cospetto di uno stesso oggetto. E se questo tremito è tale da produrre una sensazione spiacevole», beh: ecco l’antipatia! Quello che però rimane inspiegabile, è «come un grado piú o meno alto di tensione, qualche volta con variazioni minime, possa produrre in due soggetti diversi delle sensazioni diametralmente opposte». 

Insomma, nessun uomo è un clavicembalo, eppure vibriamo, di simpatia, di odio, di avversione o ripugnanza; o, appunto, di antipatia. Fra tutti questi sentimenti, è l’antipatia ad avere il significato piú vasto e piú inclusivo: l’odio lo si prova per le persone, la ripugnanza, la meno durevole di tutte queste impressioni, la si riserva ad azioni specifiche; l’antipatia, invece, si può riversare indiscriminatamente su tutto. E, laddove l’odio avrebbe una radice piú volontaria (nel senso che può essere determinato anche da prese di posizione razionali), avversione, ripugnanza e antipatia nascono, piú che altro, dal temperamento. Le cause dell’antipatia, poi, sono le piú arcane di tutte; piú ancora di quelle dell’avversione. Come si spiega, infatti, l’antipatia per persone che non ci hanno fatto niente, e che esplode dalla prima volta che le vediamo? 

D’altra parte, noi non avremo magari le stesse possibilità rissose dei cani; in compenso, abbiamo la letteratura! Che è il piú formidabile mezzo per far deflagrare l’antipatia senza dover uscire dal consorzio umano, senza macchiarsi di crimini orribili, né spezzare il patto alla base del disagio della civiltà. 

Ci avete mai pensato? Non esisterebbero storie, se non fosse per gli antagonisti. Senza contrasto, senza qualcuno che si oppone al protagonista, che ne ostacola l’avventura, non ci sarebbero storie che valga la pena raccontare. Il lupo e la pecora citati da D’Alembert, il lupo e l’agnello della favola di Esopo. 

Il famoso schema di Propp, che disseziona la struttura universale delle fiabe, schiera di qua un protagonista, di là, invariabilmente, un antagonista. Ci vuole qualcuno che si scontri con l’eroe, che gli metta i bastoni fra le ruote, che cerchi in tutti i modi di farlo fallire. Le storie nascono dall’attrito, le antipatie ne sono il carburante. Oltretutto non è detto affatto che l’antipatico sia necessariamente l’antagonista – può essere anche il protagonista stesso. L’eroe. Sono pieni, i romanzi, di protagonisti insopportabili: Emma Bovary non è certo un mostro di simpatia, eppure seguiamo il suo dolore, la sua caduta, piangiamo quando muore. Holden Caulfield, che pure molti adorano, è piuttosto pieno di sé; Anna Karenina è una passivo-aggressiva; Marcel, il narratore della Recherche, fa cose orribili alla povera Albertine, è un sadico, un anaffettivo, un geloso patologico; o è solo ipersensibile? Non importa. Leggendo proviamo antipatie autentiche con i bersagli piú vari. Possono essere personaggi antipatici per costituzione – come il perfettamente detestabile Uriah Heep, un piccolo trattato di fisiognomica in forma di caratterista dickensiano, che ne combina di cotte e di crude, con il suo fare mellifluo, ai danni di David Copperfield – oppure loro malgrado, magari perché saputelli come Harry Potter, o sbiaditi come Lucia Mondella. Raramente, a ispirarci antipatie, sono i cattivi monumentali, che anzi si guadagnano in genere un affetto sincero e riconoscente: l’Innominato e Dracula, Stavrogin e Lady Macbeth hanno una maestosa grandezza che li fa amare molto piú di quanto non meriterebbero le loro azioni. Sono i cattivelli, i mediocri, i lamentosi, gli opportunisti senza scrupoli e senza senso dell’umorismo, a infastidirci nei libri (e spesso, nella vita!), quando li incontriamo. 

Fatto sta che l’antipatia, come la simpatia, non si attribuisce per merito; cosí i romanzi straripano di personaggi irritanti a cui in fondo si vuol bene, e di buoni che non possiamo soffrire. Amy March è insopportabile, capricciosa, brucia il manoscritto di sua sorella nel camino, le ruba il fidanzato (anche se lei l’ha respinto), anzi se lo sposa addirittura, dopo averle usurpato pure il viaggio in Europa; la detestiamo, ma finisce che amiamo persino lei, perché il miracolo della saga di Piccole donne è quello di riuscire a mostrarci la vita delle quattro signorine March in una prospettiva cosí larga, cosí aperta e perspicua, che ogni cosa sembra trovare il suo posto in un disegno pieno di falle, di ingiustizie, di dolori anche, ma che somiglia tanto – troppo – alla vita vera per non farci venire la tentazione di commuoverci e perdonare tutto. Tutto, tranne, a Jo, il matrimonio con il tedioso professor Bhaer, che dovrebbe starci tanto simpatico, che dovrebbe avere la nostra gratitudine perché le vuole bene, e che invece si guadagna strali per averci rubato la sorella ribelle, quella libera, quella che non doveva essere di nessuno se non di tutte le generazioni di lettrici e lettori che si sono immedesimate in lei. Lui l’ha trasformata in una donna come le altre, l’ha resa saggia, e noi su questo non possiamo soprassedere. 

C’è però, nell’antipatia che sentiamo da lettori (o da spettatori e ascoltatori di film, di serie e di pièce, persino di pettegolezzi, insomma di tutto quel che coinvolge il nostro interesse senza che siamo implicati nell’azione), una forza speciale, che secondo me è catartica. Quell’antipatia provata «in teoria», provata senza essere agita, senza la tentazione del senso di colpa, di compensare o riparare, che sempre porta guai; quell’antipatia anarchica, non adulterata; quell’antipatia, direi, disinteressata, rappresenta uno spazio di libertà fondamentale, per prendere confidenza con quest’emozione tanto difficile da confessare, ma anche da nascondere e da soffocare. Solo da bambini, forse – o da cani, se fossimo cani –, conosciamo, rispetto alle nostre antipatie, una libertà simile a quella che sperimentiamo da lettori. 

La vera palestra per allenarsi a un rapporto sano con l’antipatia, da adulti, è forse proprio la letteratura. Con i personaggi dei romanzi, pure con quelli antipatici, si instaura a poco a poco, con lo scorrere delle pagine, un legame di familiarità quasi affettuosa: perché non ci forziamo a rimangiarci l’uggia, perché non ci sentiamo colpevoli – che senso avrebbe, con personaggi inventati? –, purifichiamo l’avversione dalle sue scorie piú punitive, e ancora una volta possiamo arrivare a intravedere quello che giace sul fondo, il deposito subacqueo, il precipitato della nostra imperfetta umanità. 

Le nostre antipatie, che siano pregiudizi, che siano idiosincrasie, che siano puro istinto, quindi spontanee (e, si dice, «ingiustificate», ma lo saranno davvero? A volte, io credo, l’antipatia è un avvertimento, come la paura o il dolore), anziché reprimerle o compensarle, sarebbe meglio che imparassimo ad ascoltarle; e le ostilità letterarie servono anche a questo, a mostrarci quanto siano accettabili, disinnescabili per le vie catartiche del racconto che ci permettono di guardare, specchiate negli altri, le nostre stesse miserie e le nostre gioie, che ci consentono di librarci sopra le nostre vite per ritornarci, poi, pacificati. 

L’antipatia ci insegna che al mondo, ci piaccia o no, non ci siamo solo noi; non siamo al centro di tutto, anzi: non invitati, arriveranno gli antagonisti della storia che scriviamo vivendo ogni giorno, e che senza attriti non sarebbe cosí interessante, certo, ma qualche volta nemmeno cosí irritante. Abbiamo il privilegio di poterci scegliere gli amici assecondando i nostri impulsi piú generosi, cercando di affidarci a un criterio che sia di vera apertura, non di compensazione. Non possiamo, però, pretendere di abitare la nostra vita come un regno da cui tutti gli antipatici siano stati banditi. Qualcuno, clandestinamente o su invito, riuscirà comunque a varcare i confini; quindi tanto vale smettere di immaginarci come fortezze che possano alzare il ponte levatoio, e lasciare tutto spalancato, senza farne un dramma, sapendo che anche l’antipatia può riservarci la sorpresa di un’insperata familiarità, e che, soprattutto, non è la fine del mondo; è una cosa che succede pure ai cani, e non impedisce loro di tornare poi scodinzolando a usmarsi a vicenda, come se ogni nuovo incontro fosse la piú grande premessa di felicità possibile. 

L’antipatia, questa emozione inevitabile, ha poi anche un’altra faccia, segreta, nascosta: quella che noi ispiriamo, quella che fa di noi gli antipatici. Accettarlo è difficile quasi quanto ascoltare la propria voce registrata; e, a ben pensarci, è un po’ la stessa cosa. La nostra voce, l’unica che ci arrivi dall’interno, la sola di cui siamo noi la sorgente, quando la sentiamo registrata diventa un oggetto esteriore, identico a mille altri. Può uscire addirittura dalla identica fonte (un telefono, un registratore) da cui sgorgano altre voci, tutte incise alla stessa maniera; ascoltarla, allora, ci fa orrore, perché ci disorienta vederla come una su un milione. 

È che noi, di noi stessi, anche quando non ci vogliamo bene, conosciamo tutte le ragioni. Guardarci con occhi estranei è molto complicato, richiede una capacità di astrazione che non sempre ci possiamo permettere. Il rischio è quello di finire in mille pezzi, esplosi, esposti, frammentati. Solo dove ci si sente amati, ha scritto Adorno, ci si può mostrare deboli senza aspettarsi in risposta la forza: quando sappiamo, o sospettiamo, di non essere amati affatto, di essere anzi oggetto di avversione, come possiamo mostrare la nostra debolezza, come possiamo essere sinceri? A quanto pare, siamo destinati a trincerarci dietro un’armatura, a proteggerci, a coprirci dagli sguardi, solo per il sospetto di un’antipatia suscitata. 

No, invece; forse no. Non se abbiamo capito che, per quanto vada presa sul serio, anche quando la proviamo noi, l’antipatia non è niente di grave, ma solo il naturale moto di avversione di qualcuno verso qualcun altro che legittimamente può ricambiarlo con la stessa moneta; non se accettiamo che dietro il velo dell’antipatia, a guardare bene, troveremo sempre qualcuno come noi, altrettanto buffo, improvvido, debole, temerario, altrettanto sbagliato, o qualche volta giusto. E allora quel moto di avversione si ridimensiona, pur senza riassorbirsi; e possiamo sobbarcarci l’ipotesi di suscitarlo persino noi, e deporre le armi, e sperare che per ogni attacco alla nostra debolezza ci arrivi anche uno sguardo capace di comprenderci. Sento che posso permettermi di sembrare antipatica – tollerare uno sguardo diffidente, giudicante, anche cattivo – solo da poco tempo. Non so quale sia il rapporto fra questo e l’essere adulta; o fra questo e il mio lavoro. Scrivere, in un certo senso, è assumersi la possibilità dell’antipatia, di uno sguardo che ti assalga nelle tue debolezze, ti faccia a pezzi. È farsi carico dello sforzo di mostrarsi deboli aspettandosi sempre, come risposta possibile, anche la violenza: perché il pensiero in parole, il pensiero stampato, è solo, indifeso, non è protetto dalla presenza dell’autore cosí come, in genere, l’antipatico non è protetto dal riconoscimento della sua lotta quotidiana, che a chi lo guarda con antipatia appare trascurabile, o addirittura insignificante – illusione ottica dell’avversione. 

D’altra parte, ho iniziato a concedermi il rischio di essere antipatica quando ho saputo (grazie alla letteratura che mi ha mostrato quanto siano perdonabili le antipatie) che i confini della mia identità non erano minacciati dagli sguardi in tralice, pur se qualche volta cosí mi sembrava. Ho accolto la possibilità di questi sguardi solo mentre comprendevo i rischi, ancor piú gravi, del vizio di essere simpatici a tutti i costi, in cui avevo sguazzato a lungo risultando forse ancora piú antipatica con la mia ostinazione a nascondere la debolezza, per prudenza, o per paura. 

© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency

Ilaria Gaspari ha studiato filosofia e si è addottorata alla Sorbona con una tesi sullo studio delle passioni. Ha pubblicato parecchi racconti e quattro libri, l’ultimo dei quali è Vita segreta delle emozioni, appena uscito per Einaudi. Tiene corsi e laboratori di scrittura e collabora con diversi giornali.

 

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1 comment on “Antipatia, l’emozione inconfessabile

  1. Chiara

    Si potrebbe forse dire che l’antipatia sia l’opposto delle “affinità elettive”…

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