La distanza tra chi critica la gestione della crisi pandemica mettendo l’accento sull’aumento delle disuguaglianze, e chi invece addita la compressione dei diritti civili, è diventata un baratro. È una conseguenza della cattura psicologica da parte delle fazioni mediatico-politiche avverse dei “comunitaristi” e dei “libertariani”. Capire il senso delle innovazioni che la tecnologia sta apportando ai metodi di governo può aiutarci a trovare una via d’uscita.
IN COPERTINA Fernandez Arman, Sans Titre (1977) – Inchiostro su carta, impronte di cacciaviti, Asta Pananti in corso
di Gregorio Magini
Siamo al mare, si va a mangiare il pesce. Come al solito prenotiamo all’ultimo momento e non ci sono più posti in strada, ci dobbiamo accontentare dell’interno. Il ristoratore al mento porge il palmare e pronuncia una frase curiosa: “Scusate, adesso devo fare una cosa un po’ spiacevole”. Ah già, il Green Pass. Lì per lì, penso all’ironia di un ristoratore che per ottemperare a misure sanitarie, pronuncia la stessa frase che direbbe il dottore quando deve fare una palpazione invasiva. Ma c’era qualcos’altro, qualcosa di mesto e un po’ forzato in quella frase e nell’espressione degli occhi, non indifferente, ma nemmeno esattamente contrariata, con cui la diceva. Qualcosa di inerme. Più tardi, mangiato il pesce, quella frase e quell’atteggiamento continuavano a ripetersi nella mia testa come se nascondessero qualcosa di importante. Quanto segue è la conseguenza delle riflessioni iniziate quella sera, al termine delle quali saremo in grado di capire un po’ meglio cosa si muoveva dentro e fuori la testa dell’onesto ristoratore.
1. Occidente vs Cina
All’inizio della pandemia si presentarono agli osservatori due macro-modelli di gestione, quello hard “coercitivo” cinese e quello soft “persuasivo” che sarebbe stato adottato in Occidente, con la Svezia e il Regno Unito come modello e l’Italia come mix schizofrenico. Con il primo, lo Stato imponeva una serie di misure draconiane di contenimento (divieto di uscire di casa, isolamento forzoso, ecc.) e tracciamento (notifiche, misurazione della temperatura a distanza, ecc.); con il secondo, lo Stato, attraverso linee guida, informazione e propaganda, induceva i cittadini a seguire spontaneamente misure cautelative meno invasive. Alla prova dei fatti, i due approcci si sono rivelati niente affatto esclusivi, specialmente sul versante del tracciamento: se all’inizio della crisi, Byung-Chul Han poteva sostenere che l’Europa era devastata dal virus e l’Asia no, perché in Asia non c’erano limiti di privacy nell’uso dei Big Data per il controllo «psicopolitico» della popolazione, dopo un anno e mezzo possiamo rileggere quell’intervista mettendo una serie di check agli esempi concreti della «situazione distopica per gli europei, che tuttavia in Cina non incontra alcuna resistenza» descritta dal filosofo sudcoreano, che pure hanno in seguito trovato attuazione anche in Europa: «videocamera che misura la temperatura corporea […] vengono informati via cellulare tutti coloro che hanno condiviso il vagone con quella persona […] droni impiegati a fini di sorveglianza della quarantena.» Tutti. D’altro canto, uno sguardo realistico deve ammettere che l’auspicio di Han «che l’Europa non metta in piedi un regime di sorveglianza digitale alla cinese» si è realizzato e oggi realisticamente nessuno potrebbe dire che in Europa esista un «regime di sorveglianza digitale alla cinese». Così ci troviamo di fronte a una contraddizione: come mai un dispiegamento di mezzi di sorveglianza non produce un regime di sorveglianza? Potenza delle leggi sulla privacy? Stati che falliscono nell’importazione dei nuovi balocchi cinesi per opposizione democratica e/o cialtroneria? Forse un po’ di tutto questo, ma resta in ogni caso da capire che cosa significa per l’Europa l’installazione di una nuova ondata di tecnologie digitali aperta dalla pandemia.
Ho accennato alla peculiare schizofrenia italiana tra approccio hard e soft, che rende più facilmente leggibile uno dei tratti comuni della via “europea”: il mix non avviene solo tramite un’alternanza di provvedimenti coercitivi e persuasivi, ma si verificano sistematicamente interferenze – a volte quasi surreali – tra le due modalità: molti obblighi (come per esempio quello di indossare la mascherina) o divieti (come quello di andare a giocare in un parco o di entrare in un museo senza il Green Pass), sono stati dichiaratamente presentati allo stesso tempo come misure sanitarie e come provvedimenti volti a “responsabilizzare”, cioè di carattere psicologico: in quanto misure sanitarie, il mezzo è coercitivo e il fine diretto è la diminuzione della quantità di contagi; in quanto misure propagandistiche, il mezzo è comunicativo e il fine diretto è l’induzione di certi comportamenti, che a loro volta avranno come conseguenza indiretta la diminuzione della quantità di contagi.
Gli approcci critici che ho incontrato, a mio parere, non affrontano adeguatamente la natura ambigua di questi provvedimenti. Anche solo dal punto di vista retorico, l’ibrido coercizione-propaganda ha degli indubbi vantaggi che da soli bastano a mettere in difficoltà una critica impreparata. Si possono suddividere questi vantaggi retorici in argomenti riguardo ai fini e argomenti riguardo ai mezzi.
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2. Il Jolly
Sui fini. Un’iniziativa di governo con un secondo fine propagandistico esplicito possiede un Jolly speciale: può rivendicare la propria utilità sempre e comunque, anche di fronte a una eventuale dubbia efficacia pratica. Infatti, la propaganda funziona solo se le persone ci credono, dunque metterne in dubbio l’efficacia o la legittimità significa automaticamente diminuirne l’efficacia. Inoltre, la doppiezza dei fini consente di rispedire qualsiasi critica al mittente usando l’aspetto sul momento più conveniente, appunto come un Jolly può valere come rosso o come nero a seconda dell’opportunità: a un’accusa sul piano dell’efficacia pratica si risponde che c’è anche un’efficacia propagandistica; mentre a una risposta critica contro l’uso o le modalità della propaganda si risponde che la misura ha pur sempre un giusto fine, e si torna al punto di partenza. Così – solo a titolo di esempio e senza voler sostenere che questa particolare critica sia corretta oppure no – dire che il Green Pass ha un’efficacia limitata nell’accelerare la campagna di vaccinazione perché comunque non ci sono materialmente vaccini disponibili a sufficienza, significa attentare all’integrità dell’effetto propagandistico, dunque intralciarne il fine, che è quello di difendere la salute pubblica convincendo più persone possibile a vaccinarsi. Si arriva così al paradosso per cui qualunque misura – purché la si dichiari apertamente anche persuasiva – è giustificata per il fatto stesso che si presenta come giusta, a prescindere da qualsiasi considerazione di effettiva utilità – persino persuasiva!
Non sono certo retoriche granitiche – di fronte a un “devi crederci e basta” la reazione istintiva immediata è sentire puzza di bruciato –, e alla lunga contribuiscono a screditare le istituzioni stesse che le utilizzano. Eppure hanno contribuito a creare uno stigma negativo verso la critica in generale, cosa che, in particolar modo in uno stato di emergenza, non si può considerare esattamente salutare.
La critica dei mezzi incappa in una contraddizione anche più paralizzante che vale la pena guardare nel dettaglio. Questa si è concentrata su controindicazioni di vario tipo (economiche, psicologiche e così via) per diverse categorie di cittadini. Quella più diffusa, al contrario di quanto molti affermano, non è connessa al timore del vaccino, ma riguarda gli effetti collaterali negativi di misure percepite come autoritarie, proprio in quanto autoritarie. Agamben e Cacciari rispetto al Green Pass, per esempio, individuano il peggiore di questi effetti negativi nell’introduzione di una discriminazione istituzionalizzata tra categorie di cittadini. Altri hanno posto critiche più specifiche, come l’illegittimità costituzionale o l’uso strumentale di istituzioni statali per fini che non competono loro. Molte altre obiezioni sono state poste dai soggetti più vari, ma non mi dilungo perché il mio scopo non è argomentare pro o contro il Green Pass, ma suggerire una correzione di tiro alle critiche antiautoritarie contro il Green Pass, che possono risultare utili a chi voglia valutare i pro e i contro del provvedimento, e più in generale le politiche pandemiche nel loro complesso.
A questo punto, percepisco il tuo bisogno viscerale di lettrice e lettore di sapere qual è la mia posizione sul Green Pass, il Governo, la scienza, il vaccino, il virus, la Cina e Burioni. Senti che se non esplicito le mie opinioni non sai come interpretare queste parole, e rischi di riempire questo vuoto con illazioni. Mi permetto di farti notare che, al netto della mia vasta inettitudine come comunicatore, è possibile che sia proprio il tuo bisogno d’inquadrarmi a impedirti di interpretare senza pregiudizi quanto scrivo. Si rende allora necessaria una digressione di carattere psicologico.
3. Prudenti vs coraggiosi
Tutti noi abbiamo avuto più e più volte esperienza di quanto sia difficile dialogare con persone che hanno idee differenti dalle nostre sulle politiche pandemiche. Alla radice di questa difficoltà c’è la forte carica emotiva legata alla realtà del contagio e ai rischi e alle responsabilità ad essa connesse. Quello che ho osservato, è che le prospettive etiche e politiche di ciascuno sono praticamente sempre coerenti con il proprio approccio istintivo alla gestione del rischio individuale (non interpersonale: individuale). C’è chi per natura e per educazione è più prudente, chi più coraggioso; chi più ansioso, chi più temerario; chi pusillanime e vigliacco, chi incosciente e irresponsabile. In una situazione normale, queste differenze sono tollerate e anzi spesso valorizzate perché la varietà dei comportamenti contribuisce alla ricchezza collettiva; ma in una situazione di tensione scivolano facilmente in conflitti ideologici insanabili. Tanto più quando simili predisposizioni finiscono catturate, com’è successo, in campi politici avversi che strumentalizzano la faglia emotiva per acquisire e mantenere potere e legittimità. Parlo di strumentalizzazione perché in realtà non c’è alcuna connessione ovvia tra una predisposizione emotiva e un provvedimento politico, e nemmeno una policy in senso ampio: infatti, da un lato nessuna politica potrà mai davvero soddisfare l’emotività, che per sua natura non si esaurisce ma continua a puntare sempre nella stessa direzione (certo, le tendenze profonde degli individui possono cambiare, ma ci vogliono molti anni o traumi violenti); dall’altro, la complessità del reale conduce la politica a contraddire sistematicamente l’emotività che cattura. Faccio l’esempio più controverso possibile: chi non si vuole vaccinare perché ha paura degli effetti collaterali del vaccino è un “irresponsabile”? Parrebbe di sì, se si considerano le conseguenze dannose per sé stesso e per gli altri del suo non essere vaccinato. Ma se si considerano le emozioni di questa persona e la inducono a dare più peso a certi discorsi piuttosto che ad altri, vediamo che è mossa da ansie per la propria e altrui salute che sono identiche a quelle di chi è preoccupato assai più dai danni del Covid che da quelli del vaccino. Da che “parte” sta allora questa persona? Comunque si risponda a questa domanda, è evidente che la contrapposizione tra coscienziosi e incoscienti, pur avendo giustificate basi empiriche nell’esperienza quotidiana e nella ricerca psicologica, diventa assai problematica quando viene usata per stabilire confini tra campi politici avversi. Si dirà: ma esistono le ragioni e i torti, esistono affermazioni corrette ed affermazioni errate. Certo. Ma quante occasioni sapresti enumerare nella tua vita in cui hai agito razionalmente in maniera completamente contraria ai tuoi istinti più profondi, ai tuoi desideri più vasti? Poche – e scommetto che ci stai ancora male.
Siamo dunque tutti sempre sovradeterminati da un’emotività che trascende il nostro controllo razionale? Sì e no.
Sì, nel senso che pensare e agire contrariamente alle nostre predisposizioni ci è quasi impossibile. Riusciamo al massimo, se siamo persone educate, cercare compromessi discorsivi con chi la pensa diversamente da noi e dunque in buona sostanza darci paradossalmente ancora più ragione da soli con l’aiuto di chi non ci dà ragione.
No, nel senso che la stessa complessità del reale che fa apparire come forzata la cattura politica delle emozioni è presente anche dentro ciascuno di noi. Siamo in grado di riconoscerla e coltivarla. Riconoscerla accettando che i discorsi inaccettabili degli altri sono sempre anche già rispecchiati da filamenti di idee e pulsioni che nuotano nella nostra mente; coltivarla riorientando i nostri discorsi interiori per renderli più complessi, cioè più adeguati alla complessità delle nostre predisposizioni.
Conseguenza di tutto ciò, per tornare al discorso interrotto, è che non ti invito affatto, non esplicitando le mie posizioni, a “sospendere il giudizio” sulle mie idee o sulla mia persona; tantomeno cerco di illuderti che sto assumendo una impossibile postura neutrale – al contrario ti invito a riempire i vuoti in molti modi diversi, provando a giudicare le mie idee da tutti i punti di vista, anche alieni e contraddittori, di cui sei capace. E andiamo avanti.

4. Limiti delle posizioni antiautoritarie
Dicevamo: le critiche antiautoriatrie al Green Pass. Ciò che le accomuna tutte (ma anche critiche sulle stesse linee ad altre misure di contenimento) è che non sono propositive, nel senso che essendo basate su argomenti extra-sanitari, non propongono, né potrebbero farlo, mezzi sostitutivi per perseguire i fini di sanità pubblica che giustificano le misure messe in discussione.
La retorica del sentire comune ha dunque gioco facile nell’ignorarle in quanto inefficaci, prive di realismo. Questo tipo di risposta non è diffuso solo tra chi condivide o almeno considera parzialmente giustificati, data l’emergenza, i mezzi usati, ma anche tra chi non li condivide e non li considera giustificati, ma ritiene così importanti i fini (la sanità pubblica), da valutare, più o meno consapevolmente, miglior cosa tacere che porre critiche non costruttive. Il risultato è una posizione autocontraddittoria, una sorta di menopeggismo sanitario.
Non solo. Chi denuncia le esternalità autoritarie si vede spesso rispondere, da persone di perfetto buonsenso, che si tratta appunto di misure propagandistiche, e che di conseguenza non c’è da aver timore che verranno fatte rispettare con severità: una volta ottenuto l’effetto persuasivo, lo Stato si disinteresserà della regola e non farà più controlli. Spesso questa replica si tinge di stereotipi, ora ironici, ora indignati, sulla debolezza o stupidità dello Stato italiano (“basta usare il QR code della nonna”) e il familismo degli italiani (“fatta la legge trovato l’inganno”). Si è visto questo tipo di atteggiamento nei confronti del coprifuoco (“tanto non lo rispetta nessuno”) come del Green Pass (“farà la fine di Immuni”). Dunque per queste persone le misure non sono realmente autoritarie, perché si tratta solo di autoritarismo di facciata: Stato che abbaia non morde. Anche in questo caso, il risultato è che sia inutile opporsi alle misure che pure si ritengono sbagliate.
Infine, vi è chi, pur facendo proprie alcune delle critiche, ritiene che non valga la pena mobilitarsi contro misure temporanee destinate a scadere alla fine dello stato di emergenza – che nel momento in cui scrivo, salvo ulteriori proroghe, avverrà il 31 dicembre 2021. Ma il Covid e i morti quotidiani non se ne andranno con lo stato di emergenza, a maggior ragione se, come pare, l’immunità di gregge con la variante Delta possa non essere possibile nemmeno se tutti fossero vaccinati, e di conseguenza altre misure dovranno essere prese, forse in una forma legale diversa dai decreti a cui ci siamo abituati ma che andranno pur sempre a intervenire sugli stessi nodi. Ora, è vero che il pensiero paranoico non è un buon consigliere, e dunque non è il caso di lanciarsi in fantasie distopiche che hanno la bizzarra proprietà di non avverarsi mai. Ma è altrettanto vero che ormai ci troviamo davanti a una cronologia di politiche che, da due anni a questa parte sembrano abbastanza coerentemente improntate a un caposaldo di policy: rovesciare i costi della crisi sulla cittadinanza generale e quindi in particolare sui più deboli; perseguito, data la sua chiara impopolarità, con il metodo di fomentare la prassi sistematica dei media e di parte della popolazione di colpevolizzare capri espiatori per nascondere (e nascondersi) gli errori e le contraddizioni etiche e politiche; con il risultato di presentare un’azione di governo incomprensibile e a tratti dall’apparenza francamente delirante perché mescola opportunisticamente ogni possibile ratio sanitaria, economica, propagandistica e performativa, particolaristica, ecc. Non ho nessun motivo di pensare che la fine dello stato di emergenza cambierà questa traiettoria. Uno può anche tranquillamente aspettare dicembre prima di iniziare a lamentarsi per l’iniquità dei provvedimenti che allora verranno presi o per l’assenza dei provvedimenti che davvero vorrebbe, ma abbiamo già visto com’è andata nell’aspettare fino a luglio 2021 per iniziare a reclamare un (timido) riequilibrio dei costi con i test gratuiti. Il fatto è che l’aspetto che prendono quasi tutte le misure sanitarie che finora si sono viste è intriso della direttiva aurea dei governi Conte e Draghi: aspettare la fine dello stato di emergenza significa aspettare che l’ultimo chiodo sia stato piantato sulla bara.
A parte le diverse sfumature, il vero problema comune sia delle critiche antiautoritarie, sia delle contro-critiche svalutanti (al di là dell’identico immobilismo verso cui queste convergono) è che si attengono tutti a una lettura semplicistica del tipo di politica in atto. Da un lato, sia che la rifiuti sia che la si accetti, si prende la propaganda troppo alla lettera. Dall’altro, si risponde sostenendo che è “solo propaganda” e in quanto tale non va presa sul serio. È uno stallo sterile che cancella e impedisce di sviluppare il tratto comune che potrebbe unire le due parti: la critica delle politiche pandemiche. Tuttavia, non credo la via migliore per risolvere questa impasse sia recidere ogni rapporto rifiutando in toto il punto di vista antiautoritario, che anzi, se ben specificato, si rivela una risorsa. Vediamo come.
Un primo punto di riferimento può essere la versione della posizione che hanno elaborato lungo i due anni pandemici i Wu Ming, che intreccia una critica di classe con un forte accento antiautoritario interpretando la politica governativa come una colossale opera di distrazione. Ciò che i governi rimuovono sarebbero le loro responsabilità nella gestione della crisi, e in particolare, gli effetti negativi, per la popolazione nel suo complesso e per le categorie più deboli in particolare, di misure di difesa della salute pubblica gravemente compromissorie rispetto agli interessi economici della classe padronale e di ordine sociale della classe politica. Questa critica in sostanza cerca di ricondurre l’interpretazione ai parametri classici del disvelamento dell’ideologia e della ricerca dei fili nascosti di una “politica reale” sommersa dalla propaganda ufficiale. È un approccio che svetta sugli altri per gli spazi di interpretazione che apre, ma proprio perché ne colgo il valore, non posso fare a meno di percepirvi un fianco scoperto, una posizione di debolezza che è la conseguenza di una concettualizzazione imperfetta del tipo di comunicazione politica che intende mettere a nudo. (Proprio mentre ultimavo questo articolo, è uscita su Giap una esposizione della loro contrarietà al Green Pass, che contiene anche un riepilogo delle loro posizioni precedenti. Quanto scrivo qui non è dunque una risposta a quel testo, sebbene molte delle considerazioni che faccio possano essere considerate in dialogo con i loro punti di vista.)
Infatti, come detto, non è una propaganda classica, cioè non si potrebbe definire semplicemente come una comunicazione ufficiale falsa, tendenziosa o distorta che nasconde una “politica reale” del Governo, perché in questo caso la “politica reale” è esplicita nell’uso di mezzi propagandistici. Se ci sono dei fini eterogenei che la propaganda lascia in ombra puntando i riflettori su fatti secondari e nemici costruiti, e non vedo come si potrebbe dissentire dai Wu Ming sul fatto che ci siano, il loro disvelamento non può prefigurare in sé l’apertura di spazi per la una politica di contrapposizione. Infatti, qualsiasi discorso critico, qualsiasi proposta alternativa (delle quali comunque bisognerebbe occuparsi più assiduamente di quanto si è fatto finora), come abbiamo visto, incappa fatalmente nel Jolly delegittimante. Nemmeno disvelare lo stesso funzionamento del Jolly è sufficiente, perché è una trappola retorica pervasiva che condiziona ogni discorso pubblico in cui appare la parola “Covid”. Il Jolly può essere superato solo smontandolo, e per smontarlo bisogna prima o poi mostrarne anche l’illegittimità. È su questo versante che certi discorsi antiautoritari potrebbero mostrarsi fecondi, ma solo se fosse possibile riportarli dall’attuale stato di astrattezza, di confusione – dovuta sì all’effetto di delegittimazione della retorica avversa, ma anche al loro eccessivo radicamento nelle proprie origini psicologiche che li mantiene politicamente catturati nel campo degli “irresponsabili” (rimando alla digressione su prudenti e coraggiosi) – a una dimensione più pragmatica che possa ricollegarli direttamente a rivendicazioni non contraddittorie rispetto ai fini sanitari che tutti condividono. Lo scopo ultimo sarebbe dimostrare che l’alternativa tra salute, eguaglianza e libertà è, almeno in qualche misura, un falso ideologico, ma è un problema che trascende le mie capacità. Posso, più modestamente, cercare di dare un contributo verso una specificazione più precisa di quali libertà siano effettivamente in gioco, e perché la riconfigurazione di tali libertà mette in pericolo anche la nostra salute.
5. Il Green Pass come wearable
Con questo intento, piazzo sul banco un microscopio, e lo uso per focalizzare l’attenzione sul Green Pass in particolare, e da lì magnificare su un dettaglio che può apparire contingente ma secondo me è fondamentale e può aprire a un aggiustamento prospettico: la “campagna Green Pass”, a differenza della propaganda classica, non si attua (solo) attraverso misure puramente di facciata, ma attraverso disposizioni che hanno un impatto materiale sui comportamenti delle persone a prescindere dal livello di impegno sanzionatorio o repressivo del Governo, perché si inscrivono nell’introduzione dell’obbligo di indossare strumenti amministrativi burocratico-tecnologici: il Green Pass è un wearable, un oggetto che ci portiamo addosso. Si dirà: ma anche la carta d’identità è un oggetto tecnologico che ci portiamo addosso. E pure i pantaloni, a dirla tutta, e se andiamo a giro senza, lo Stato, probabilmente su segnalazione di cittadini indignati, ci sanziona per offesa alla morale. Vero. Ma è differente il motivo per cui lo Stato ci tiene che li indossiamo: la carta d’identità serve, genericamente, a controllare i cittadini; spesso con delega ai cittadini stessi perché la usino per controllarsi tra di loro. I pantaloni servono per evitare i sentimenti di rabbia o ripulsa che sono generati dalla visione delle mutande in una pubblica via. Sono due esempi perfetti della differenza tra potere disciplinare e potere pastorale classici. Il Green Pass, peculiarmente, ha una funzione che somma l’aspetto amministrativo di controllo della carta d’identità con l’aspetto moralistico dell’obbligo di braghe: in questo è paragonabile all’obbligo di mascherina all’aperto. Ma è una fusion che rispetto alla mascherina aggiunge un terzo aspetto: uno strumento digitale di verifica. Infatti, mentre la verifica dell’identità è rimessa all’agente di pubblica sicurezza (o a un suo delegato come il commerciante che deve verificare che tu sia maggiorenne prima di venderti alcolici), il controllo sul Green Pass avviene attraverso l’app VerificaC19. Riassumendo: poiché il fine (dichiarato) del Green Pass è anche propagandistico (indurre le persone a vaccinarsi), ciò che viene verificato non è solamente se il portatore è sano, ma se si è comportato da buon cittadino. Abbiamo dunque il paradosso di una propaganda che funziona anche se non ci credi, perché ti induce a comportarti come se ci credessi.
L’esperienza insegna che quando l’analisi finisce nei paradossi, è un segnale che alcuni presupposti sono sbagliati o quantomeno inadeguati. Il mio sospetto qui è che per comprendere a fondo la situazione, e uscire da queste contraddizioni, si debba relativizzare la distinzione tra mezzi coercitivi e mezzi persuasivi, la stessa che sottende alle analisi sfocate sulle differenze di approccio tra Cina e Occidente. Veniamo da una tradizione in cui la critica alla società tecnologica del controllo si fonda sull’idea che le tecnologie di sorveglianza ampliano gli strumenti classici del controllo statale (polizia, istituzioni educative e correttive, ecc.), mettendo a disposizione delle autorità informazioni dettagliate e in tempo reale sulle loro attività: telecamere, intercettazioni, trojan e così via; informazioni che possono essere variamente usate per prevenire, sopprimere e perseguire attività socialmente o politicamente indesiderate. In parallelo, gli Stati e altre istituzioni “borghesi” si impegnano nella persuasione, esercitando quello che Michel Foucault chiamò il loro «potere pastorale», usando i mezzi della comunicazione di massa: ripetizione, menzogna, offuscamento della verità. Il classico quadro orwelliano insomma.
Quello che però succede con la convergenza di tecnologie del controllo installabili direttamente sulla persona (app di Stato pseudo-facoltative su smartphone) e di sistemi di persuasione distribuita per cui non è più lo Stato a cercare direttamente di convincerti ma le persone che conosci (social media), è che si crea un’ampia zona grigia tra coercizione e persuasione che finisce per diventare autonoma rispetto all’una e all’altra. È il territorio del condizionamento. Essere condizionati significa trovarsi ad agire non necessariamente contro la propria volontà, ma molto probabilmente a prescindere dalla propria volontà. La scelta individuale non è più etica, com’è richiesto dal diritto classico – la giustificazione delle punizioni per chi infrange la legge, stringi stringi, è che è stato una persona cattiva – ma una valutazione continua di pro e di contro, di vantaggi e svantaggi, di guadagni e perdite; valutazione che per di più si attua, proprio perché è richiesta ogni giorno e più volte al giorno, sempre più facilmente al livello delle abitudini e dei riflessi condizionati.
Quei fenomeni di «sfaldamento del diritto positivo» che sono stati notati da Wolf Bukowski diventano ora più chiaramente leggibili, non solo come «stili di governo» che si rifanno opportunisticamente a una convenienza pratica, ma come conseguenza del fatto che lo Stato si impegna a gestire campagne continue di condizionamento, in cui controllo e persuasione raramente si mostrano in forma pura, ma in cui ogni provvedimento ha un po’ dell’uno e un po’ dell’altra in maniera inestricabile (di nuovo il Jolly).
Lo Stato legislatore è sostituito, o meglio, inglobato, da uno Stato che installa algoritmi eticamente connotati: sistemi burocatico-informatici che ti inducono a essere una persona ammodo introducendo costi quotidiani nei comportamenti indesiderati. Ciascuno di noi diventa il “dissuasore mobile” di sé stesso. La tecnologia finisce per sovradeterminare la libertà individuale, non perché invada zone inviolabili della persona o del suo corpo (“il corpo è mio e me lo gestisco io” non è un più principio sufficiente quando il mio corpo non è più solo mio in quanto è anche l’habitat di un virus contagioso – o di uno smartphone), ma al contrario proprio perché la abbandona la persona alle sue idee e la rende irrilevante, addirittura ridondante, rispetto alla determinazione dei suoi stessi comportamenti. L’iperbole orrorifica adeguata non è pertanto quella degli zombi (lavaggio del cervello, ecc.), ma quella dell’incubo a occhi aperti: pur coscienti, vigili e giudicanti di quello che ci capita, non si è in controllo delle proprie azioni e delle proprie parole.
Siamo finalmente in grado di dare un’interpretazione al comportamento del ristoratore di inizio articolo che con la sua “cosa un po’ spiacevole” ha dato avvio a tutto quanto: ciò che mi colpì fu che quel signore, con la sua app VerificaC19, si sentiva costretto ad agire come una protesi del sistema informatico che stava maneggiando. Non che non fosse materialmente in grado di opporsi, naturalmente – ma non lo fece, nonostante fosse probabilmente contrario e i rischi di essere sanzionato fossero minimi – perché era condizionato a comportarsi così: un po’ di coercizione, un po’ di persuasione, cucite assieme da un sistema informatico. Tutto quello che poteva fare era esprimere un imbarazzo impotente.
Vista sotto la lente del condizionamento, la critica antiautoritaria “agambeniana” o “foucaultiana” (mi si perdoni la semplificazione) mostra più chiaramente i propri limiti: perché se è pur vero che individua correttamente negli strumenti digitali personali il mezzo primario con cui si esprime questo tipo per certi versi inedito (perché inedita è la tecnologia) di potere statale, fallisce nell’individuarne l’aggiornamento di funzione, che non è quella di sorvegliare o di “schedare”, ma di fungere da gobbi di scena, suggeritori onnipresenti dei desideri governativi (ciò a prescindere da una valutazione positiva o negativa della natura o dell’utilità pubblica di questi desideri). Inoltre, non comprendendo appieno la natura ibrida coercitiva-persuasiva di tali strumenti che punta a inserirsi a monte delle scelte individuali, si trova a girare a vuoto nell’invenzione di fantomatiche libertà perdute, quando tutte le libertà si sono, quasi impercettibilmente, spostate.
Qui è utile fare un parallelismo con le prospettive del capitalismo affettivo. Negli studi critici si parla di capitalismo affettivo in riferimento alla messa a valore sistematica di ciò che provoca “affetti” (affects) nelle persone, cioè di ciò che le impressiona già a livello pre-conscio e le predispone emotivamente ad agire. A grandi linee, si ha capitalismo affettivo nel momento in cui le imprese passano da un marketing basato sul tentativo di sollecitare i desideri individuali dei consumatori, alla commercializzazione di prodotti che invitano i consumatori a un investimento affettivo e aspirano a diventare parte integrante della loro identità culturale, secondo vettori di classe, genere, razza e così via. Questa transizione si è avviata in Occidente intorno all’inizio degli anni ’90. L’odierno capitalismo delle piattaforme è la forma più avanzata di questa messa a valore dell’affetto, per il fatto che le piattaforme fungono da intermediari per il più importante vettore dell’affettività, le relazioni interpersonali pubbliche. Per intuire la profondità del livello su cui vanno ad agire tali intermediari, si può mettere in relazione questa prospettiva con le considerazioni psicologiche sull’origine delle nostre opinioni politiche che ho fatto inizialmente, ma andando più a fondo si deve considerare che i media digitali, in quanto parte attiva di “ecologie cognitive” che sottendono a livelli di interazione della mente col mondo che rimangono, per la stessa costituzione della nostra neurologia, addirittura al di qua di una possibile attenzione cosciente, ci rendono parte di “assemblaggi cognitivi” in cui la posizione del soggetto pensante e cosciente non è più leggibile come quella di un individuo sovrano delle proprie azioni e dei propri stessi pensieri (ho tratto i concetti di “ecologia cognitiva” e di “assemblaggio cognitivo” da un saggio di N. Katherine Hayles, L’impensato, che sto traducendo con Silvia Dal Dosso e di prossima uscita per l’editore effequ).
Per molto tempo, gli Stati occidentali sono rimasti alla finestra rispetto a questi cambiamenti dei modi di produzione che erano già avviati all’inizio degli anni ’90 ma hanno subito un’accelerazione enorme con la diffusione dei social dopo il 2008. Un po’ per inerzia, un po’ per la resistenza di numerosi attori sociali (non ultimi i capitalisti stessi, restii all’intervento statale), è finora sembrato improbabile che facessero propri i metodi di cattura del capitalismo affettivo: era roba che poteva accadere solo in un regime totalitario come la Cina. La pandemia ha allentato entrambi i fattori, facendo sì che gli Stati europei iniziassero finalmente a entrare, con tutto il loro peso, nell’economia affettiva, ma reinterpretandola immediatamente secondo le loro necessità e prospettive. Ed è così che la propaganda è diventata affettiva, acquisendo la capacità di sfondare il confine classico tra coercizione e persuasione, ed è stata avviata la sua installazione tecnologica, che è in ogni caso solo agli inizi. In assenza di controlli democratici – e non parlo tanto di Costituzione, quanto di blocchi algoritmici all’invasività statale, cioè limiti tecnici appositamente installati per limitare la possibilità degli Stati di agire sul piano affettivo; nonché di obblighi alla trasparenza algoritmica, cioè alla specificazione dei processi decisionali che vengono tradotti in apparati digitali –, sui quali dato lo stato di emergenza non si è nemmeno iniziato a discutere, questo binomio impuro rischia di rotolare con rapidità, almeno in alcune parti di Europa, verso una nuova forma di autoritarismo affettivo.
6. Comunitaristi vs libertariani
In Italia, a livello prettamente politico, questa nuova configurazione di potere si è realizzata con l’avvento al governo del Movimento 5 Stelle, con la sua passione acritica verso la tecnologia e il suo rapporto con le masse basato sui social, assieme a un Partito Democratico a cui del vecchio Partito Comunista Italiano resta solo l’unico tratto che i più detestavano: l’autoritarismo. La pandemia è stata il detonatore, ma l’esplosivo era già pronto. Il risultato è l’agglomerarsi di una nuova cultura politica – che ha divorato anche molto di quel che restava della sinistra italiana – basata sull’identificazione tra Stato e community – nel senso di comunità online. La si può battezzare parodicamente comunitarismo e si basa sull’idea che “lo Stato sei tu – chi può darti di più?”, proprio come nella vecchia pubblicità della Coop. Per far parte della community statale e sentirti sempre al sicuro, devi seguire solo una regola apparentemente semplicissima: non essere mai in disaccordo con lo Stato; linea guida che nella pratica si traduce in un’ansia insanabile di appartenenza culturale e nella burocratizzazione della vita interiore di ciascuno.
L’assenza di comprensione critica di queste dinamiche – in tandem con il condizionamento paralizzante fomentato dallo Stato-community – ha fatto sì che le uniche opposizioni visibili sviluppatesi in Italia a questo processo siano state a lungo di stampo paranoico o reazionario. Abbiamo interpretato le fantasie novax sui chip di Bill Gates impiantati col vaccino nella maniera sbagliata: la loro paura non è di essere spiati a distanza, ma di essere guidati a distanza. L’unico strumento retorico a disposizione delle opposizioni era rimasta la rivendicazione emozionale – affettiva appunto – della “libertà”, declinata nei modi più vari e incompatibili a seconda della zona politica di riferimento – perciò si possono raggruppare sotto il nome altrettanto parodico di libertariani. Ma i comunitaristi hanno avuto gioco facile nel deridere questa richiesta di libertà, dal momento in cui nessun libertariano era in grado di mettersi d’accordo con gli altri nell’indicare esattamente quali fossero le libertà che, nella pratica, venivano limitate. Per forza: è la premessa stessa di libertà, cioè la possibilità di scegliere fra opzioni differenti e quindi di decidere se obbedire o no alle leggi, che i comunitaristi, anche se non se ne sono accorti, vorrebbero gettare nel bidone della storia.
Un riferimento aggiuntivo alle teorie foucaultiane può essere utile per specificare il mio ragionamento. Uso Foucault anche per rimarcare la differenza del mio approccio rispetto ad altre critiche libertariane “al potere” che tendono a banalizzare il suo pensiero sottolineandone solo gli aspetti generalmente antiautoritari. La “microfisica del potere” di Foucault si fonda sull’idea che lo Stato borghese non è l’origine ultima del proprio potere di sorveglianza e controllo, ma lo acquisisce generalizzando pratiche e rapporti di potere che preesistono a livello locale.
«Si dovrebbe vedere come» afferma Foucault in “Bisogna difendere la società” «al livello effettivo della famiglia, dell’entourage immediato, delle cellule o dei livelli più bassi della società, i fenomeni di repressione o di esclusione abbiano avuto i loro strumenti, la loro logica, ed abbiano risposto ad un certo numero di bisogni. Invece di cercarne gli agenti nella borghesia in generale, si dovrebbero individuare gli agenti reali di tali fenomeni ad esempio nell’entourage immediato, nella famiglia, nei genitori, nei medici, nei livelli più bassi della polizia e così via». Questo tipo di configurazione di potere, che non procede solo dall’alto verso il basso ma consiste in un ciclo multidirezionale continuo di negoziazioni, richiede che ogni individuo sia costantemente chiamato a prendere decisioni che sono libere, non perché non ci siano leggi da seguire, ma perché la decisione se obbedire o trasgredire a una legge, così come le conseguenze di una eventuale trasgressione, ricadono sempre sull’individuo che localmente si fa interprete del potere che, nel suo piccolo, proprio perché è interprete finale di funzioni superiori, comunque detiene.
Il tipo di intervento statale prefigurato dal Green Pass va a intervenire tecnologicamente sulle dinamiche della microfisica del potere, espropriando parzialmente gli agenti della sua attuazione (che non sono mai stati esclusivamente attori statali) dalla possibilità di scelta. La sovranità si affaccia su una zona di potere cui mai era stata in grado di accedere direttamente, ma era sempre stata appannaggio di poteri «ecclesiastici, e universitari» (Malatesta) e più in generale pastorali: quella della pre-coscienza personale. Con una manovra a tenaglia: da un lato filtrando l’«entourage immediato» attraverso un rapporto intimo con le piattaforme social, che lo ristrutturano e per così dire già lo sanitizzano secondo le categorie di una propaganda sì atomizzata e distribuita, ma sistematicamente dominata dalle prospettive governative di maggioranza e di opposizione (prudenti vs coraggiosi, comunitaristi vs libertariani); dall’altro sottraendo o comunque limitando tecnologicamente lo spazio di arbitrio tradizionalmente concesso, per forza di cose, agli agenti locali.
Mi rendo conto che queste considerazioni possono sembrare spari alla Luna. E del resto non pretendo certo di poter sviluppare una teoria generale a partire dal singolo caso di un provvedimento di emergenza e temporaneo com’è quello del Green Pass. Eppure questi sono gli sviluppi che mi appaiono davanti. Se finita l’emergenza queste pratiche di governo rientreranno, sarò contento di finire annoverato tra i tanti paranoici di quest’epoca di confusione. Ciò che maggiormente mi sostiene in questa preoccupazione, è la convinzione che la crisi Covid è soltanto la prima di una serie di crisi ambientali e climatiche ben più gravi che ci attendono nei prossimi decenni. Temo che gli stati optino per affrontarle affinando e rafforzando la policy che ho sopra riassunto, trasformando la vita quotidiana di ciascuno di noi in una routine insensata di assoggettamento in nome di un “male minore comune” sempre più astratto e insopportabile – in cui la cosa migliore che ti può capitare è non trovarsi dal lato sbagliato del confine mobile e aleatorio tra i cittadini responsabili e i pazzi assassini che impediscono al mondo di continuare a ruotare come se nulla fosse ancora qualche mese.
Nell’immediato, ci troviamo di fronte alla sfida di articolare una risposta agli spostamenti che ho raccontato a grandi linee, che sono di natura politica ma che si attuano appieno con mezzi algoritmici ancora molto grezzi rispetto ai sistemi delle piattaforme private, ma in costante affinamento, senza più lasciarci catturare, a livello analitico, dal binomio coercizione-persuasione, che corrisponde a livello geopolitico alla contrapposizione tra Cina e Occidente; a livello psicologico al dualismo tra prudenti e coraggiosi; e a livello politico alle fazioni dei comunitaristi e dei libertariani. È urgente, prima di tutto – non solo per chi si pensa comunista o socialista o anarchico, ma per chiunque pensi che l’emergenza debba essere affrontata in modo diverso – avvicinarsi a spazi di confronto e aggregazione politica protetti dal gorgo dell’esproprio affettivo e dei condizionamenti pubblici e privati. Dentro questi spazi de-condizionati, il momento di presa di coscienza, per chi vorrà, potrà essere elaborato più esplicitamente in connessione con le lotte sociali in corso e le pratiche quotidiane di resistenza.
Trovo il suo articolo molto interessante ma non mi è chiaro come si possono realizzare degli “spazi di confronto e aggregazione politica protetti dal gorgo dell’esproprio affettivo e dai condizionamenti pubblici e privati” senza che questi si rivelino degli spazi di ghettizzazione presi di mira dalla propaganda (ma non solo), o che peggio vengano infiltrati e poi strumentalizzati nella narrazione del potere.
Colgo in questo ultimo periodo non poche similitudini con una riadattata strategia della tensione in stile anni ‘70 che mira ad estremizzare le istanze antiautoritarie cercando di annientarle e affogarle in un magma indistinto di insensata contrapposizione.
Lei cosa ne pensa?