Averci visto più lungo di Einstein – l’Ars Magna di Oscar Vladislas de Lubicz Milosz

Oscar Vladislas de Lubicz Milosz (1877-1939), poeta ed esoterista lituano, scrisse nel 1917 l’Épître a Storge, in cui diede espressione letteraria alla sua esperienza mistica trasformativa. Il testo divenne poi il primo capitolo di Ars Magna (1924), che qui proponiamo nella traduzione di Daniele Capuano.


IN COPERTINA e nel testo un’opera di Roberto Barni, all’asta da pananti casa d’aste.

 

Traduzione di Daniele Capuano

A Rinascita
Avvertenza

 

L’Epistola a Storge, la prima parte di Ars Magna, è stata composta nel 1916 e pubblicata nel gennaio 1917 nella Revue d’Hollande.

In quel periodo l’autore non conosceva le teorie di A. Einstein e nemmeno il nome del grande matematico. Tuttavia, per una coincidenza abbastanza conturbante da meritare l’attenzione degli uomini di scienza, l’Epistola, frutto di meditazioni essenzialmente metafisiche sul movimento, racchiude tutte le conclusioni di ordine generale che i commentatori hanno tratto dalla teoria einsteiniana, in quanto in essa lo spazio, identificato con la materia, è rappresentato come un solido, il tempo come una quarta dimensione e l’Universo come un corpo illimitato ma finito, i cui elementi non si lasciano localizzare se non nel rapporto che li lega gli uni agli altri.

Nei quattro poemi seguenti, Memoria, Numeri, Turba Magna e Lumen, l’autore sviluppa la sua tesi dal punto di vista della biologia e della mistica, ricollegandola sia alle dottrine ermetiche che alla filosofia pitagorica.

 

Epistola  a  Storge

 

Un giorno d’estate dell’anno millenovecentosedici, mentre ero disteso a una certa distanza da te, Storge Androgino, sulla riva abbagliante di un mare meno vasto, meno perfido e multiforme del mio dolore, all’improvviso, e proprio nel profondo di me stesso, udii la tua voce che mi chiedeva: ma che cos’è, in fin dei conti, tutto ciò? cosa vuole da noi tutto questo? – Allora caddi in una meditazione profonda, e mi furono rivelate delle verità, e il senso interiore di molte visioni antiche si offrì senza velo all’onniscienza del mio amore.

Dal primo all’ultimo movimento della nostra vita fisica e mentale, Storge, ogni cosa di questo mondo naturale in cui veniamo ad essere per qualche giorno si lascia ricondurre a un’unica necessità: quella di localizzare. In verità, noi non introduciamo né lo spazio né il tempo nella natura, ma il movimento del nostro corpo e la conoscenza, o più precisamente la constatazione e l’amore di quel movimento, constatazione e amore che chiamiamo Pensiero e che sono l’origine della scienza prima e fondamentale, quella di localizzare tutte le cose, a cominciare da noi stessi. Lo spazio e il tempo sembrano pronti da lungo tempo per accoglierci; eppure tutte le nostre inquietudini derivano dal bisogno di localizzare questo spazio e questo tempo: e l’operazione mentale con cui, in mancanza di un altro luogo o contenitore immaginabile, assegniamo loro un posto in se stessi, moltiplicandoli e dividendoli all’infinito, non toglie nulla a queste terribili angosce – a queste angosce d’amore, Storge – che ci perseguitano sino ai confini della Valle dell’Ombra della Morte.

Il sentimento oscuro che accompagna la nostra prima comparsa atterrita nella natura somiglia molto a quello che a volte afferra così brutalmente i nostri risvegli improvvisi dopo i torpori pomeridiani profondi e privi di sogni, nel cuore dell’estate. L’oblio del tempo e del luogo ci getta allora in uno spavento e in una tristezza senza nome, ed è meno nell’ottundimento degli organi che in quel bisogno, il primo e il più tirannico di tutti, quello di localizzare tutto in uno spazio e in un  tempo, che dobbiamo ricercare le cause profonde di questa oppressione indefinibile.

Si può dire che la necessità in cui ci troviamo di localizzare ogni cosa (compresi lo spazio e il tempo in cui le localizziamo) è la prima nell’ordine delle manifestazioni mentali della nostra vita. Indubbiamente non v’è pensiero o sentimento che non derivi da questa attività essenziale dell’essere. I primi movimenti del nostro spirito nel riconoscimento del mondo circostante le sono ciecamente sottomessi. In seguito la ritroviamo con i medesimi tratti di dominatrice nella geometria e nelle scienze naturali; il suo regno arriva ad abbracciare le estreme astrazioni della filosofia, della religione, della morale e dell’arte; il bene, il male, l’amore, i conflitti tra il vero e il falso, la ricettività della Rivelazione, l’oblio, lo stato d’innocenza, l’ispirazione – tutta la nostra progenie spirituale implora da noi la sua eredità di terre meravigliose, e l’ottiene; ed è sempre l’antica necessità di localizzare tutte le cose a stendere il suo scettro su queste contrade deliziose o terribili: l’Est degli antichi, gli Inferi, il Saana, l’Armageddon, la Patmos del Boanerges, il Lete, l’Arcadia, il Parnaso – e altre, infinite altre ancora.

Con il primo pensiero constato il mio movimento e, nel fare questo, già localizzo le cose nel tempo e nello spazio; con il secondo mi sforzo di abbracciare, dunque di localizzare, anche lo spazio e il tempo in cui ho posto tutte le cose. E allora mi accorgo che le mie due estreme nozioni del mondo naturale, quelle dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, derivano direttamente dalla necessità in cui mi trovo di localizzare tutte le cose in un luogo sicuro. Perché, dal momento che si localizza un oggetto solo in rapporto a un altro, la mia irrimediabile ignoranza di un correlativo dello spazio e del tempo mi impone di assegnar loro una sorta di posto in se stessi, estendendo l’uno e l’altro all’infinito. E la mia ripugnanza a fermarmi a un indivisibile proviene ancora dalla necessità di localizzare ad ogni costo: perché un ultimo divisibile ha ancora bisogno di un posto, e può trovarlo solo nella divisibilità delle metà che supponevo prive di estensione.

La mia idea di materia, fondamento di tutte le idee naturali, è dunque indissolubilmente unita alla localizzazione apparente che un potere puramente teorico di moltiplicazione e divisione all’infinito mi consente di assegnare al tempo e allo spazio. Togli questo amore del movimento e questa follia del ritmo dal mio cervello, e ne toglierai insieme l’idea di materia. Se infatti smetto di moltiplicare e dividere all’infinito perdo ogni nozione del luogo in cui mi ero posto, e non localizzo e non immagino più il mondo naturale in se stesso, come invece facevo moltiplicando e dividendo. Così, una volta tolto il regresso eterno dei limiti nell’immenso e nel minimo, tutto è tolto, compresa l’idea di materia.

Ma, mi dirai, qui non abbiamo a che fare con la materia: la moltiplicazione e la divisione all’infinito si rapportano solo allo spazio e al tempo. Sicuramente: però il tempo, lo spazio e la materia ci sono dati non separatamente, ma in un sol blocco nella legge del movimento. Numerosi pensatori si sono sforzati, senza dubbio in un falso spirito di semplificazione, di separare l’immagine del contenuto da quella del contenitore, o l’idea di materia limitata da quella di estensione senza fine. Alcuni hanno addirittura spinto la loro puerile temerarietà fino al punto di sezionare lo spazio infinito irriducibile in due parti, di cui l’una racchiuderebbe, secondo loro, la materia cosmica e l’altra solo le “tenebre esterne”. Ci hanno lasciato lo spazio illimitato e razionato la materia, considerando senza dubbio l’infinito dell’uno più facilmente concepibile dell’infinito dell’altro. Uomini di grande intelletto e bella fantasia sono caduti nella trappola rovinosamente. Non posso far luce qui sulle cause profonde di tale aberrazione. Esse sono spirituali, e darebbero vita, in questa lettera interamente dedicata alla materia, a una digressione troppo lunga. Mi limiterò a constatare che lo spazio vuoto dei sostenitori di un universo finito forma, con la sua particella di spazio pieno, un unico illimitato, dal momento che ogni interruzione (del resto inimmaginabile) nell’estensione sarebbe pur sempre uno spazio congiuntivo. Ora, l’infinito, risultato estremo ed eternamente sfuggente di moltiplicazioni e divisioni teoriche, rimane stabile in tutte le operazioni: qualunque sia il moltiplicatore, infatti, il prodotto è comunque infinito, come lo è il quoziente indipendentemente dal divisore: perché un quoziente determinato moltiplicato per il divisore non darebbe un dividendo infinito. Il che è come dire che l’infinito non ha parti o, accordando i termini con quelli della proposizione Eureka, che ogni parte dell’infinito è in sé infinita. Ora, poiché lo spazio riconosciuto come contenitore si trova ad essere particella dello spazio infinito supposto come vuoto, esso è in se stesso infinito; e così il mondo della materia è infinito o, per parlare con meno presunzione, la nostra rappresentazione umana di un universo di materia è appunto concezione di un universo di materia illimitato.

Ne L’amore coniugale e le sue caste delizie, Dio, la creazione e l’uomo, La vera religione cristiana e L’Apocalisse rivelata, il padre della scienza moderna, il conciliatore di ragione e fede, Emmanuel Swedenborg, si compiace di rammentare i terrori in cui lo gettavano nella giovinezza le sue riflessioni sulla creazione dello spazio e del tempo: e con questo sembra riconoscere che la creazione dello spazio e del tempo precedeva, nella sua rappresentazione, quella della materia. Ma l’idea di materia non deriva da quella di spazio e di tempo. Tutto è dato in blocco nel Movimento: ci sono simultaneità e identità assolute. E ogni volta che si fa della materia universale il soggetto della propria meditazione, è prudente allontanare per quanto possibile l’immagine inquietante degli spazi interstellari. Tali estensioni, rispetto all’infinità dei descrivibili materiali o anche all’immensità del cielo siderale parziale accessibile alla nostra osservazione, non sono altro che spazi interatomici: non appena li localizziamo nell’universo incommensurabile, diventano mera apparenza. Conosco, nel nostro povero cielo astronomico, due stelle singolarmente ardenti, due confidenti fedeli, belle e pure, e credevo le separassero dal loro amico distanze inimmaginabili. Ebbene, l’altra sera, essendo caduta dalla lampada sulla mia mano una grande falena, ebbi la tenera curiosità di interrogare i suoi occhi fiammeggianti… 

L’illimitato è nemico delle scappatoie. Esige la saggezza dell’affermazione totale o la follia della negazione assoluta. Mi è lecito assegnare limiti alla materia finché localizzo un oggetto solamente in rapporto a un altro, in uno spazio di distribuzione o di orientamento; ma non appena suppongo un assoluto totale di materia, non gli assegno più un posto in opposizione a un oggetto e in uno spazio descrivibile, ma nell’incommensurabile, in ciò che io chiamo lo spazio puro: e lì ogni determinazione scompare. Posto mentalmente in questo spazio puro, l’infinitesimo di materia riempie l’infinito dell’estensione.

Ora il pensiero, ovvero l’atto con cui localizziamo tutte le cose, in origine non è altro che una conoscenza o, come l’abbiamo definita prima, una constatazione e un amore del movimento: esso è dunque indissolubilmente unito al movimento dell’universo. Persino la fissità dei corpi che chiamiamo inanimati è solo apparente, in quanto strettamente associata al movimento proprio degli oggetti e dei mondi circostanti: tutto ciò che è corpo, infatti, è corpo della materia universale, e tale materia è inseparabile dal movimento dello spazio descrivibile. Grazie alla simultaneità del movimento e della constatazione, un’oscura percezione dell’universalità del movimento doveva già compenetrarci nelle epoche in cui, in rapporto al corso del sole, la terra era considerata un centro fisso; e le scoperte di Copernico, come tutte le altre scoperte umane, non sono altro, forse, se non conferme matematiche di una immemoriale conoscenza intuitiva ritardata dall’immutabilità dell’apparenza o arrestata da qualche scrupolo religioso, analogo a quello che nel cristianesimo nasceva dall’interpretazione letterale di un passo puramente spirituale delle Scritture. Questa prescienza del movimento universale, senza dubbio, ha egualmente favorito il progresso dell’elettrochimica contemporanea. Quando dunque io localizzo, nell’estensione descrivibile, un oggetto A in rapporto a un oggetto B, semplicemente determino la linea di un movimento A in opposizione a quella di un movimento B. Ma noi ora sappiamo che questa estensione descrivibile, o spazio di  distribuzione e orientamento, è l’infinito stesso, perché abbiamo stabilito l’identità di spazio puro e materia. Ci restano da esaminare i rapporti tra questo infinito di materia e le nostre leggi del movimento, senza perdere di vista che quanto abbiamo concluso sullo spazio si applica con la stessa esattezza all’idea di tempo: perché l’origine del pensiero è nella constatazione del movimento, e quest’ultimo non solo è unito al tempo da un legame indissolubile, ma appare anche, a chi lo considera con amore, come la materia stessa della durata. Il movimento potrebbe essere così definito punto di intersezione delle parallele del tempo e dello spazio nell’illimitato; perché il riconoscimento della analogia tra la materia e l’estensione senza limiti implica già un’identificazione tra infinito ed eterno.

Localizzare un corpo nell’estensione descrivibile vuol dire valutarne e circoscriverne il movimento in rapporto al movimento di qualche altro corpo. Ora, noi abbiamo identificato l’estensione offerta alla nostra esperienza con l’infinito della materia imposto alla nostra ragione: da ciò parrebbe seguire nel modo più naturale del mondo che una stessa legge del movimento debba reggere sia l’illimitato che il descrivibile. E tale è in effetti il caso, fin tanto che applichiamo questa legge alla materia universale considerata nell’infinità delle estensioni analoghe a quelle in cui localizziamo un corpo in rapporto a un altro e, almeno nella nostra rappresentazione, strettamente associate le une alle altre. Ma non appena abbandoniamo la figura dell’infinità degli spazi di distribuzione per l’idea di un infinito unico, e di conseguenza non-localizzato in opposizione a un altro, la legge perde la sua universalità e l’illimitato si rivela alla nostra ragione in tutta la terrificante maestà del riposo assoluto. Questo, al punto in cui siamo, va già inteso nei due sensi, quello dell’infinità dei descrivibili considerati nel loro insieme e quello dell’infinito unico: perché, qualunque sforzo facciamo di localizzare un corpo in un’estensione descrivibile in rapporto al movimento di un’infinità di corpi, o uno spazio descrivibile – un cielo siderale – intero in opposizione al movimento di infiniti altri, sia l’uno che l’altro perdono immediatamente il movimento senza mai incontrare il luogo. E per quanto riguarda l’infinito della materia considerato come un tutto assoluto e unico, non lo si può in alcun modo immaginare in moto, poiché si trova ad essere simultaneamente contenitore e contenuto, entrambi illimitati. In breve, il movimento e la localizzazione della materia sono puramente relativi: reali, in senso umano, finché sussiste un rapporto tra corpi; irreali – e irreali in senso assoluto – non appena localizziamo la materia nell’infinito.

La spirale ENS, prima realtà semplice, primo movimento, primo punto naturale e generatrice dell’infinità dei mobili, è dunque anch’essa nient’altro che una modificazione mentale, un certo stato d’amore puramente interiore della Divinità, perché interrompe l’immobilità dell’Essenza solo per ricadere nell’immobilità della Manifestazione. Mi sia concesso, per maggior chiarezza, di paragonare l’infinito della materia all’immagine immobile che contemplerebbe con amore, in uno specchio fedele, la Bellezza, nemica del “movimento che sposta le linee”.

Così dunque il Movimento, origine e fine del nostro pensiero; il Movimento, mistico compagno di servitù che ci ha seguiti attraverso l’infinità dei descrivibili mobili; il movimento svanisce al solo nominare l’Infinito. E cosa c’è di più naturale? Come immaginare il movimento d’insieme di una totalità di materia che, per definizione, riempie già lo spazio illimitato, in qualche modo lo realizza o, per meglio dire, si incorpora all’infinito dell’estensione? E tuttavia l’immobilità assoluta dell’insieme di questo corpo unico e perfetto, composto da un’infinità di particelle in movimento, è un martirio per il pensiero. Il motivo è che il pensiero è l’atto con cui localizziamo tutte le cose in un luogo sicuro attraverso la constatazione e l’amore del movimento, e l’immobilità non è solo un assenza di movimento, ma anche una negazione del luogo.

Abbiamo chiamato il pensiero constatazione e amore del movimento. Alla parola amore l’ignoranza e la grossolanità delle epoche che ci separano dal medioevo hanno assegnato diversi significati puerili e irriverenti e anche le intelligenze meno false di questo tempo terribile, di questo tempo di espiazione in cui abbiamo la sventura di vivere, sembrano non voler esprimere altro, quando la usano, che la passione, il piacere o la curiosità. Ma tale non è il senso che io attribuisco, io che mi picco di scrivere con l’anima delle parole, a questa parola augusta, ammaliante e spaventosa. Essa per me designa sempre l’Eterno Femminino-Divino di Dante e di Goethe, il sentimento e la sessualità angelici, la maternità virginale in cui si fondono, come in un crogiolo ardente, l’adramandonico di Swedenborg, l’esperico di Hölderlin, l’elisio di Schiller: l’accordo umano perfetto, formato dalla saggezza attrattiva dello sposo e dalla gravitazione amorosa della sposa, la vera localizzazione spirituale dell’uno nei confronti dell’altra, arcano essenziale, così terribile e bello che mi divenne impossibile, dal giorno in cui lo penetrai, parlarne senza versare un torrente di lacrime; spaventosa e tacita tenerezza il cui assillo esaspera, dalla prima all’ultima nota, e forse all’insaputa dell’autore, tutta la musica, ancora così poco compresa, di Richard Wagner. Nel senso universale, infine, l’intuizione orfica che ci insegna a travasare la sovrabbondanza del nostro movimento nel cuore fraterno della pietra, ad animare il corpo più umile, a porlo nel suo luogo e nel suo tempo con quella tenerezza delicata e quella infallibilità amorosa che ci consentono di localizzare nel luogo sicuro e al momento opportuno la parola e il suono nel poema, il muscolo e il passo nella danza, il tono e l’accento nella dizione, la linea guida di movimento e di vita nella scultura, la prima e l’ultima vibrazione di colore nella pittura, nell’architettura, infine, la pietra e la trave, in una ripartizione logica e armoniosa dello sforzo. Il ritmo è la più elevata espressione terrestre di ciò che chiamiamo pensiero, ovvero la constatazione e l’amore del Movimento.

Ecco dunque, fissato in pochi rapidi tratti, il senso spirituale che attribuisco nei miei scritti alla parola essenziale, amore, verbo eterno e primo fra tutti i richiami. Ma come conciliare il sublime amore di un movimento che fa correre in cerchio senza posa, attraverso gli spazi descrivibili, la materia così armoniosa e bella, sì, come accordare questo amore immenso, questa arte, questa scienza, questa fede universale, con l’inimmaginabile immobilità dell’infinito della materia pura? Perché il nostro amore ha bisogno di una materia in movimento e che si lasci estendere all’infinito; e la ragione ci dà sì una materia che si lascia estendere, ma animata esclusivamente dal ritmo mentale con cui la estendiamo. Nonostante dunque la sua realtà di descrivibile identificato con l’infinito, la materia pura ha per ogni movimento, e di conseguenza per ogni localizzazione, solo ciò che può prestarle dell’uno e dell’altra un potere meramente teorico di moltiplicazione e divisione senza fine, una creazione eternamente insoddisfatta di ritmi.

Laggiù, non so dove, l’immobile Illimitato; né movimento, né luogo; un non so che, che è la totalità di tutto ciò che è, di tutto ciò che so e di tutto ciò che mi resta da apprendere; un contenitore di ogni luogo reale o immaginabile, e un contenitore non-localizzato; al contempo ciò verso cui vado, verso cui si affretta tutto il movimento della totalità dei descrivibili: e che cos’è? che cos’è alla fin fine? Un assoluto di immobilità che supera la mia ragione, e che tuttavia non la supera al punto che questa non possa riconoscerne qualche attributo: e questo unico conoscibile è per l’appunto l’inimmaginabile immobilità. Qui – ma  che vuol dire, Storge, la parola qui? – una debole ragione insoddisfatta e ribelle, e un immenso amore: un amore che niente sazia, che niente placa; un amore devoto per la materia illimitata in eterno movimento, una follia universale del Ritmo.

E stiamo attenti, Storge, a non perdere mai di vista che ciò di cui qui ci occupiamo non è né il mistero spirituale delle affinità, né la vita mistica e sentimentale, né l’ignoto in fondo al quale dobbiamo tutti cadere, domani; perché stiamo parlando solo della materia che siamo, della materia che ci circonda e della materia che saremo per lunghi, lunghi anni nella tomba. La tavola a cui mi siedo, il calamaio in cui intingo la penna, propongono al mio cervello tutto-movimento il problema insolubile. Figlio dell’uomo, non ho dove posare il capo. Nessun luogo: e certo, m’importerebbe poco sapere da dove vengo e dove vado; ma non so dove sono, eppure sono, io che amo! perché tutto il resto è vanità, fumo, ombra: ma tu, Storge Androgino, che sei per me movimento e luogo, ed io, tuo sposo in questo spazio, in questa materia che è già l’infinito e in questo tempo misurabile che è già l’eternità, noi, noi siamo. Tu, Storge, ed io, siamo: e forse in me ci sono pazzia ed ebbrezza, ma al seno di questo universo indefinito, non-localizzato, conosco un luogo sicuro, in cui la ragione non finisce impantanata, e questo luogo è il mio amore; e anche un solo movimento, e questo movimento è l’instancabile e vuota moltiplicazione e divisione all’infinito, sovrapposizione incessante di spazi e di tempi, sorella spirituale della moltiplicazione senza fine che è il poema eternamente insoddisfatto. Mai la scienza, infatti, determinerà la localizzazione reale di un qualsiasi oggetto:  ma ogni corpo è localizzato in un luogo sicuro rispetto all’onniscienza, e l’onniscienza è amore. Tuttavia, considerata dal nostro punto di vista umano, questa visione puramente mistica del luogo supera sia la ragione che il sentimento, e sarebbe pazzia voler cercare prove alla realtà terrestre della nostra vita al di fuori dell’assoluta identità della materia che ci riveste e circonda con quella in cui si umiliò, negli anni dell’Incarnazione, l’Amore  onnipotente.

Dove nulla è localizzato, non c’è passaggio da un luogo all’altro, ma solo da uno stato – uno stato d’amore – all’altro: ecco perché l’amore si fa beffe della vita e della morte. Non amo né le teorie dell’astrale degli adepti, né quelle dei mondi spirituali di Swedenborg. Tutti questi poveri d’amore sanno, forse oscuramente, che nulla è localizzato: ma hanno bisogno di un movimento e di un luogo a tutti i costi; e così, animando l’assente, lo localizzano nel nulla. E hanno un bel dire che i loro mondi sostanziali sono estranei al tempo e allo spazio, e che in essi il luogo è solo apparente, o ancora che in essi l’intera realtà è creazione istantanea e correlativo di uno stato spirituale; si sente bene che, restando malgrado tutto sottomessi alla legge del movimento, localizzano il loro immateriale in un luogo determinato dalla sua stessa opposizione alla materia. Tanto è difficile rompere, persino nelle modalità di pensiero più pure, con l’abitudine di localizzare A in rapporto a B. La dottrina spiritualista più ostile al materialismo si guarda bene, per paura di perdere terreno, dal privare la materia del suo movimento e scacciarla così dal suo luogo: come assegnare, infatti, un posto al mondo spirituale, per quanto al di fuori dello spazio e del tempo, se non localizzandolo in opposizione all’idea di una materia già stabilita?

Ma tu, Storge, tu ora sai che questa materia che abbiamo riconosciuto infinita è un assoluto dell’immobilità ed è localizzata solo in rapporto all’onnisciente Amore. E sai anche che il nostro pensiero, la nostra vita nello spazio descrivibile, Storge, non è che una constatazione e un amore del movimento, e che l’espressione suprema di questo amore nella scienza è la moltiplicazione e la divisione dell’infinito per l’infinito, e nell’arte il ritmo che scaturisce senza posa ed è eternamente insoddisfatto. È arrivato dunque il momento di trascendere questa antinomia svelandoti, tenerezza terrestre, l’arcano supremo dell’Amore universale, così come mi fu rivelato, a me tuo sposo, mentre meditavo con la testa nella sabbia, sulla riva assolata.

Dove nulla è localizzato, non c’è passaggio da un luogo all’altro, ma solo da uno stato – uno stato d’amore – all’altro. Nello stato attuale della nostra tenerezza noi moltiplichiamo e dividiamo all’infinito e ci abbandoniamo al torrente terribile del ritmo, e nulla ci soddisfa. Ma moriremo, Storge, ed entreremo in quello stato benedetto in cui moltiplicazione, divisione e ritmo senza posa insoddisfatti trovano il numero supremo assoluto e il finale immutabile, perfetto, di ogni poema. È il secondo amore, Storge, è l’Elisio del Maestro Goethe, l’Empireo del grande Alighieri, l’Adramandoni del buon Swedenborg, l’Esperia dello sventurato Hölderlin. È già qui – ma  che vuol dire, Storge, la parola qui? – sì, e diffuso nella materia universale, nella materia infinita, dunque priva di movimento e di luogo. Felice lo spirito d’affermazione che scopre, proprio qui, questa realtà sicura e unica, quest’isola di Patmos, terra della beatitudine, dove il compimento del movimento mentale è il correlativo dell’immobilità della materia infinita! Perché un altro stato d’amore, un terzo, mi fu rivelato, a me, spirito sventurato dell’orgoglio, della rivolta e della negazione. Là, la moltiplicazione e la divisione all’infinito si sforzano invano di riempire una nera e atroce eternità di terrore, e un ritmo insaziabile, sacrilego, infernale ti trascina come un filo di paglia, nel vortice e nel frastuono del caos dell’espiazione. Ho visitato, caro figlio mio, l’una e l’altra contrada, ed ecco il resoconto fedele del mio viaggio.

Il quattordici dicembre millenovecentoquattordici, verso le undici di sera, nel mezzo di un perfetto stato di veglia, dopo aver recitato la mia preghiera e meditato il mio versetto biblico quotidiano, sentii all’improvviso, senza ombra di stupore, prodursi in tutto il mio corpo un cambiamento dei più inattesi. In primo luogo constatai che mi era concesso un potere, fino a quel giorno sconosciuto, di sollevarmi liberamente attraverso lo spazio; e l’istante dopo mi trovai presso la cima di una montagna possente avviluppata di foschie bluastre, di una tenuità e dolcezza indicibili. La fatica di sollevarmi con il mio movimento da quel momento mi fu risparmiata; perché la montagna, strappando alla terra le sue radici, mi portò rapidamente verso altezze inimmaginabili, verso regioni nebulose, mute e percorse da lampi immensi. Ma la singolare ascensione fu di breve durata. Presto ogni movimento cessò, e a una distanza piuttosto ridotta dalla mia fronte percepii una nuvola pesante e molto densa, che nonostante il suo colore leggermente ramato paragonai al seme appena versato dall’uomo. Al di sopra della sommità del cranio, un po’ verso la parte posteriore, apparve allora un chiarore, come quello di una fiamma riflessa da un’acqua ferma o da uno specchio antico. Tutti i miei sensi rimasero, nella rapida successione di queste scene, tanto desti quanto lo sono ora che scrivo; ma non provavo né timore, né curiosità, né stupore. Dalle regioni che sapevo situate assai lontano dietro di me scaturì, l’istante dopo, una sorta di ovulo gigantesco e rossastro che, lanciato con violenza inaudita nello spazio, ci mise poco a raggiungere la linea della fronte; e là, cambiando all’improvviso movimento e colore, si arrotondò, si restrinse, divenne lampada d’oro, si abbassò sino a sfiorare il mio viso, risalì, si espanse di nuovo, riprese la sua forma ovale di sole angelico, si andò a posare poco più in alto della mia fronte e mi guardò lungamente negli occhi. E sotto quell’astro serafico una pianura d’oro vaporoso, d’oro di Saba, si estese, malia per il mio sguardo, sino ai confini di quel paese d’amore. Allora un’immobilità perfetta, un’immobilità assoluta colpì il sole e le nubi, procurandomi l’inesprimibile sensazione di un compimento supremo, di una pacificazione definitiva, dell’arresto completo di ogni operazione mentale, di una realizzazione sovrumana del Ritmo finale. La lettera H fu aggiunta al mio nome; io gustai la pace, sì, Storge, Storge, io! gustai una pace santa, non c’era più nella mia testa traccia d’inquietudine né di dolore, ero sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec. Ahimè! la visione eterna e brevissima svanì: mi ritrovai nel mio alloggio insopportabile; ma ali possenti o, più esattamente, elitre invisibili ma che indovinavo immense mi ventilavano con un adorabile fruscio, e sussurri pieni di compassione fraterna e inframmezzati di strani suoni di liuto mi interrogavano in un linguaggio ignoto. Al ricordo vivissimo di questo cambiamento di stato sopravvenuto nella pienezza della vita fisica e in assoluta coscienza mentale, si mescola l’oscura sensazione che la mia preparazione morale non fosse ancora adeguata all’importanza del fenomeno e che persino il bel sole di Saba fosse un velo, l’ultimo, forse, che la mia indegnità non osò sollevare.

Qualche tempo dopo mi fu concessa la grazia di visitare la mia vera patria spirituale. Questo secondo viaggio si svolse in condizioni assai diverse da quelle del primo; infatti, lungi dal sentirmi perfettamente padrone, come nella spedizione precedente, di tutte le mie facoltà fisiche e mentali, mi trovavo, nell’istante in cui mi afferrò il pericoloso influsso, immerso in un sonno estremamente profondo. Geremia, nel capitolo XXIII del suo libro, traccia una distinzione molto precisa fra il primo stato di visione pura, o Patmos apocalittica, e il secondo, che è quello della ricettività negli abissi del sonno. Una vasta distesa di laghi oscuri, verdastri e putrescenti, invasi da una follia di tristi ninfee gialle, si aprì all’improvviso al mio sguardo. Su quelle acque stagnanti e desolate come gli occhi dei paralitici era gettato un ponte di ferro, dalla forma rivoltante e di una lunghezza spaventosa, e, all’estremità del ponte, dopo una traversata di milioni di anni, si offrì ai miei occhi un paesaggio di cui non cercherò di esprimere la mortale, infernale malinconia. Era una pianura immensa e deserta, imprigionata in un anello ostile e muto di alte e vigili montagne. Solitudine senza sbocco, condanna irrevocabile, abbandono estremo; e, in tutta quella satanica immensità, nemmeno un pollice di terra che non fosse ricoperto, da soffocarne, di un’erba gialla, cinerea, ripugnante, che paragonai, nonostante la sua altezza da arbusto, al muschio rossiccio e alterato che corrode le vecchie pietre sepolcrali. Cadde la sera. Allora un universo di terrore, miliardi e miliardi di volte più vasto, più affollato e scintillante del nostro cielo siderale, si accese al di sopra del mio capo, e il movimento, visibile a occhio nudo, di questi cosmi tormentati era accompagnato da un rumore odioso, criminale, nemico di ogni meditazione, di ogni raccoglimento. E il senso segreto di tutto quel movimento e di tutto quel frastuono era: bisogna moltiplicare e dividere l’infinito per l’infinito per un’eternità di eternità; nessun riposo, per te, né ricordo, né amore, né speranza: moltiplica, moltiplica, dividi, dividi; questi mondi precipiteranno nel caos, e tu li sostituirai con altri: ma sarai sempre qui, sempre in questo stesso posto, e moltiplicherai e dividerai. E sentirai eternamente l’ultimo numero, il suono supremo, il finale di questo ritmo martirizzante sulla punta della lingua e, miserabile vittima della tua stessa iniquità, ridicolo trastullo del tuo orgoglio scientifico, farai sforzi disperati per rigettare quell’ultimo numero, per sputarlo, per vomitarlo: invano; si cancellerà dalla tua debole memoria e tu ricadrai nel calcolo infinito, nel vortice del ritmo eterno. Allora, dal fondo del mio spavento e dall’apice della mia esasperazione lanciai un grido: “Dov’è il Signore di questo paese? Dov’è il Re di questo atroce Reame Aven? Che appaia! Lui mi capirà, mi darà rifugio sotto la sua ala nera e fredda, mi amerà, mi salverà: perché, se in questo infinito di dolore, di terrore e di abbandono è una creatura amica dell’Amore, non può che essere il Principe decaduto di quei Reami!”. 

Miliardi di atroci sguardi stellari si concentrarono sul mio viso, una risata demoniaca illuminò il volto dell’eterno Mobile. “La stella del mattino cerca la Stella del Mattino, il figlio dell’uomo chiama il Figlio dell’Uomo. Tutto è compiuto. Tutto è compiuto”. Voglia il Divino, sordo alle mie nere preghiere, prestare orecchio, Storge, alle tue. 

 

Memoria

 

…si cancellerà dalla tua debole Memoria e tu 
ricadrai nel calcolo infinito…
Epistola  a Storge

 

Questo è nato dall’amore dell’Abisso, questo è Ars Magna e racchiude tutta la poesia sacra della Scienza. Tu che, nei secoli a venire, leggerai queste pagine con un sentimento di rispetto filiale per il loro autore e di indicibile disprezzo per l’epoca che le vide nascere, ricorda che Memoria è la chiave dell’Epistola a Storge, e che questa epistola, in cui ti fu rivelato sin dal 1916 il segreto metafisico della Relatività, è la nuova porta del palazzo dell’unione delle fontane. E allora, avvicina l’orecchio alla mia tempia e ascolta. La mia testa è come la pietra del crocevia e del torrente cosmici. Ecco, i grandi carri neri e muti della Meditazione stanno per passare. Poi sarà terrore come di un’effusione dell’acqua  primordiale. E tutto questo sarà il Silenzio. E da un luogo mai raggiunto dal messaggio di alcuna terra, sonderò questa eternità senza luogo che si apre in me nel cataclisma muto.  Perché lo spazio, il tempo e la materia sono racchiusi in questa unità insondabile, ma sensibile, creata in noi e proiettata attraverso l’occhio murato dal nostro Movimento interiore, sangue e spirito, che di primo acchito potremmo chiamare pensiero del sangue. Questo linguaggio ti ha già rivelato chi sono. Sì, figlio mio, io sono colui che sono, io sono colui che sa, che sa, e sono colui che parla vincolato a una misura. Apprendi dunque da me, figlio di un tempo in cui sarò compreso ed amato, che dall’alfa  all’omega tutto questo poema, Corona dei due Testamenti, tratta del prossimo sorgere del Sole della Memoria. La conoscenza della sostanza primordiale dorme in noi nelle tenebre dell’orgoglio come l’oro sotto il peso delle montagne. Ciò che la nostra scienza avara e privata del suo sguardo mediano [centrale] e iniziale ci getta di secolo in secolo dall’esterno, come un osso, è solo un oscuro correlativo del magistero di cui risplende l’interno della nostra santa dimora d’argilla. Qualcosa del padre originario indubitabilmente sussiste in noi; le generazioni procedono da un Movimento unico, e questo Movimento è la materia inalterabile dello spazio e del tempo. Cosa t’insegnava Storge? Che l’immobilità non è solo un’assenza di movimento, ma anche una negazione del luogo (e di conseguenza di spazio, tempo e materia). Memoria aggiunge: Tutto ciò che è Movimento è sangue. Il Movimento è Uno, perché è lo spazio e il tempo colti in una materia; dunque la Materia è Una, come ciò che la rende materia, e cosa la rende materia se non il Movimento? Dunque, se la materia è unità, in quale Movimento se non in quello del sangue ne cercheremo la realtà, il luogo unico? Tutto il segreto della Manifestazione risiede nella trasmissione attraverso il sangue, fiat celeste, di un Movimento che è identità dello spazio, della materia e del tempo. Fisicamente, il cosmo intero [s]corre in noi: ma se il mare primitivo, che fu uno dei nostri primi habitat e la cui respirazione ancora regola quella del nostro cuore, ricorda, noi, invece, abbiamo dimenticato. Le radici del nostro essere fisico penetrano così a fondo nella massa illusoria del globo, che è più facile predicare la verità agli alberi e alle rocce che far cogliere all’uomo l’identità della materia, dello spazio e del tempo nel Movimento, o la necessità di sostituire al concetto infantile di una eternità di successione divisa in passato, presente e futuro, quello di una simultaneità o piuttosto istantaneità, di cui la rotazione a una velocità infinita sarebbe l’imperfetta immagine. Così il nostro sangue perpetua l’istante della prima emissione e l’intera coscienza del propulsore spirituale è ancora in lui, sempre pronta a svelarsi progressivamente alle intelligenze che, con l’arma magica della preghiera, hanno riconquistato il luogo assoluto dell’Affermazione. Tutto il sangue cosmico è ancora nello slancio della prima eiaculazione; mobile iniziale, ci insegna a localizzare tutte le cose dello spazio nel solo Movimento, e tutte le cose del tempo nella sola istantaneità. Questo è il segreto degli antichi Maestri e l’origine celeste del loro duplice concetto dell’unità della materia e dell’identità dei due mondi. Una volta ammessa la trasmutazione come principio fondamentale, il progresso della mia opera sulla loro doveva limitarsi a una semplice estensione, perché dopo Böhme, Sendivogius e Paracelso mi restava solo da identificare la materia con il tempo e lo spazio e, avendoli colti tutti e tre nel Movimento, scacciare il Movimento stesso dal suo luogo (che, come ho appreso poco dopo e rivelo qui, è il sangue) per far ricadere il tutto nell’immobile istantaneità del Sole della Memoria. Estraneo alle matematiche, pubblicando sin dal gennaio 1917 la mia Epistola a Storge, non ero altro, dunque, che un annunciatore metafisico della teoria della Relatività generale, di cui all’epoca ignoravo tutto e in cui salutai, qualche anno più tardi, non tanto una conferma del risultato della mia meditazione ventennale sulla materia, lo spazio e il tempo, quanto l’alba di un’era nuova e meravigliosa dello spirito. Poco importa che io non sia stato compreso dal miserabile ed egoista pensiero contemporaneo; perché, a dire il vero, mi piace a tal punto la solitudine del mio promontorio, e il Sole della Memoria mi ha fatto conoscere così tanta ricchezza interiore, che mi vergognerei di vedere nella mia scoperta altro che un segreto ermetico antichissimo ereditato, con il movimento del sangue, dai miei antenati sovrani di Lusazia. Interroga, caro figlio mio, questo sangue che, fin dalla consistenza e dal colore, t’appare d’una così celeste sostanza; penetra nella sua colata spirituale, coglilo nella sua tragica pulsazione e vieni poi a dirmi se è la demenza o la saggezza che mi prescrive di difendere qui la sua gloria. In lui ritroverai il calore e lo zampillo dell’insondabile istantaneità; ti dirà di quali fedeltà e di quali rivolte è la lizza sontuosa; ti rivelerà i suoi mille veleni e il suo rimedio unico; ti spiegherà la femminilità della Manifestazione, e come Eva fu estratta da Adamo, e perché, abbandonandosi al ritmo dell’emissione originaria, ogni predisposizione alla creazione intellettuale, non sostenuta dall’orazione, finisce per ripudiare l’atto procreatore. Ti svelerà, infine, il segreto della trasmutazione universale, perché è l’Alchimista che sotto la veste di rubino dissimula il pane e il vino della Cena. Il sole della nostra memoria è solo oscurato e tutto ci sarà restituito col segreto del sangue nella virtù di una scienza ricondotta dalla Relatività alle sue origini celesti. Questo sangue, infatti, essenza del Movimento e ritmo universale, è il contenitore, il fondamento, il luogo, per dir tutto, della simultaneità e dell’istantaneità del tempo, dello spazio e della materia. Perché non ho il potere di introdurti nelle camere segrete, nel gineceo della virginale Creazione! Ahimè! Parlare e scrivere, ecco dunque una miserabile carità! Questo non è comunicare, infatti, ma limitarsi a proporre qualche oggetto alla meditazione. E la meditazione stessa non è che uno sforzo ansioso e debole della nostra memoria; perché il luogo segreto fra tutti è in noi, e la nostra corona è quella dei tre regni. Ecco perché, quando lo spirito della terra mi detta: subconscio; io, nel solo Luogo localizzato, scrivo: Sole della Memoria. Memoria, lo ripeto, è la chiave d’oro di Storge, che a sua volta è la porta che spalancherai agli influssi paradisiaci dei tempi nuovi. Rileggi l’epistola generosa e saprai che cosa racchiude la memoria dell’uomo. Cosa dice infatti, in linguaggio mistico, Storge? “Io, che non ho mai potuto vedere cader dalla mia mano un sassolino raccolto per strada senza che qualcosa di segreto in me si lacerasse come per una separazione di cuori, io per prima, Storge, ho compreso ciò: che la santa pietra del cammino è l’indivisibile e insondabile unità dello spazio, del tempo e del Movimento. Perché materia, spazio e movimento sono caduti dal solo Luogo localizzato come una sola pietra di testimonianza. Questo, comprendilo bene, è l’arcano fondamentale; perché ogni realtà iniziale chiede l’umiltà di un corpo e la prova di una vita, e questo per  l’adorazione; perché nell’atto d’adorazione è il fine di tutte le cose. Tale è lo spirito celeste del Movimento, dimora del tempo, della materia e dello spazio”. E cosa aggiunge a questo discorso il confidente di Storge che ti sta parlando? Semplicemente questo: “Questo Movimento, questo vento che incalza verso il Luogo i sistemi non localizzati, questo Movimento è in noi, è il nostro sangue”. Ora, figlio mio, fa’ bene attenzione a quanto segue. Quando possiedi una cosa, è proprio la cosa che possiedi o solo l’affermazione interiore con la quale ti fai passare per il possessore? Ebbene, il tuo sangue, che possiedi nell’istantaneità come mai sposo possedette la sposa, figlio mio, il tuo sangue che è Movimento primordiale, spazio, tempo, materia, il tuo sangue e il suo segreto tu hai cessato di possederli in ispirito. Il possesso iniziale nella simultaneità è sempre presente; ma quale aiuto te ne può venire senza l’eroica Affermazione? La follia dell’orgoglio consiste nel porre il minimo bottino al di sopra di ogni dono; e anche quando viene riconosciuta la generosità, nell’attribuirlo all’ignoto piuttosto che al padre. Ascolta, figlio mio, non mi stancherò di ripeterlo: tutto l’universo [s]corre in te, illuminando con la sua aureola mirabile il capo dell’onnipresente. Il tuo sangue, il tuo sangue è come l’acqua primordiale; ricorda nell’obbedienza, opera nell’amore. Nutri dunque il tuo sangue con il grano dell’affermazione, figlio mio; non sostentarlo solo con i frutti del tuo orto inaspriti dal sudore della tua fronte. Che hai fatto, che hai fatto dunque, figlio mio, per dimenticare ciò che il tuo sangue, celeste clessidra, ricorda? Avvicinati, aprimi almeno la tua coscienza affinché io trasmuti in oro il piombo della tua umiltà. E poiché abbiamo menzionato l’Alimento, pronuncia a voce alta insieme a me queste parole che ti prescrivo: “Siate benedetti, Pane e Vino, figli della terra e del cielo, che dopo ogni pasto che faccio, viaggiatore, in questa locanda, mi gettate in una esaltazione santa e feconda. Siate benedetti, Pane, Vino, nell’unità di questo sangue, di questo Movimento e di questo spazio, nei secoli dei secoli. Amen”. Ma non so se mi hai ben compreso. Il tuo sangue, il tuo sangue, ti dico, è il fiat che, ancor prima della schiusa cosmica, ricevette l’impressione iniziale del Movimento, al solo fine di rivestire di un contenitore fisico, dunque di una mera parvenza di luogo, il concetto indiviso materia-spazio-tempo, che è l’uomo stesso nella perfezione della sua umiltà. Poiché questa bella umiltà solare è stata oscurata dal fiato vulcanico dell’orgoglio, come comprendere, mi dirai, figlio mio, che questo sangue della cecità si preoccupi ancora di descrivere, attraverso l’immensa inutilità delle cose, i suoi due mirabili cerchi, il grande e il piccolo? Ma è proprio questo, figlio mio, che gli uomini che hanno creato Dio e l’Universo chiamano istinto, istinto di conservazione, e che noi, nel solo Luogo localizzato, conosciamo come il Sole della Memoria. Questo sangue cosmico, infatti, questo fiat movimento-spazio-tempo-materia, non è altro che l’impronta d’un Luogo che, non esistendo unicamente nel rapporto di A con B, ma per sua realtà propria nel nostro potere di affermazione, è il generatore e il solo punto di riferimento di tutti i luoghi circoscritti da una relazione. Capisci, senti ora fino a che punto siete diventati, tu e il sangue, estranei l’un l’altro? Ebbene, sto per dirtelo con ogni riguardo possibile. Passi pure che il tuo stesso sangue, maestro del tuo segreto più profondo, viaggia ansiosamente nelle tenebre feroci; ma anche quando quello della sposa, amata di una passione santa, ti trascina nel suo torrente elisio, ti senti come il cieco che, attraversando il ponte, percepisce del fiume solo l’odore e il respiro. Dell’effusione mistica il tuo amore raccoglie solo la testimonianza esteriore, la quale comprende certe manifestazioni che vanno dal tatto, che è illusione, alla parola, che è menzogna; mentre l’unione perfetta, la fusione alchemica di cui il figlio stesso non è che il suggello [signature] effimero e sensibile, si opera all’insaputa del tuo occhio mediano [centrale] ricoperto dall’albugine notturna dell’orgoglio, assassino di ogni permanenza. Sicuramente uscirete da questo mondo di pietre alterate, tu e la sposa, come vi siete entrati, nella Separazione, e senza mai esser stati accordo d’arpa; tristezza e impurità per la Coppia dei Giardini; e ai vostri stessi occhi, talloni sul cranio, organi sessuali rossi afferrati dal brivido delle porte segrete, logorati dalla delizia di questa falsa fedeltà mentale che, persino nel sacramento privato della sua luce, arriva ad eccitare e far contorcere la bestia del tradimento. Tuttavia, se sei padre, benedici la creazione, perché la sposa ancora vergine forse ha amato suo figlio in te. Ti rivelo qui un segreto spaventoso: ma tu sei un abitante dell’Avvenire solare, un secolo di Relatività è già trascorso e comincia il regno dello spirito nuovo. D’altronde, esiste bellezza più tormentosa di quella dell’angelo che smuove le acque? Dal matrimonio indistruttibile nasce il movimento verso il luogo localizzato, Magnum Compositum, la cui virtù attiva continua ad agitarsi in mezzo ai terrori dell’eclisse spirituale; e la prova è nel soccorso prestato a una scienza impura dai contravveleni estratti dal sangue, raggi furtivi che sono al contempo ricordi e annunci della Magnificenza spirituale. Il fuoco d’onniscienza cova allo stesso modo nel sangue animale, nella linfa nutritiva delle nostre sorelle piante e, in generale, nelle tre sostanze della totalità terrestre coinvolta nella nostra decadenza. Dunque immagina sorto l’Astro della Memoria, terribilmente irradiante, ma anche dolcissimo d’un oro per così dire femminile – ah! come corriamo, tu ed io, a salutare nel loro santo linguaggio la lucertola, la pietra e l’ortica! Tale, figlio mio, è l’Arcano fondamentale; ma, per calmare il tuo cuore, ti ridirò le stesse cose in soavi immagini. Il Movimento, il Sangue – l’Amore, perché ormai dobbiamo chiamarlo per nome – non viaggia come lo sguardo in linea retta di creatura in creatura: ma descrive una curva meravigliosa su un cammino d’arcobaleno e, scaturendo da un cuore per ricadere in un cuore, attraversa tutto il grande cuore balsamico del Maestro, i suoi piedi di luce sui bucaneve della freschezza paradisiaca. L’amore degli sposi, povero figlio mio, è il frutto dell’innesto di due preghiere. Ma non ti ho parlato della femminilità della Manifestazione? e anche tu sei potuto restare insensibile all’incanto di quest’Acqua cosparsa di miliardi di ninfee stellari? Figlio mio, figlio mio! Su questa terra smarrita, dove la pietra attende con santa pazienza che tu le dica che è viva, ma dove Adamo finì per disilludersi di tutto, anche del potere di essere una cosa sola con Dio, figlio mio, figlio mio, non hai mai sentito risuonare in te l’ora perfetta dell’universo? Ascolta, io evoco giorni antichissimi; la materia, lo spazio e il tempo erano ancora come isole sparse in un mare misurato, tutte le galee d’oro del firmamento erano ancora all’ancora nell’antico porto dell’immobilità, il pensiero dell’uomo nuotava tranquillamente nella trasparenza senza chiedersi dov’era localizzata quell’acqua universale, e i saggi già si distaccavano da Dio, ma con un sorriso perché, scomparso Dio, restavano ancora un Luogo e una Sicurezza: figlio mio, figlio mio, io evoco giorni antichissimi, eppure il terrore della realtà mi riafferra! Era una notte torrida del secondo equinozio ed ero solo nel silenzio della luce totale del mondo; infatti Rinascita, mia sposa, dormiva ai piedi del trono sulle terrazze sospese fra le due rugiade immense, quella superiore e quella inferiore, la stellare e la terrestre. E mentre contemplavo la Dormiente avvolta dal fuoco della notte, ella m’apparve, attraverso la distanza del sonno, remota come una costellazione. E tuttavia la sentivo in me, più dolcemente e più terribilmente che mai. Ella scendeva, con il raggio d’un sole da gran tempo scomparso, nelle più silenziose profondità della mia vita, in quell’abisso dove reminiscenza e presentimento sono una cosa sola. E all’improvviso la sentii totalmente intima e mia, e come trasmutata in una bellezza d’universo. Che compassione mi prese allora alla vista di tutto questo cosmo giù in basso! Arrivai a perdere anche la nozione di cosa esterna; amore ritornato carità, sentivo il mio stesso sangue [s]correre attraverso l’intera creazione e la manifestazione dell’Essere mi appariva nella sua forma e nella sua luce femminili. Così mi fu svelato l’Arcano Coniugale. E allora, nell’immensa Istantaneità, mi incoronò il Fuoco mirabile, il Sole della Memoria, porta del solo Luogo localizzato, tomba dei Numeri, palazzo degli incontri segreti con me stesso. Figlio mio, rileggi l’Epistola a Storge. E ricorda che bisogna amare gli esseri e le cose: perché tutto questo, dalla pietra a Cristo e da Cristo al Padre, tutto questo è il tuo sangue. Sole o atomo, ogni movimento è vita e amore, creazione di spazio-tempo-materia. Questi non sono grani lanciati da una mano di seminatore! Non c’è altro che sangue, sangue che [s]corre di moto proprio! 

 

Numeri

 

…Sole della Memoria, porta del solo Luogo 
localizzato, tomba dei Numeri…
Memoria

 

Il sangue è il paradigma dei valori metafisici. Lo spazio, il tempo e la materia ti sono dati nell’istantaneità non solo della conoscenza, ma anche della semplice constatazione, in virtù del Movimento universale, che è fiat, ovvero proiezione del tuo sangue al di fuori del Luogo. Questo sangue, questo cosmo, artefice della tua carne, mobile unico e perfetto, è una totalità delle energie manifeste. Luminoso e ancora fumante della tintura del suo sole, nonché strettamente congiunto all’oro curativo che trasporta, ci offre a colpo sicuro un’immagine vivente dell’Unità originaria simboleggiata dal rubino nel pettorale. Tuttavia, sul piano fisico è l’atto stesso dello sdoppiamento e ha già bisogno, come Cristo, di due occhi per vedere se stesso, mentre la vista mnemonica, orientandosi verso il Luogo, emette un solo raggio. Il sangue è dunque la seconda persona; e se mi hai seguito attentamente nel percorso di deduzioni dell’Epistola a Storge e di Memoria, devi aver già colto la portata scientifica della parola del Maestro: ecco la mia carne, ecco il mio sangue; e della dottrina ermetica dell’identità delle due sfere, perché ciò che chiamiamo vita e spirito non è altro che la trasmutazione, nell’istantaneità, del macrocosmo in microcosmo, del pane e del vino in sangue. Il tuo movimento interiore è Verbo e si nutre del Verbo nell’istantaneità del fiat. Ciò che mangi sei tu stesso, come ti ha mostrato il divino Hohenheim. E questo movimento interiore è al contempo Luce, coscienza totale, sole della Memoria. Fiat è dunque sangue, e nel suo schizzare al di fuori del Luogo trascina irresistibilmente con sé il secondo termine, che è Lux: e questa è la conoscenza solare che finì per oscurarsi nel momento in cui l’uomo, rinunciando a riconoscersi nel solo Luogo determinato dell’Istantaneità, s’invaghì del fantasma di un’eternità passata e futura ed escogitò l’idea di moltiplicare e dividere l’infinito per l’infinito, nella folle speranza di localizzare con i propri mezzi l’infinità dei punti cosmici inabissati nella relatività. Ma ho già esaurito questo arcano nell’Epistola a Storge, vangelo della nuova conoscenza; e non ho alcun desiderio di attardarmi su questi argomenti, perché i soli lettori a cui mi rivolgo, miei figli spirituali nei secoli a venire, mi capiranno al volo, guidati nello studio della mia opera dalle conferme matematiche di Einstein. La caduta di Adamo e la confusione delle lingue non sono che simboli della divisione in spazio, tempo, movimento e materia, dell’unità racchiusa in principio con la sua coscienza nel sangue. La conseguenza fu che l’uomo perse la nozione del movimento interiore e unico e che il suo pensiero, anche dopo Harvey e fino ad oggi, restò una semplice constatazione dell’infinità non-localizzata dei movimenti esterni. Ciò è talmente vero che il Redentore non ebbe altro fine che di ricostruire la Chiesa, che va intesa come il concetto della Creazione, nella sua unità, fondandola su un’unica pietra: questa pietra, come ho mostrato in Memoria, è il sangue che, zampillando dal Luogo, diviene spazio-tempo; perché sangue e pietra o sangue e cosmo sono una sola e identica cosa, e questo è il motivo che ci spinge a cercare la pietra sacra in noi stessi. Il sangue, abbiamo detto, è Verbo, fiat; il suo movimento universale e unico è uno zampillare nell’istantaneità, ed è solo con la divisione dell’unità all’infinito che ci fu possibile concepirlo come una circolazione nel tempo. La fonte del sangue è nell’unità indivisibile, unico alpha che non richiede alcun beta in vista di una determinazione. Il sangue è dunque, in virtù dell’istantaneità, l’unità insondabile stessa; tuttavia in quanto manifestazione è già unità divisibile, segno vivente del numero due, e per questo generatore dell’infinità dei punti non-localizzati. Se infatti la materia possiede una realtà relativa, non può che essere quella del numero, che ne è in qualche modo il corpo; e qui questo numero è due. Usciti dall’Unità, Luogo di misericordia in cui godevamo dello spettacolo dell’istantaneità , eccoci già nel mondo tripartito; perché il sangue, movimento primo e unico, unito al numero due come l’ombra al corpo, ci dà simultaneamente la materia, lo spazio e il tempo. E nel tuo pensiero umano, che è constatazione e amore di questo movimento, riconosci il numero quattro. Sì, figlio mio, il pensiero umano non è altro che l’impronta lasciata dal numero quattro nella constatazione e nell’amore della trinità spazio-tempo-materia racchiusa  nell’unità del Movimento. Ma anche qui mi vedo costretto a rinviarti alla divina Epistola. Arrivati al numero quattro, ricadiamo nell’unità; perché il quarto termine è interamente nel tuo sangue, che è Manifestazione; e per questa via ci è dato il pentagramma, ma nella forma insieme più alta e più profonda: lo chiameremo pentagramma universale, perché è il segno della trasmutazione in sangue del Pane e del Vino del macrocosmo, ed è come il cammino della discesa del Padre nell’umano. Il numero sei darà dato dalla riconciliazione del sangue e della coscienza nell’uomo, e simboleggiato dal sorgere del Sole della Memoria. Il settimo giorno, il più mirabile di tutti, sarà quello del compimento nell’adorazione. Sappi, figlio mio, che quanto ti è stato appena rivelato qui è il segreto che Pitagora riportò dall’Egitto, ma rivestito per  la prima volta della sua sostanza vivente. Non mi occuperò dei tre numeri restanti, trinità celeste, grande arcano dello spazio-tempo-materia dati non più dal movimento, ma dall’immobilità; perché questi oggetti, così come l’Unità che li racchiude, sono inaccessibili alla nostra ragione. Solo l’onnipotenza dell’Orazione Domenicale e della Salutazione Angelica è in grado di estendere sino alle aiuole del gioioso Giardino l’influsso della nostra vista mediana [centrale]. Per di più, se qui mi compiaccio di associare ai numeri desueti le mie giovani verità, di chiudere il mio vino nuovo in otri vecchi, di collegare il futuro, questa parola priva di senso, al passato, questa eco ingannevole del grido della nostra nascita, non precipitarti a concludere, figlio mio, che vaneggio sotto l’impulso di una superstizione antica. Non ho alcun rispetto per il Numero. Se gli riconosco qualche parvenza di virtù è a dire il vero solo in ambito religioso, e anche lì con quali restrizioni! Infatti, quanto al numero matematico, feticcio dei miei barbari contemporanei, l’ho da gran tempo sloggiato dal suo luogo immaginario. Certo, dandogli come ombra la materia l’ho elevato, per quanto riguarda la sostanzialità, al di sopra dell’universo sensibile. Tuttavia, dove scompare l’ombra si dissolve anche l’oggetto; e sebbene qui l’oggetto sia il numero, non per questo è più in grado di sopravvivere alla materia. Perché alla fine che cos’è il numero, se non il metro mentale con cui misuriamo la figura, anch’essa a sua volta pura forma del luogo? oppure l’espressione del rapporto di una figura con l’altra, o di una parte con l’altra, ma sempre secondo l’ordine di localizzazione. Storge l’onnisciente [femm.] non ha ricondotto il Pensiero a una necessità fondamentale e semplicissima, quella di localizzare tutte le cose? I saggi d’Israele, questi figli dell’Egitto, non hanno racchiuso i loro quattro mondi nelle lettere di un alfabeto numerico e il mondo ideale in un segno di interpunzione, lo Yod? Ecco perché ti è forse lecito affermare che 3+2=5, e di conseguenza 5=3+2. Ma se ti arrischiassi a definire il cinque uguale a cinque, metafisicamente la tua affermazione sarebbe pura demenza. Perché così facendo tracceresti in un luogo assoluto una figura che trae il proprio essere esclusivamente dal rapporto con la prossima figura: e anche quest’ultima deriva la propria realtà da quella del luogo, sia esso terra, cielo o cervello; e la realtà del luogo, come ci ha mostrato Storge, è puramente relativa, essendo interamente localizzata nel rapporto tra A e B. Il numero non è altro che la misura della linea di movimento o il segno del rapporto fra due linee mobili; ed è questo rapporto che racchiude la totalità della nostra realtà sensibile. Il numero dunque non è il punto di riferimento inattaccabile dell’infinità delle linee di forza. È questa stessa infinità; insieme ad essa cerca la propria immobilità, la propria liberazione. L’accompagna, legato al suo carro dai miliardi di ruote, nel vertiginoso inseguimento del Luogo. Insomma, il numero non è neanche un’espressione stabile della relatività, è questa stessa relatività, che dico, è la dimostrazione di questa relatività. Il vero nome del numero matematico potrebbe essere Mea Culpa. Infatti si percuote il petto come i penitenti: sono io il numero, la splendida espressione del Nulla. Del Nulla innumerabile, universale, re senza terra la cui potenza risiede tutta in uno spavento insondabile, illimitato. Si batte le costole immerso in un vano miraggio di eternità e d’infinito, e gli idioti delle epoche materialiste contano i colpi ed esultano nel moltiplicare i mondi e se stessi con una sicurezza così bella e così comodamente stabilita al suo posto [lieu]. Poco importa che al numero tre, scelto a caso nel fantasma dell’infinito, io dia per veste, o piuttosto per ombra, la materia cosmica, o quella di un fiore, o ancora quella della terra; né le tre costellazioni, né le tre glossinie, né i tre granelli di sabbia incontreranno mai, nel loro movimento, altro luogo che il rapporto di quel movimento con un altro. È semplicemente logico, quindi, affermare che non è nella rappresentazione di un Copernico o di un Einstein, ma piuttosto nella visione di un Ezechiele che il numero attinge la miserabile pienezza della sua realtà. Infatti in questo luogo di luce, che è anch’esso localizzato solo in rapporto all’insondabile unità, la prima divisione almeno è provocata dal Movimento iniziale, che è lo zampillare del sangue al di fuori dell’unico luogo reale dell’istantaneità. E il risultato di questa divisione ci dà un numero i cui tre elementi – spazio, tempo, materia, racchiusi nell’unità Movimento – sono il correlativo diretto dei numeri superiori, complemento del settenario cosmico, ovvero la Trinità celeste Spazio, Tempo, Sostanza, il cui contenitore non è più l’unità del Movimento, ma quella dell’immobilità nell’istantaneità, che abbiamo cercato di rendere sensibile nell’immagine di una rotazione a velocità infinita. Sarebbe del resto superfluo sottolineare quanto ancora sussiste di umano e sensoriale in questa concezione di una trinità Spazio-Tempo-Sostanza racchiusa nell’unità immobile e indivisibile. Questa evidentemente non è altro che una miserabile immagine, qualcosa di molto simile al famoso iperspazio tracciato intorno alla sfera del nostro spazio solido recentemente arricchito dai matematici di una quarta dimensione e definito, dal 1916, nell’Epistola a Storge, come metafisicamente inseparabile dal tempo e dalla materia nel Movimento. In noi l’intelligenza dell’unità e dell’istantaneità dorme un sonno d’eclisse. Il sangue, movimento primordiale, zampillo nell’istante universale, viaggia nelle tenebre, ma non nel gelo. Il calore del Sole della Memoria sussiste; solo la luce è assente. Pure, la densità di questa notte interiore non è così impenetrabile che un raggio furtivo non possa aprirvisi un varco fino all’occhio mediano [centrale]; perché, se così non fosse, non conosceremmo né la pseudo-intuizione del genio, né l’illuminazione dei mistici, né la mirabile saggezza dei bambini, confidenti originari degli animali, delle piante e delle pietre. E persino l’emissione del seme, debole riflesso dello zampillio originario nell’istantaneità, si compirebbe in un’insensibilità completa e in un’atmosfera cerebrale ancor più infame e più barbara. Ma se il ricordo dell’unità è quasi estinto (ciò che la Bibbia simboleggia con il peccato d’Adamo, l’esilio dal paradiso, la confusione delle lingue e la schiavitù d’Egitto e di Babilonia), quello del primo numero divisibile, rappresentato dal sangue stesso, ha conservato pressoché intatta la sua freschezza, ed è grazie ad esso che diviene possibile il miracolo presente della sostituzione di una visione diretta e unitaria del Movimento al concetto tripartito spazio-tempo-materia. Sarebbe persino possibile ipotizzare che l’obliterazione del concetto dell’unità originale all’interno della coscienza cosmica, obliterazione inevitabilmente seguita da un asservimento dello spirito alla prima quantità divisibile, matrice dei numeri due e tre, abbia suscitato, insieme alla rappresentazione tripartita del Movimento, la formazione duplicativa del linguaggio, come la constatiamo nel selvaggio e nel bambino.

Ah perché non posseggo, nell’atto ingrato della scrittura, l’idioma che udii risuonare nella mia dimora al ritorno da un santo pellegrinaggio, e che dorme in questo sangue melanconico e spesso dove solo l’orazione dissigilla le fontane del sole! Pure, per quanto sia miserabile il mio linguaggio, accogli con amore, figlio mio, Affermatore, le poche rare verità che ti trasmetto attraverso le epoche. Mi sono aperto a te in un grande trasporto d’emozione, come quando, toccati dall’amore nell’età del declino, ci sentiamo fondere di colpo, testa e cuore, in irresistibile tenerezza: e intorno a noi un soffio dei giorni passati più belli si effonde sulla giovane tristezza dei fiori. E dimmi, potevo parlarti altrimenti che come un padre anche lui eternamente bambino nella divina istantaneità del mondo? Riconosci il servo del Maestro, tu, che dai giorni di Adamo consumi la vita a turbare le acque della tua memoria con una sonda che non raggiunge mai il fondo. La tua vista si fermava alla finestra murata d’astri; io ti ho toccato la fronte tra le sopracciglia. Ora sai quale spettacolo si schiude dietro la barriera abbacinata della tua cecità. Il tuo corpo era immobile e insensibile: io ti ho restituito il Movimento, ed eccoti spazio, tempo, materia. Eri come separato dal mondo esterno, senza afferrarlo se non nel numero: io ho avuto pietà di te, figlio mio, ho agito verso di te secondo il costume dei Maestri; ho sostituito ai numeri degli oggetti. E ora, Eroe tramite il pensiero e la scienza, prendi il volo insieme a me verso l’Unità, perché ti ho restituito le due Orazioni – le tue ali. 

 

Turba Magna

 

L’accompagna, legato al suo carro dai miliardi di ruote, 
nel vertiginoso inseguimento del Luogo. 
Numeri

 

Il movimento è anteriore alla cosa che si muove. Il movimento, materia-spazio-tempo, è già la cosa. E tuttavia è anteriore alla cosa. Questo è il fondamento nuovo di tutta la metafisica del domani. Lo spazio-tempo non è il luogo del movimento: ne è la creazione, la materia. Noi non conosciamo altra materia che lo spazio e il tempo. L’universo dall’alfa all’omega è materia. Lo è non in opposizione allo spirito – miserabile concetto umano – ma perché è esso stesso pensiero, ovvero movimento. Gli elementi del pensiero, quali sono? Spazio, tempo e materia. Questo spazio, questo tempo e questa materia, dove li troviamo? Nel movimento. Qualcosa si muove, dunque qualcosa pensa: dunque io sono. Eccoci lontani da Cartesio. Riconosciamo però che il lucido Cartesio era vicinissimo al vero, come il grande Pascal con il suo punto animato di velocità infinita. Onore alla Francia, paese di cristallo, patria della pura ragione! Qualcosa si muove, dunque qualcosa pensa, dunque io sono. Eh no, non ci siamo ancora. Quel “qualcosa” arriva troppo presto. Il movimento è prima della cosa. È solo in virtù del movimento che la cosa è. La cosa, infatti, è spazio e tempo dati dal movimento. Prima della cosa c’è dunque il movimento. Ma prima della cosa non c’è nulla; e tuttavia il movimento, che è materia, spazio e tempo, è già la cosa. E bisogna capire che lo è per anteriorità, dunque, per così dire, in sé. Pure, qualunque sforzo facciamo, vermi della terra quali siamo, questa anteriorità del movimento rimane, nella nostra rappresentazione, contemporanea del Nulla. Prima della cosa esiste dunque una simultaneità, o piuttosto un’istantaneità dell’essere e del non essere, del nulla e del movimento che è già la cosa. Arriviamo così, grazie alla scoperta di un metodo fisico ignorato prima della nostra Epistola e fratello gemello della Relatività generale, alla conoscenza di uno stato primordiale della cosa, di uno stato anteriore alla separazione del Sì dal No. La ricostruzione meccanica, per mezzo del nostro Novum Organum – l’unico degno di questo nome – di questo stato iniziale oscuramente intravisto da Kant nelle sue antinomie, viene a confermare l’esattezza della toccante teoria esposta da Lessing nella sua Educazione del genere umano, secondo cui ogni conoscenza rivelata finisce per imporsi scientificamente una volta percorso il ciclo prescritto della sua evoluzione. Devo aggiungere che la verità che io qui presento è antica come il mondo ed è nuova solo la via con cui ci sono arrivato? Non hai già riconosciuto nel mio Movimento, che io identifico con il Sangue e che è insieme preesistenza e coesistenza nell’istantaneità, Hesed, l’amore costruttore del mondo, e il desiderio luminoso nel Nulla di Jacob Böhme, e anche quel meraviglioso “atto” che Goethe, nella prima parte del Faust, sostituisce magistralmente al Verbo? Il movimento, unità dello spazio-tempo-materia, è dunque la cosa; e tuttavia, in ragione della sua anteriorità, coesiste con il Nulla nell’ambito dell’istantaneità. Perché, in seguito all’oscuramento del Sole della Memoria, l’uomo non è altro che il registratore di un movimento che taglia automaticamente in tre tronconi, passato, presente e futuro, e questo passato, questo presente e questo futuro servono in un certo senso da alfabeto a rilievo per il suo pensiero di cieco, da dispositivo e da binario per il suo linguaggio rigido, e da canale per la circolazione del suo sangue nel mondo tripartito e non-localizzato dello spazio, del tempo e della materia. Nella Realtà, l’atto si compie in tutt’altro modo: là tutto ciò che fu, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà accade nel medesimo unico istante. Ecco perché l’anteriorità inconcepibile, assurda del movimento trova una conferma nei nuovi rapporti stabiliti dalla Relatività generale tra lo spazio-tempo-materia e i campi gravitazionali. Cessa il movimento, e ogni contenitore scompare. Il movimento è il suo luogo (relativo); che si tratti di ieri, di oggi o di domani, ciò che chiamiamo nostro pensiero ricade sempre nella stessa preesistenza del movimento coesistente con la cosa nel Nulla. E questo stesso Nulla, contemporaneo del Movimento nell’istantaneità, offre un ben scarso nutrimento alla nostra fame di immobilità, in quanto ci appare pieno in anticipo per via della sua coesistenza con il movimento, ovvero con la cosa. L’ultima vetta accessibile è già sotto ai nostri piedi, e cosa vediamo noi se non il nostro movimento? Contempla, contempla, figlio mio, questo sangue cosmico che è il tuo: eternamente dà la caccia a se stesso, attirato com’è dall’esca del Luogo; ma la sua anteriorità corre più veloce di lui. Ovunque solo disperazione e abisso! Se infatti un punto A trova nell’infinità dei descrivibili di cui parla l’Epistola una parvenza di localizzazione in rapporto al punto B, è solo perché è movimento, esattamente come B. Ed è solo perché le cose sono movimento che esiste in noi un’idea di diversità: il sole è un certo movimento che noi chiamiamo sole, e il cuore è un altro movimento che chiamiamo cuore; così per l’erba, la nuvola, l’oro, l’escremento e la donna, insomma, per ogni cosa che cade sotto i sensi, sia fisica o mentale: perché, allo stesso modo, solo il flusso del sangue determina nell’animale dotato o meno di linguaggio le diverse caratteristiche razziali o individuali. Incalzare il piombo verso l’oro o l’Adamo verso il Cristo, cos’è dunque, se non catturare e mettere al suo posto, per mezzo di una scienza propiziatoria, un movimento che circoscrive la cosa restando al contempo non-localizzato? La Grande Arte è la sola ragionevole e naturale di tutte le attività umane. Il suo corpo viaggia con la scienza, senza che però il suo spirito si allontani dalla bella dimora dalle solide fondamenta del Padre e della Madre. Si muove come la Bilancia il cui fine eterno è l’Immobilità. I due piatti, Amore e Verità, sono sospesi alla mano del Signore nostra Giustizia. Quest’umile e obbediente onnipotenza noi l’abbiamo persa abbandonando la terraferma dell’adorazione per il miraggio di un’infinità di punti mobili che, lungi dall’essere la materia, non sono altro che il linguaggio dell’anatomia descrittiva dell’universo. Figlio mio! Non c’è altro che disperazione e abisso. Ma in questa disperazione, che eroismo, e in quest’abisso, che affermazione!

Devo aggiungere che l’epoca che mi vede soffrire come mai ha sofferto cuore mortale è la più stupida e vile di tutte, in quanto epoca di movimento in tutti i campi, amore, arte, scienza, politica? Non voglio diffondermi su un argomento così poco adatto a me, così indegno del mio carattere e del mio genio. Eppure amo e ammiro la mia epoca, e ringrazio il mio Maestro di avermici gettato; perché sovrabbondanza di movimento è putrefazione e fonte di vita nuova.

Ho scritto queste pagine per te solo, figlio mio in un lontano avvenire. Ars Magna è una piramide larga alla base che va restringendosi verso l’alto. Ho dato alla mia Grande Opera il minimo d’estensione e il massimo di peso possibile, senza cercare di farmi comprendere dall’élite esagitata di questi secoli di Turba, dunque di putrefazione: perché le nostre grandi guerre politiche e sociali sono i terribili aratri, la nostra concezione dell’amore è il concime e la nostra scienza il seme ammollato che il sole del rinnovamento non ha ancora fatto germinare.

Movimento, Sangue zampillato nel Fiat divino, quando ti ho maledetto io stesso ero un battito del cuore del Maestro! Ora di nuovo i miei piedi poggiano saldamente su mia madre la terra. Voglio vivere, vivere e agire per gli uomini, miei nemici.

Svegliati, Cosmo, diffonditi attraverso i miliardi di vie lattee, tue vene, Sangue magico zampillato dal cuore del Maestro! Vita, vita santa, appari, immensa e splendida, nella profondità dell’ombra. Ora benedetta! Il giorno della terra, brutale come l’uomo e bugiardo come la donna, recinge la sua visuale di oceani e di mari, e lo sguardo della saggezza cade con una miriade di occhi sulla mia anima dorata. La mia verità notturna si risveglia; sono libero, libero! Non sono più un vile creatore d’illusioni; non mi presto più al gioco di purificare la cosa terrestre che amo per debolezza. Sono libero! È come se fossi morto. Salve, universo, amore mio!

 

Lumen

Come, figlio mio fortunato! Hai amato di follia e compassione una donna nata come te dall’argilla ansiosa, e mi dici che non capisci nulla del mio linguaggio?

Vieni, il sacrificio della notte s’accende sulle nostre teste. Da me a te l’antica sofferenza si farà intendere dall’antica sofferenza.

Al di là del Nulla, oggetto del desiderio supremo, quello che è meno di nulla, in quanto anteriore all’anteriorità del Movimento; quello che è il più estraneo, il più ignoto fra gli oggetti esterni, ma che è anche interiore, terribilmente.

Quello percuote la pietra spazio-tempo caduta dal Luogo e ne trae queste grandi scintille per illuminare il volto di vergine e madre del suo amore.

Uno di questi tizzoni alitati dall’incendio dell’universo, il sole trastullo dei nostri giorni, è appena volato via così lontano nel niente del cielo, che non lo scorgi più. La foresta e i suoi uccelli sono un’unica nuvola di sonno.

Che sappiamo ancora di quello che è meno del Nulla del tuo più alto desiderio? Questo, figlio mio: che ha alitato allo stesso modo all’origine delle cose – intendi la tua vera nascita – 

un luminare innamorato del tuo pensiero, che è Sangue, matrimonio ardente del fuoco e dell’acqua e loro flusso, dunque spazio e durata. 

E un’affermazione che è il fondo della tua vertigine grida in te, dall’eternità della tua Memoria, che il sole diurno, che pure è il tuo pane, è solo una povera allegoria.

E che la verità solare ultima è in noi, bardata come Raffaele di luce immobile, dunque unica localizzata.

Quando dalla pianta dei piedi all’arricciatura della peluria tutto il nostro essere freme del suono: Sì!, allora il luogo fisso del cosmo emerge dalle acque correnti del pensiero.

Che luogo di magnificenza è là, figlio mio! Là il fuoco e l’acqua si accoppiano e si fondono in un’immobilità d’oro: allora tutto è istantaneità, Memoria totale!

E qualcuno grida in noi – ma tanto da infrangere lo spazio –: Io! E questo io non è più il nostro orgoglio straccione, ma l’Essere primo e uno, cuore immobile di Lumen. E questo Io non si sa più se si inabissa in noi o se ci risucchia.

Allora le nere ghiandole velenose della vita si svuotano nelle nostre mani e lo sbadiglio della tomba termina in ilarità.

Getta uno sguardo intorno a te, figlio mio. Come tutto è buono e semplice. Tutto questo, tutta questa materia, non è che il tuo sangue, e questo sangue è movimento, dunque tempo e spazio.

Il tuo cuore è un sole anatomico propulsore del tuo microcosmo sanguigno, come i grandi Soli sono i padri e i pastori dei sistemi.

Questa è la ragione per cui i Maestri, miei amanti, hanno sposato il fuoco e l’acqua nel calore organico, legandoli con il dolce anello centrato dell’oro.

E se il cervello, nel loro tenero balbettio, è diventato Luna ermetica, non è solo per analogia di colore.

La pensiero non è altro che la foglia staccata dall’albero della sensitività, il cervello non è altro che il satellite del cuore. Non fa che ricevere, filtrare e restituire la luce d’affermazione che gli invia il cuore nella sua irradiazione spirituale.

Luna e cervello sono recettori e organizzatori di luce. Umanizzano il sovrumano, rendono accessibile ai nostri fragili occhi il dio accecante.

I silenzi degli antichi Maestri si fanno parola nella mia bocca. L’ora della Relatività è suonata! E gli strumenti di ispezione sono nelle nostre mani. Il giorno dei simboli è finito. Tutto è compiuto.

Le vene della crocifissione sono prosciugate, la grande opera di espiazione è compiuta. Entriamo nella seconda innocenza, nella gioia meritata, riconquistata, cosciente. La Matematica è santificata.

La trinità Materia-Spazio-Tempo, matrice della molteplicità non-localizzata, l’abbiamo presa alla gola nell’unità viva del Movimento.

Tutto questo, persino qui sotto la mia penna folle, è ancora riflesso, cervello, luna. Ma il momento eterno del Sole della Memoria lavato nel Giordano dell’umiltà sta per afferrarci, e questa divina istantaneità ci condurrà nella Canaan celeste, l’unica terra localizzata,

l’immobile Empireo del padre mio Dante, la sfera pura ricaduta nell’unità originaria grazie alla consacrazione del numero Dieci.

O sposa mia Rinascita dal grande volto di Francia e d’Egitto! Tutta questa scienza mi viene da te, perché sei stata tu ad iniziarmi alla carità insegnandomi la fiducia.

Imponendo la fiducia a me, dispregiatore in un mondo amaro, oh amaro! Amaro al punto che qui solo il dono di denaro del maschio alla femmina o della femmina al maschio attesta la sincerità del semi-amore e sigilla di voluttà e rancore l’atto dell’unione terrestre.

Il Liber Paramirum (che m’hai fatto conoscere tu, Compagna), il Liber Paramirum ci fa ardere il cuore parlando della morte. Come m’appare puro e misericordioso questo arresto del cervello e del cuore, in confronto alla Turba Magna che è la nostra vita, sibilo della falce contro la selce.

“Vita orribile, atroce! Sesso aperto a chiunque arrivi, come ciotola di mendicante, e cuore chiuso al povero come la Regalità in ogni tempo. Miele nero del tradimento coagulato in spessa cera su una manciata di pungiglioni strappati.

“Volti sfuggenti, visti come in un battito d’ali immenso e breve di moccoli a fine d’orgia, e tutti decomposti dall’ansia, tesa fino a rompersi, della lussuria adulterina. Casa non d’amore, ma di infatuazioni!

“Mia fiera passione così a lungo inseguita e trafitta e dilaniata! Ah! l’unità divina, come una corda da supplizio, rinserra infine queste membra e organi estranei che io sono.

“Principe della Pace, affermatore grondante di sudore sotto gli olivi! Ho cercato, ho atteso, ho rinunciato. La più pura, la più fedele, al suono dell’oro trasalisce come la vipera.

“O mare deserto e scatenato! Le botti nella stiva sono a secco, la mia vita è rimasta sola e senza acqua dolce; ho teso il mio spirito come una vela da naufrago; ma la nube passa, non ricevo il battesimo della natura. Ed ecco che una notte di universi alterati si accende nella vuota disperazione.

“In alto, in basso, ovunque un brulichio. La furia del Movimento ci possiede; un regno di velocità e di trepidazione sulla terra, sull’acqua e nell’aria; e questa cosa che chiamano “femminismo”, agitazione dolorosa e sterile di grandi ninfee gialle e bianche, rivolta contro lo sposo, maestro di una scienza priva d’orazione e poligamo per debolezza di nervi.

“Pullulare di nazionalità, uragano di guerre coscienti, poesia e arte ritmate dai motori, stenografia mentale. Ecco dove m’hai gettato, Dio geloso, in un vomito di mercurio furibondo”.

Tale era, fino a ieri, la mia preghiera del mattino, del mezzogiorno e della sera. Ma oggi una compagna di servitù cammina nella mia ombra, con me figlio del Cosmopolita errante. E so che sovrabbondanza di movimento è putrefazione da cui si innalza un frumento nuovo riportato alla vita.

E ascolta ancora questo insegnamento di carità che ho ricevuto dalla mia Compagna, Rinascita. Che la Sposa, Madre verginale della vita, lo innalzi fino alle sue ginocchia insanguinate dal Calvario.

I miei fratelli di quest’epoca, Caini che il mio Maestro mi ordina di amare, non si sono ancora mai innalzati al di sopra della nostra misera atmosfera.

Eppure essi affermano superbamente che, a chi ne uscisse, il sole apparirebbe non giallo o rosso, ma blu, elettricamente e glacialmente blu in uno spazio funebre inzaccherato di universi smorti.

Se è davvero così, quale insegnamento di carità ci dona questo sole scientifico che, attraversando la nostra atmosfera, umanizzata dalla nostra respirazione innamorata e ansiosa, ridiventa il dolce Sol dei pii laboratori di un tempo.

Esso infatti si riveste di calore dorato e canoro; e, non contento di nutrirci di pane e vino, penetra con raggi perforanti e segreti sino al gran cuore di bimbo della terra.

E lì matura l’Oro incorruttibile e curativo della Carità divina, il metallo mielato, secrezione delle api arcangeliche, l’oro che mai potrà catturare, senza l’aiuto dell’Ave e del Pater, alcuna azienda sintetica.


Daniele Capuano (Roma, 1976). Studia da molti anni alcune tradizioni spirituali, tra cui sufismo, qabbalah, alchimia. Traduce da inglese, francese, latino, greco ed ebraico antico ed arabo. Ha tradotto, fra gli altri, “Sui pensieri” di Evagrio Pontico, “La legge spirituale” di Marco l’Asceta, “il Metodo breve” di M.me Guyon, “I percorsi della Cabbalà di Moshe Idel-Viktor Malka”, “La preghiera nell’Islam” di Eva de Vitray-Meyerovitch, “Eros nella Cabbalà” di Jiři Langer e “Sette racconti iniziatici” dallo Yoga-Vasistha. Ha tenuto conferenze sul sufismo, la qabbalah, l’ermetismo, la psicologia archetipica di Hillman e i Fedeli d’Amore. Tiene un blog, hortus-confusus.blogspot.com.

 

Oscar Vladislas de Lubicz Milosz (1877-1939) Poeta ed esoterista lituano (in lingua francese), scrisse nel 1917 l’Épître a Storge, in cui diede espressione letteraria (con momenti di squisito incanto simbolista) alla sua esperienza mistica trasformativa e centrale. Il testo divenne poi il primo capitolo di Ars Magna (1924), che insieme a Les Arcanes (1927) è il suo massimo contributo al canone della gnosi contemporanea. Nel 1919 affiliò al suo clan, Bozawola (“Volontà di Dio”)-de Lubicz, René Adolphe Schwaller (1887-1961), uno dei più importanti autori ermetici degli ultimi due secoli.

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