Durante questo agosto de L’indiscreto, interamente dedicato ai racconti brevi e curato dallo scrittore Vanni Santoni, siamo oggi arrivati a quello firmato da Diletta Crudeli.
IN COPERTINA un’opera di anastasia zimina
di Diletta Crudeli
(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)
Quando l’aveva baciata per la terza volta aveva ripensato dopo anni al corno nel campo di mais.
La sera del terzo bacio erano al cinema all’aperto, sulla pelle esposta restava impressa l’impronta dell’erba secca del prato su cui avevano montato lo schermo. Il film era una pellicola degli anni Novanta e lui era genuinamente interessato, anche se lei sembrava più predisposta a far coincidere altre zone esposte dei loro corpi, intrecciare le dita e, dopo il primo tempo, dargli quel bacio che sapeva di dolcezza, quasi di plastica. Proprio allora era tornato il corno.
Era giallo, sbeccato, era una falce lunare emersa nel verde. Era apparso come evocato nel mezzo al campo di mais, tra le fronde che odoravano d’estate, l’odore più sincero e giusto dell’estate. E quando era emerso il corno aveva fatto vibrare l’aria intorno e all’apparizione era succeduto un suono che avrebbe saputo definire per anni soltanto come un rumore croccante. Qualcosa che si incrina ma in modo piacevole, qualcosa che taglia a metà una superficie con grazia ed eleganza.
Ripensò a quel corno nel campo di mais, che aveva visto quando aveva sette anni in estate, mentre la baciava e allora ne aveva diciassette e il secondo tempo del film avvenne come avvengono quei dormiveglia spauriti in cui ci si lascia immergere all’alba. Fu un fine serata pastoso, avvolto in una notte calda e ingenua. Quando arrivò a casa non la baciò di nuovo e quando sua madre lo rimproverò, era tardi lui era in bici e le strade erano trafficate dai turisti in motorino, nemmeno la sentì. Avrebbe dovuto sentirsi imbarazzato, euforico per il suo terzo bacio, avrebbe dovuto sentirsi eccitato.
Si fece una doccia fredda, si infilò sotto le lenzuola leggere con indosso soltanto le mutande. Fuori dalla finestra un uccello notturno lanciava piccole grida a un ritmo ben cadenzato. Per un attimo sentì una voce ben distinta e temette che fosse quella civetta ad aver preso parola. Ma era sua madre che dall’altro lato della porta gli augurava buonanotte.
Passarono un paio d’ore, di grida rapaci, di sudore che impregnava la federa del cuscino, di motorini che effettivamente superavano la velocità prevista nella stradina minuscola di fronte casa sua, la stradina che dai campi portava al litorale e ai locali sulla spiaggia, locali polverosi che quell’anno prestavano particolare attenzione a non servire alcolici ai minorenni. Poi decise di alzarsi.
Là fuori, oltre la sua finestra spalancata per far entrare la frescura, oltre la strada, c’era il campo di mais. Se ne stava quieto, quasi addolorato, nel fragore estivo. La luna era al primo quarto e lo illuminava appena ma il verde era comunque comodo agli occhi. Il campo di mais era solo sotto le urla degli uccelli, solo sotto i suoi occhi di ragazzo. Nessun corno comparve tra le fronde. Stesse a fissare per qualche minuto la macchia scura che lentamente si addensò dietro le sue iridi, poi tornò a letto.
Sognò baci infiniti con la sua ragazza, con altre ragazze ancora, sognò un uccello fatto di cristallo che sbatteva contro la finestra. Sognò che l’erba era fatta di vetro e che lui aveva una spina di rosa ficcata nel palmo della mano.
Quando si svegliò il mattino dopo credette che anche l’aver visto il corno nel campo di mais di fronte casa fosse stato un sogno, un sogno di una notte vecchia e antica, che era riemersa dal passato. Ma quello era avvenuto davvero dieci anni prima e sembrava che nessun sogno estivo e accaldato fosse in grado di reclamare quella finzione.
Il film che davano il mercoledì successivo era un film drammatico che lei non volle vedere, quindi ripiegarono in un bar dove i turisti si mescolavano alle persone del luogo, dove un suo compagno di classe che lavorava lì nel periodo estivo gli strizzò l’occhio e quando servì loro i tè freddi a lei fece un inchino, le labbra piegate in un sorriso a due punte.
Il tè era troppo dolce ma lui lo bevve, come bevve dell’acqua salata quando fuggirono sulla spiaggia per un bagno notturno, bevve il bacio che si scambiarono sul portico di casa sua. Bevve molto altro quella sera, perché aveva l’impressione che le parole di lei annegassero dentro la sua testa, aveva il sentore che quello che gli stava succedendo, quella ragazza che gli rubava la cannuccia dal tè freddo, che si svestiva di fronte a lui sulla sabbia ancora calda, che fissava i fiori che sua madre aveva piantato nelle aiuole dicendo che erano rosa come l’alba, forse quello era l’amore. Le voci e le storie e gli insegnamenti dicevano che l’amore adolescenziale, lui rientrava nella categoria, era come fuoco, era come vento, era qualcosa di repentino, egoistico, sconsiderato.
Ma lui sentiva che quello che succedeva in quelle settimane di luglio aveva radici, era profondo come un crepaccio nell’oceano. Era così sereno che finiva per stare male, perché non era normale essere così tranquilli. E lei lo fissava con i suoi occhi liquidi, verdi come gli aghi di pino, e sembrava che pensasse lo stesso e ciò lo tranquillizzava ancora di più. Dietro quello sguardo fisso, considerava lui infine, di nuovo nella sua camera affacciata sul campo di mais, non poteva esserci inganno. Lei non sbatteva le palpebre, governava il suo cuore e i suoi gesti e quando gli metteva una mano dietro la nuca per baciarlo e lui capiva che se fosse scoppiato il diluvio universale loro sarebbero sopravvissuti, se una notte eterna avesse avvolto il mondo loro ci avrebbero visto comunque. Erano sincronizzati su un piano dell’esistenza apparentemente gracile ma in realtà solido come un’impalcatura di ferro. Potevano bere tè freddo e mangiare gelati, sua madre poteva prenderlo in giro quando prima di uscire sospirava, tutti potevano fingere che quella fosse un’estate come un’altra ma lui sentiva nelle ossa, nel midollo, lo sentiva nello spazio tra le dita, che c’era qualcosa di magnetico in atto, una forza travolgente che sonnecchiava in attesa di prendere possesso di tutti i suoi desideri e avverarli. Se quello era l’amore adolescenziale allora ne voleva ancora, ne voleva di più.
Si svegliò credendo che fosse l’alba ma in realtà la notte fonda e inchiostrata sostava ancora fuori dalla finestra. Nessun grido di civetta o motorino lanciato verso il litorale ad avvisarlo dell’errore, ma il buio pressante che gli avvolse lo sguardo non appena mise a fuoco la sua stanza.
Si accorse che una delle prese vicino al comodino sfrigolava, era quella che l’aveva svegliato. L’orrore lo agguantò subito al collo, i peli si rizzarono sulle braccia. Non gli piacevano i rumori notturni e se ci pensava con estrema attenzione capiva che era proprio la notte che non gli piaceva.
Diede un’occhiata alla presa e si appuntò mentalmente di dirlo a sua madre che l’avrebbe detto al vicino. Non toccare la presa, si appuntò anche, non collegare il paralume. Ma tanto la notte era quasi finita e il giorno dopo avrebbe passato il pomeriggio al mare. Ma tanto, comprese con uno slancio simile a quello con cui capiva quando doveva accelerare in bicicletta, non stava lì il problema. Il problema era fuori, nel campo di mais che sotto il cielo stellato crepitava, si stiracchiava mosso da una brezza fasulla, impossibile.
Si affacciò alla finestra. Agiva con voglia sincera di farlo ma il suo cuore, il suo cuore era come se stesse venendo sbranato, come se avesse deciso di spostarsi e aggrapparsi dietro la schiena, per convincerlo di tornare a letto e dormire e basta. Forse, rifletté, aveva infilato due dita nella presa guasta, forse lo avevano travolto i motorini mentre tornava a casa nella stradina senza lampioni e la sua bici era accartocciata vicino alle sue gambe abbandonate sull’asfalto. Forse, rifletté, si era addormentato perché avevano fatto l’amore e lui era stanco e la stanchezza estiva lo aveva colpito sul petto con una manata e quello era un sogno.
Ma il corno che si ritagliò di colpo in mezzo al mais era vero, era solido. Era un corno ritorno come quello di un ariete, un corno arricciato e giallognolo. Solo che quell’ariete doveva essere grande il doppio, il triplo, il quadruplo e tuttavia essere in grado di starsene acquattato in mezzo alle fronde. Doveva essere invisibile, oppure, impossibile.
La parola gli squarciò la vista. Impossibile era possibile perché il corno si muoveva in mezzo al verde petrolio della notte, si scrollò come a voler scuotere la rugiada crepuscolare dalle crepe che lo infestavano, e gli arrivò distintamente il profumo delle pannocchie non ancora mature, l’odore della terra sabbiosa e quel rumore, il rumore croccante e al tempo stesso pulito dell’apparizione che dieci anni prima, quando era solo un bambino, lo aveva sorpreso per la prima volte durante un risveglio notturno.
Era il solito rumore, il solito odore, il solito corno. La solita paura ipnotizzante che lo schiacciava alla finestra, che massacrava la sua testa di immagini di belve, bestie, di terremoti che lasciano sgusciare fuori dalle cave innominabili creature, di notti che trasportavano animali catapultandoli giù dallo spazio siderale. Gli si freddarono le mani, i piedi, gli si arricciarono le dita e lo stomaco fece una capriola. Il corno se ne stava adesso immobile, sbucava come una lama da un sipario e si mostrava a lui, solo a lui, di là dalla strada, nel campo di mais.
Il corpo freddo e lo stomaco rovesciato non erano niente in confronto al cuore che continuava a spronarlo di togliersi da lì, e così fece. Come si allontanò da un passo dalla finestra anche il corno sgusciò di nuovo nel folto del verse, come se qualcuno l’avesse strattonato, scomparve come acqua tirata giù da uno scarico.
Crollò sul letto tremante, la presa sfrigolava ancora. Si addormentò, credette, senza respirare.
Aveva appuntamento da lei, perché i suoi genitori non c’erano. Avevano un banco di prodotti artigianali e per due sere sarebbero stati in un paesino vicino per una fiera.
La casa odorava di pasta fresca, di candele ala vaniglia e di prodotti per il pavimento. Lui non era mai stato all’interno, ma sapeva che quelli erano gli odori che dovevano esserci, quello l’aspetto che doveva avere. Una villetta dagli interni chiari, colori pannosi, avvolgenti, un divano blu scuro, una cucina ordinatissima.
Salirono in camera di lei con passi lenti, così lenti che quasi gli parve di essere su quelle giostre che i gradini vanno in senso contrario. Sulla soglia di camera lei gli prese l’indice nella mano fresca. Lei era sempre fresca, anche quando fuori facevano trenta gradi. Il senso di attesa creato da quel gesto lo sconvolse. Era agitato per quella serata, era agitato da quando il suo stomaco e il suo corpo non si erano più allineati dopo la visione del corno. Aveva le vertigini, un senso di disequilibrio che partiva dalla punta delle ciglia e finiva sotto le piante dei piedi.
Quando arrivarono in camera presero a baciarsi subito, come se fosse assolutamente necessario stare lì a farlo. Era quello, però, l’amore. Di nuovo lei lo guidava come se fosse la cosa da fare, come se sapesse manovrarlo da sempre, come se conoscesse regole assolute che a lui erano sempre rimaste nascoste.
Tenersi per mano, intrecciare le dita, poggiare la mano su un fianco, mettere la mano di fronte al suo petto per frenarlo mentre attraversavano la strada, camminargli sempre dallo stesso lato sui marciapiedi, avere tre tipi di sorriso tra i quali uno è dolce ma anche duro come un candito all’arancia. Regole, movimenti e meccanismi che lei gli metteva di fronte. Lui stava bene e capiva che sì, quello era l’amore. Soffice e color panna ma anche rosa scuro come doveva essere il palato di lei, che saggiava con la lingua.
Poi vide l’altare. Era sulla scrivania vicino alla finestra. Tre candele accese e un mazzo di fiori. La parola gli salì alle labbra d’istinto e quindi le chiese perché aveva un altare in camera da letto.
Non era un altare, era un’offerta. Quando le chiese per cosa, per chi, lei sorrise, il suo tipo di sorriso più ingenuo, quello con cui l’aveva conosciuta al corso che frequentavano doposcuola.
Un’offerta all’estate, gli disse, per essere innamorati per sempre.
Quindi colse i fiori che sua madre aveva piantato in giardino. Li colse quella sera stessa, i primi strappandoli con cura dal gambo, ma via via eradicandoli. Era ancora accaldato, confuso, commosso. Fece un mazzo di fiori sporchi, impolverati di terra, che trascinò nella sua camera con furia, in modo sgarbato. Li pose di fronte alla finestra, sul davanzale. Innamorati per sempre, rifletté, non era male. Ma innamorati per sempre e per sempre d’estate? Ci aveva pensato per tutta la sera, sul letto, dopo in cucina di fronte al frigo a bere di nuovo tè freddo, mentre tornava in bicicletta e mentre aveva divelto i fiori.
Il loro amore era estivo, era ruvido d’abbronzatura. Estate eterna, amore eterno.
La presa sfrigolava di nuovo. Sgranò gli occhi e pensò che forse sarebbe tornato il corno. Era un sintomo, un presagio. Ma non apparve niente nel campo di mais e lui continuava a tastare i fiori, ad accarezzare quelle gerbere lunghe che adesso giacevano sotto il cielo stellato.
Capì che non avrebbe dormito perché il suo corpo pareva aver eliminato le intuizioni sul sonno, sulla stanchezza. Era pieno di energia, pieno di furia. Elettrico come la presa che schioccava nel muro, passò la notte ad alternare lo sguardo al cielo stellato, alle gerbere e al campo di mais. L’estate ribolliva e al tempo stesso, capiva, andava esaurendosi. Ma avevano fatto una promessa e il cielo, le gerbere, il campo di mais gli erano testimoni: quello era amore e avrebbe amato per sempre.
Sua madre si infuriò per i fiori e gli gridò che era uno stupido. Non gli disse semplicemente che era stupido, gli disse che non si aspettava da parte sua gesti da ragazzino.
Ma non lo era? Era giovane e i suoi muscoli erano fibre, erano svelti mentre pedalava verso il mare. Sua madre alle sue spalle, le onde spumose di fronte. E poi di nuovo il pomeriggio che sapeva di sale e le vertigini continue, che non abbandonavano il suo corpo. Era ubriaco, era stravolto. Vedeva lei sulla spiaggia, solo lei e ancora lei come ogni pomeriggio color ocra, percepiva il sapore della frutta fresca e nelle orecchie risuonava lo sfrigolio della presa in camera sua, e l’odore della terra umida dei fiori sradicati nel naso, e il corno il corno che apparve tra le onde. Si innalzò come un pesce, repentino, sfumò via nell’acqua e lui gridò dalla riva e dei turisti si voltarono, più gente si avvicinò mentre lui continuava a gridare, un urlo secco da bambino.
Che era successo? Cosa doveva dire a chi gli chiedeva cosa gli era preso? Riusciva solo a balbettare, riusciva solo a sgranare gli occhi perché altrimenti avrebbe dovuto tuffarsi per vedere giù, sotto l’acqua, doveva mettere a fuoco il mare. Lei gli prese la mano e gli disse che quel giorno era troppo caldo, avrebbero fatto bene ad andare da lei, casa sua era ancora vuota.
Ma mentre pedalava lo vedeva il corno, lo vedeva come ombra sull’asfalto, lo vedeva nei raggi delle bici che lo sorpassavano. Era un organismo molliccio adesso, che si ingigantiva e sfiatava via come un palloncino mezzo sgonfio. Il pomeriggio scivolò ripido, divenne sera e quando la salutò di fronte casa sua l’ultimo sguardo lo scoccò non al viso di lei ma alla penombra che arrivava dalla cameretta, dove le candele bruciavano al ritmo del caldo, al ritmo dell’attesa.
Non appena percepì lo sfrigolio capì che quella sera sarebbe comparso. L’aveva cercato tutto il giorno, se non fosse comparso sarebbe stato maleducato da parte sua. L’aveva tormentato al mare, per strada, nei secondi tra un bacio e l’altro. E adesso, sarebbe rimasto nascosto nel mezzo alle fronde, proprio quando accettava di vederlo?
E lo vide. Il corno era nel campo di mais e questa volta lo vide giungere con lentezza. Non fu un’apparizione, ma un vero e proprio arrivo. Giallo, crostoso, il rumore di pietra frantumata.
E qualcosa si sbriciolò tra le sue dita. I fiori, sul davanzale erano già esausti. Li strinse mentre si accorse che il mais si muoveva, si capovolgeva dall’altra parte della strada. La vertigine adesso non era vertigine era ordine perché tutto era a testa in giù, tutto aveva perso rotta. E chiuse gli occhi lo stesso perché comunque aveva paura. Ma anche a occhi chiusi lo sentì emergere, la sentì emergere. Dal mais, non solo il corno ma anche il resto del corpo della creatura, che stravolgeva l’ordine della gravità. I fiori sfuggirono dalle sue mani, finirono chissà dove, giù dalla finestra sul prato o forse salirono verso il cielo. Lo stomaco non faceva capriole adesso ma mordeva, e la testa pulsava. Sapeva che avrebbe dovuto aprire gli occhi, ma dio, non voleva farlo prima del dovuto.
Ma fu l’altro occhio ad aprirsi per primo su di lui. Così, quando tornò a vedere, si accorse che ciò che stava adesso fuori dalla finestra non era una semplice creatura, non era qualcosa che si allungava fino al campo di mais. Era un occhio morbido, immenso, verde e limpido che occupava tutta l’apertura. Si intravedeva a malapena una fronte e sulla fronte il corno, la cheratina che odorava di terra bruciata. Doveva allontanarsi, voleva che si allontanasse perché voleva vederla nella sua interezza.
Voleva vedere, voleva toccare e quindi posò il palmo sulla palpebra quando si abbassò di scatto e la pelle della creatura era ruvida, verde. Pensò a un coccodrillo ma poi comprese che i coccodrilli non avevano corna. Ma non erano neanche così grandi e non c’erano, in realtà, animali così grandi.
Era bella, era magnifica quella bestia e il rumore adesso, quel rumore croccante era il solito che aveva sentito da bambino ed era di nuovo bambino, ma adesso sapeva anche amare, sapeva come si amava e come si muovevano le mani, la bocca.
Capì in quel momento che entrambi avevano dovuto aspettare. Posò quindi le labbra sull’occhio aperto oltre la finestra, su quell’umido occhio gigante che si umettò ancora di più. Doveva darle fastidio. Ma quello, era quello l’amore. Non ne esistevano altri, né altri potevano esistere. Aveva messo i fiori, aveva osservato le stelle. Avevano atteso quante estati?
Si lasciò finalmente scivolare oltre il davanzale, venne accolto con cura da quel corpo di terra e scaglie, e fu trasportato nel campo di mais.
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