Cos’è una “betavita”? Ce lo spiega un racconto di Francesca Corpaci
In copertina: Alberto Savinio, L’isola portatile (1931)
(Questo testo è tratto da “Vocabolario minimo delle parole inventate” a cura di Luca Marinelli. Ringraziamo Wojtek Edizioni per la gentile concessione)
di Francesca Corpaci
Il posto che preferisco nel perimetro dell’ufficio è al cento percento l’ascensore perché:
a) odora sempre di buono e mentre ti scarrozza su e giù per un milione di piani hai l’impressione che a profumare sia proprio tu
b) costituisce di fatto l’unico punto nell’intero edificio dove è impensabile dedicarsi a qualsivoglia attività produttiva: niente prese elettriche, niente campo sul cellulare, illuminazione oculatamente concepita per rendere impercettibile ogni genere di imperfezione nello specchio formato parete (sempre splendidamente terso e del tutto privo di aloni grazie a un’addetta alle pulizie appostata nei paraggi 24/24) e al contempo ostile al concetto di lettura, tappeto sonoro talmente piacevole da produrre sulla conversazione l’effetto della risacca mattutina su un castello di sabbia. Questo è ciò che faccio: ogni tanto mi trattengo oltre l’orario di chiusura, per gli straordinari; quando il software delle presenze registra il timbro dell’ultimo cartellino salto su e schiaccio tutti i bottoni. Dal piano terra al superattico della direzione sono dieci minuti spaccati, fermate comprese.
Le porte si aprono su corridoi pallidi, il silenzio è quello degli alberghi di montagna; arriverà il tempo e non sarò più qui.
Ecco una bella planata sulla mia carriera aziendale: entro in area contabilità subito dopo la laurea, dribblando un viaggio zaino in spalla nel Nord dell’India che comunque non avrei potuto pagarmi e dal quale le mie compagne di corso non avrebbero mai fatto ritorno. Era il primo vero lavoro che mi capitava e ci tenevo a farmi notare, di conseguenza sgobbavo parecchio e facevo il possibile per emanare costantemente un’aura di dedizione professionale e genuina disponibilità simile quella dei cani per ciechi.
-->Passavo la maggior parte del tempo sbrigando gli affari degli altri, dinamica che se in un senso avrebbe usurato i nervi di qualunque impiegato non troppo lungimirante dall’altro provvide a trasmutarmi nella più sofisticata esperta di procedure aziendali che si fosse mai vista ai piani dell’amministrazione. Le rigogliose sinapsi poco più che ventenni che letteralmente proiettavo nel raggio di svariati metri generavano sui membri dello staff l’effetto di un hard disk esterno dalla capienza vertiginosa, e in capo a pochi mesi uno dopo l’altro vi avevano depositato con sollievo la quasi totalità delle nozioni accumulate in secoli di fedeltà all’azienda, per poi estirparle per sempre dalla propria memoria.
Iniziava a circolare il concetto di indispensabile, e oltretutto c’era la faccenda del le auguro una splendida giornata! in calce a ogni e-mail mandata in terra, che so per certo aver esercitato un ruolo più che discreto nel trasferimento dalla scrivania condivisa a un vero computer con nome e cognome che fanno ciao ciao dalla schermata d’accensione. Con le pupille sciolte nella luce diffusa ammiravo il mio monte ore espandersi in ogni direzione al ritmo dell’incremento – in percentuale minima ma spaventosamente costante di giorno in giorno – della quantità di posta elettronica, a sua volta direttamente proporzionale alla riservatezza delle informazioni in essa contenute. Percorrendo colonne di cifre microscopiche che andavano a depositarsi in complicati consuntivi che a propria volta si compattavano costituendo di fatto le fondamenta della compagnia, potevo percepire le vertebre cervicali schiacciarsi l’una sull’altra, la vista appannarsi a velocità allarmante, il tessuto connettivale intorno ai tendini inspessirsi dolorosamente e in generale un certo tenore psicofisico – di norma se non ottimo quantomeno più che buono – appiattirsi su standard sempre più deprimenti. Sospetto sia da lì l’abitudine a appoggiare la testa sui palmi aperti delle mani, con l’indice e il medio a sostenere le orecchie: in questa posa da prima della classe controllo lo stato dei linfonodi, tasto masse ingrossate, li sento duri e minacciosi sotto la pelle giallastra. Un giorno, allarmata da dimensioni insolite, finirò in un’anonima struttura medica a farmi diagnosticare malattie senza speranza, un cancro del colon o un’infiammazione del pericardio, e le locuzioni pausa pranzo, buono produzione e tesserino aziendale collasseranno sul proprio peso per ridursi a pura associazione di segni. Sarà quello il momento in cui le cose inizieranno a succedere, tipo il benedetto viaggio nel Kashmir indiano o gli incontri casuali in toilette sordide, il volontariato presso gli uffici contabili di gruppi sindacalisti in America Latina, l’affiliazione a consorzi di tutela dei diritti dei minori dispersi nelle pianure dell’Asia – oltre a una serie di dipartite eroiche e lacrimose progettate la volta che a un pugno di giorni dal Natale mi sono rimangiata due settimane di ferie per tamponare l’emergenza dello sciopero degli stagisti.
Una cosa divertente: c’è questo tizio in categoria protetta che passa ogni mattina a distribuire la posta. Prima del briefing delle 11.30, col suo carrellino giallo, batte in processione dal primo all’ultimo dipartimento tirandosi dietro una malformazione alle anche inutilmente operata dio solo sa quante volte e sorride con tutti i denti che ha in bocca e tutti lì a ricambiare disperatamente, finché non arriva dalle mie parti e si vede da un chilometro che sta diventando nervoso perché la fiera dell’ortodonzia chiude di colpo rimpiazzata da un’espressione contrita che si potrebbe parafrasare con perché non fai uno sforzo come gli altri.
Da fuori fa ridere di brutto ma deve essere anche un bel po’ triste e quando lui alla fine barcolla via vibrando da capo a piedi quelli delle scrivanie limitrofe non ce la fanno più e si sbellicano sulle sedie ergonomiche, poi si ricompongono come appena svegli e si avviano in sala riunioni schiacciati dalla vergogna mentre li seguo a leggera distanza. Nell’attimo brevissimo in cui dividiamo lo stesso spazio, un istante prima di essere ingurgitati da pareti in vetro fonoassorbenti (noi) o dal vano montacarichi di servizio (lui), cerco di comunicare telepaticamente agli astanti che non vorrei davvero provocare nessuno, o tantomeno implicare disappunto per quella maniera di respirare simile al rantolo di un cane, ma non è facile produrre un sorriso come si deve quando una lesione cutanea all’apparenza innocua sta degenerando in melanoma maligno non trattabile, con un decorso tanto doloroso e fulmineo da condurre nel giro di pochi mesi a rivelazioni neanche lontanamente compatibili con la mente di un impiegato medio.
Ricordo quando è iniziato il prurito: ogni grammo di attenzione che avevo in corpo era catalizzato dal figlio del capoarea e dalle sue orecchie straordinariamente aguzze, incorniciate in argento con sincero affetto e messe lì a monito di chissà che cosa. Nel frattempo, da qualche parte nei paraggi, il capoarea in persona ribadiva qualcosa su certe mansioni extra da portare a termine entro fine semestre e in un batter d’occhio ero da questo tizio secondo alcuni molto competente a cui avevo strappato un appuntamento a un’ora impossibile dato che tutte le altre erano state consacrate a una specie di ultranalisi di bilancio e che sul fianco destro avevo sviluppato una macchia squamosa dall’aspetto poco rassicurante. Con l’aria di chi ha visto di peggio il tizio in ultima analisi non poi così competente aveva diagnosticato un caso non preoccupante di dermatite da stress, suggerendo una terapia di corticosteroidi e riposo come panacea definitiva. Seduta in uno studio sprovvisto di prole sotto vetro osservavo l’uomo di mezza età intento a prescrivermi farmaci e quello che sentivo era un vago senso di nausea, ma soprattutto compassione per quell’individuo nato, cresciuto, educato e verosimilmente destinato a invecchiare e morire in un sonnolento baluardo di benessere occidentale senza il benché minimo sospetto di un intero universo esente dal filtro di un’economia in ascesa oltre che dal rilassante binomio immobile di proprietà/fondo pensione; esaminavo il suo abbigliamento casual studiato per comunicare al tempo stesso uno stile di vita scevro da ostentazioni e il fatto che quello in cui ci stavamo incontrando era a tutti gli effetti un giorno non lavorativo (giustificando a ruota la cifra esorbitante riscossa fuori fattura), e consideravo che quando la chiazza avrebbe iniziato a espandersi e le cellule tumorali si sarebbero diffuse nell’organismo, quando un professionista degno di questo nome avrebbe eseguito degli accertamenti realmente utili, quando l’ufficio contabilità avrebbe ricevuto la più emozionante lettera di dimissioni mai inviata e quando in sostanza la betavita che avevo progettato così minuziosamente da averla praticamente già vissuta avrebbe prima affiancato con discrezione e poi scalzato a spallate questa estenuante sala d’attesa esistenziale, allora – forse – sarei tornata per una frazione di secondo al tizio in tutta onestà seriamente deludente che stava litigando con il collante a strappo del blocchetto per ricette e non avrei saputo dire se tutta la faccenda non fosse poi stata altro che un sogno.
Mi sa che ne è passato di tempo ma non so quantificarlo con esattezza, perché quando l’ascensore sfreccia lanciandomi a tutta forza nel cielo i giorni convogliano in un’unica, maestosa e spaventosamente omogenea sequenza alba/tramonto in tutto e per tutto identica a se stessa se non per il collega non identificato ma evidentemente in buona che sta sparando allusioni a una certa promozione che qualcuno porterà a casa prima di sera e io glisso e faccio la gnorri, ma la realtà è che ho ricevuto un plico la settimana passata e dentro c’era il piano sviluppo dei prossimi cinque anni più una proposta a vari zeri con l’inconveniente dei sabati lavorativi e certe penali da capogiro in caso di dimissioni ante tempus.
Una tosse leggera ma straordinariamente persistente indica aree nere che si squagliano tra i bronchi; il superattico della direzione con le poltrone in ecopelle e la cancelleria coordinata brucia lo spazio e in un lampo sarà qui.
Allora si stringeranno mani e si offriranno sigarette, ci saranno storielle buffe e pacche sulle spalle, si allungheranno stilografiche in oro e si consumerà l’aperitivo in terrazzo e tutto sarà informale, tesissimo e sacrosanto al tempo stesso perché sapete chi si merita tutto questo e non se lo perderà per niente al mondo?
Proprio io.
0 comments on “Betavita”