Bojack Horseman è un’ex stella del cinema che vive del successo dei bei tempi andati, tra psicofarmaci e una socialità opprimente: come mai il pubblico si ritrova così tanto in una figura simile? Siamo forse una società di decaduti? Secondo Andrea Cassini, che prova a rispondere tirando in ballo anche Rick e Morty, la questione è filosofica: depressione e nichilismo oggi sono “pop”.
In copertina: Shian Ng, Bojack in Captivity
“In questo mondo terrificante, ci restano solo i legami che creiamo ”, dice Bojack Horseman nell’omonima serie TV d’animazione Netflix, prima di procedere a sabotare, inquinare e recidere ciascuno di quei contatti umani che lo tengono, faticosamente, a galla. Come suggerisce il nome, Bojack è un uomo-cavallo, si esprime con la voce ruvida di Will Arnett e abita in un mondo dove gli uomini convivono con animali antropomorfi. Un gioco surreale che funziona su più livelli, primo fra tutti la possibilità di estremizzare in chiave satirica quegli elementi contemporanei che popolano l’ambientazione realistica della serie. In secondo luogo, l’uomo-animale amplia le prospettive narrative attribuendo spessore ai personaggi, che ragionano e agiscono secondo le loro due nature: la manager Princess Carolyn è una gatta, arrivista ed egoista sul lavoro, più malleabile nella vita privata ma orgogliosa della propria indipendenza maturata a forza di “cadere in piedi” tra le peripezie della vita; Mr Peanutbutter è un cane, un labrador giallo, un eterno cucciolo entusiasta e affettuoso ma incapace di mantenere una relazione proprio perché, come gli fa notare l’ex-moglie Diane, le donne di cui si innamora crescono mentre lui rimane lo stesso. In ultima analisi, l’animale parlante richiama l’amichevole weird che ci si aspetta da una serie animata e offre quegli spazi comici indispensabili per costruire quel contrasto su cui si regge lo show: a dispetto dei suoi personaggi da fiaba o da film per famiglie, Bojack Horseman è una serie drammatica.
Come si premura di ricordare a chiunque incontri, Bojack è stato la stella di una sitcom anni ’90, Horsin’ around, ritratta con colori pastello, battute preconfezionate e buonismo d’ordinanza. Vive di rendita coi guadagni di allora in una meravigliosa villa di Hollywood, ma la sua popolarità è colata a picco e la sua vita si è ridotta a una sequenza ben rappresentata dalla straniante sigla d’apertura: alcool, droghe, feste, eventi e persone che gli scivolano intorno senza che lui sia veramente presente. C’è un richiamo evidente alla bulimica industria hollywoodiana, un mattatoio dove nessuno ha pazienza e dal quale escono solo i più risoluti o fortunati, ma l’approfondimento del personaggio va al di là della sua dimensione pubblica e del suo mestiere. Bojack è un attore brillante, ma anche un uomo infelice, distaccato, pessimista, tormentato dalla colpa eppure incline a ricadere nei medesimi errori. Depresso, in una parola, anche se la diagnosi non viene pronunciata nemmeno una volta nelle cinque stagioni della serie. A dispetto delle comuni leggi che governano le trame, per ora in Bojack non c’è nessun cammino dell’eroe, nessuna redenzione e nessun lieto fine: è una storia di fallimenti e gli sporadici spiragli di luce servono solo a catturare lo spettatore in un cliffhanger che si risolve, immancabilmente, in una caduta nel vuoto. La sua carriera si rimette in moto grazie a un’autobiografia di successo, firmata dalla ghost writer Diane, di cui Bojack si innamora non corrisposto: quando lui le chiederà di redimerlo dalle proprie colpe, di riconoscerlo nonostante tutto come una “buona persona”, lei risponderà col silenzio. Approfittando della rinata popolarità Bojack gira il film Secretariat, il ruolo che sognava fin da piccolo, ma la produzione stravolge le idee della regista e finirà per rimpiazzare la performance di Bojack con una riproduzione computerizzata. Dovrebbe comunque valergli l’Oscar, a detta di tutti, ma alla fine mancherà persino la nomination. La storia si dipana tra picchi di buon umore e abissi emotivi che Bojack risolve sempre con la fuga, mietendo vittime lungo la strada: prima Charlotte e la figlia appena maggiorenne, che seduce dopo aver fallito con la madre: poi il migliore amico e coinquilino Todd, costretto ad allontanarsi per evitare che la sua influenza tossica lo contagi: infine Sarah Lynn, che considerava Bojack come il surrogato di una figura paterna, morta di overdose nel corso di un delirante viaggio on the road.
Bojack Horseman ha riscosso un vasto successo tra pubblico e critica, culminato con la quinta stagione del 2018. La letteratura di approfondimento, incarnata da riviste culturali anche nel nostro paese, ha indagato il fenomeno. Se da un lato c’è l’indubbia qualità nella scrittura della serie, dall’altro c’è una questione dai riflessi sociologici: perché uno show apertamente nichilista come Bojack Horseman piace così tanto? Perché tanti spettatori si immedesimano – o credono di immedesimarsi – in una star della TV decaduta?
Per provare a rispondere serve allargare lo sguardo, a raggi sempre più ampi, sul radar che individua le tendenze pessimiste nelle forme più riconoscibili della cultura pop: film, serie tv, fumetti e videogiochi.

Bojack Horseman svolge un peculiare lavoro sul punto di vista offerto allo spettatore, che si riflette nel fenomeno dell’immedesimazione. Ben presto ci si accorge che le miserie di Hollywoo (la D era scomparsa, rubata da Bojack e Mr Peanutbutter per fare colpo su Diane) sono reali, non filtrate dallo sguardo disilluso di Bojack e ogni personaggio fa bella mostra dei propri lati più negativi, anche quando mascherano il disagio con lo stacanovismo o si ostinano a vedere il bicchiere mezzo pieno. Persino il gioviale Mr Peanutbutter ammette che il proprio atteggiamento funge da mera distrazione: “L’universo è solo un vuoto crudele e indifferente, la chiave per la felicità non è trovare un significato, ma tenersi occupati con stronz*te varie fino a quando è il momento di tirare le cuoia”.
Sembra di trovarsi davanti a una delle quattro strategie teorizzate dal filosofo norvegese Peter Wessel Zapffe per evadere dagli orrori della coscienza e più avanti, in un altro momento cupo che coincide con la malattia del fratello, Mr Peanutbutter indugerà su una metafora similmente oscura. “Arrivi al lavoro, timbri il cartellino, metti lo zucchero nel caffè e lo guardi dissolversi molto lentamente. Ma lo zucchero non sa il perché, lo zucchero non ha chiesto di nascere”, dice, richiamando alla memoria – chissà quanto volontariamente – Søren Kierkegaard e il suo proverbiale caffè addolcito da una piramide di zucchero. Quando l’operazione chirurgica del fratello va a buon fine, la risoluzione del conflitto assume la forma di un’epifania che Mr Peanutbutter tenta di condividere con Bojack, incarnando come spesso accade il suo alter ego votato all’ottimismo – un ottimismo più ragionato di quel che lasci immaginare il suo atteggiamento esuberante, però, edificato su fondamenta grigie. “Ogni respiro è un dono, siamo così fortunati ad essere vivi. Niente di tutto questo ha importanza”, così il labrador consola Bojack, fresco eliminato dalla corsa per gli Oscar. Non è l’unica occasione in cui la sceneggiatura di Bojack Horseman gioca con la filosofia. Princess Carolyn cita il mito di Sisifo in una delle primissime puntate, e in effetti i personaggi più energici – come lei – si fanno strada tra le follie di Hollywoo accettando l’Assurdo alla maniera proposta da Albert Camus. Si veda la strada in ripida salita che conduce alla villa di Bojack: un babbuino in tuta ginnica la percorre ogni mattina nella sua sessione di jogging, ma quando Bojack ci prova, per rimettersi in forma, rimane senza fiato. “Poi è più facile”, lo sprona il babbuino. “Ogni giorno diventa più facile. Ma devi farlo tutti i giorni. Questo è difficile. Poi diventa più facile”. Bojack, invece, lascerà che il masso lo schiacci e si rivolgerà ad altre imprese similmente frustranti.

Nella quinta stagione i nodi vengono al pettine ed è come se ogni personaggio mostrasse il peggio di sé: non perché intossicato dall’aura di Bojack, ma perché costretto a svelare la pelle autentica al cospetto di un mondo corrotto. Il finale propone una nota positiva, con Diane che convince Bojack a chiedere aiuto per disintossicarsi, ma la serie ci ha abituati a questo andamento ondivago e nessuno si aspetta che in futuro Bojack non abbia una ricaduta, o che Diane smetta infine di macerare nella propria insoddisfazione. Tra vette estreme e abissi profondi, i personaggi di di Bojack Horseman disegnano parabole che s’intrecciano senza trovare mai una conclusione. Ribaltando una dinamica tipica della serialità, con un finale per ogni puntata in osservanza della trama verticale – così accade ad esempio nei Simpson, che premono reset dopo ogni episodio, Bojack Horseman imita la vita reale e si procede per loop: come osserva Diane dopo il matrimonio con Mr Peanutbutter, “I matrimoni sono fatti di bugie, più o meno. Ti ritrovi a dover dichiarare pubblicamente di passare tutta la vita con quella persona. Ma non puoi saperlo, lo stai solo dicendo. È tutta una farsa” mentre Bojack si esprime così sulla closure: “Il lieto fine è una cosa inventata da Steven Spielberg per vendere biglietti. È come il vero amore, le Olimpiadi di Monaco. Sono cose che non esistono nel mondo reale”. Il risultato è un appiattimento dell’esperienza, con gli estremi che si bilanciano come due punti opposti nello spettro emotivo. Si ha l’impressione che i “buoni” (leggasi: ingenui, altruisti) si sacrifichino perché ai “cattivi” (smaliziati, egoisti) siano concesse sempre nuove opportunità, che non sfrutteranno. Mr Peanutbutter è sconvolto quando Diane chiede la separazione, e giunge persino a tradire la nuova compagna (si pensi alla valenza del gesto per un cane) pur di tornare con lei, per poi finire respinto una seconda volta. Il topo Ralph Stilton viene cacciato in malo modo da Princess Carolyn dopo che quest’ultima si era rifiutata di considerare l’adozione in seguito all’ennesimo aborto spontaneo: solo per scoprire, pochi mesi più tardi, che lei aveva avviato le procedure di adozione in solitaria. E infine Todd, più volte sabotato da Bojack, senza ricevere in cambio nemmeno un letto nella stanza degli ospiti.

In tutto questo Bojack è un protagonista evasivo e distante, chiuso nel culto del proprio passato, il suo straniamento reso evidente dal tipico sguardo vacuo che ben rappresenta il muso inespressivo del cavallo: un animale all’apparenza fiero, ma di temperamento nevrile come qualsiasi preda, che di fronte agli ostacoli corre via a piena velocità: poco importa che si tratti di superarli o di fuggire. A Horse with No Name è la canzone scelta per accompagnare la più recente fuga di Bojack, quando è tentato di unirsi a un branco di mustang nel deserto: anche il cavallo della sit-com Horsin’ Around, significativamente, non possedeva un nome. Conosciamo a fondo le sue frustrazioni per via degli esasperanti monologhi che punteggiano la serie (l’episodio 5×6 “Free churro” è occupato interamente da un elogio funebre che si declina in filippica contro la madre), ma non ne comprendiamo i reali sentimenti. Apprezziamo i flashback sul suo passato, ma non sappiamo nemmeno come passa buona parte delle sue giornate, quando la telecamera si sposta altrove. Per connettere lo spettatore a un personaggio così difficile da raggiungere, spesso l’autore disegna una spalla più umana che agisca da ponte: in Rick and Morty, per esempio, servono addirittura quattro membri di una famiglia per comprendere, in diffrazione, l’animo dello scienziato pazzo Rick. In Bojack Horseman questa figura è assente, se pensiamo che la spalla comica Todd è ancora più stralunata del protagonista. Si crea una frattura tra spettatore e attore, una dissonanza emotiva. Solo in un’occasione ci è permesso di esplorarla, l’episodio 6×04 “Stupido pezzo di merda”: l’unico a farci sentire la voce interiore di Bojack, ad accompagnarci nei suoi spostamenti lontano dalla trama, a parlare il linguaggio della depressione. La dissonanza, inoltre, stride col tema del riflesso che è una costante nella serie. Bojack è un narcisista che fa binge watching con gli episodi della sua vecchia sit-com, ma al contempo odia se stesso. Il paradosso si ripete in alcune scene chiave. Durante la promozione del film Secretariat, quello che dovrebbe valergli l’Oscar, Bojack s’impunta per un cartellone pubblicitario costituito da uno specchio, con lo slogan “You are Secretariat”. Tu sei Secretariat, tutti noi siamo Secretariat, tutti noi possiamo essere eroi, ma in realtà non siamo niente: il cartellone, affisso sopra un’autostrada, riflette solamente il cielo. Nella quinta stagione il marketing invade una seconda volta la vita reale. In occasione del lancio della serie Philbert, ultima fatica di Bojack, si allestisce un enorme pupazzo gonfiabile con le sue fattezze ma di colpo salta l’ancoraggio e il simulacro inizia a galleggiare per il cielo, come un sinistro dirigibile, perseguitando Bojack finché i due non si trovano, simbolicamente, naso contro naso. È una metafora psicanalitica sull’ego che ci opprime e sovrasta, se vogliamo; il contrasto tra volontà e rappresentazione, cruciale in qualcuno che “feticizza la propria tristezza”. Non è un caso che la scena richiami il quadro che campeggia nello studio di Bojack fin dalla primissima puntata, un omaggio al celebre Portait of an Artist del britannico David Hockney: un Bojack in giacca elegante, sul bordo della piscina, sembra osservare un se stesso che si affanna per nuotare. Bojack riflette ma non cambia. “Sono la principale vittima di me stesso”, lamenta a Diane nell’ultimo dei loro litigi, completamente immemore delle parole crude con cui Todd l’aveva accusato nella terza stagione, prima di andarsene da casa: “Tu sei tutte le cose che non vanno in te. Non è l’alcol o le droghe o nessuna delle merdate che ti sono successe nella carriera o quando eri piccolo. Sei tu!”
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Se Bojack è davvero vittima di qualcosa, si tratta della libertà radicale a cui si riferiva Jean Paul Sartre – contro cui per l’appunto Bojack muove una critica all’inizio della puntata subacquea, principalmente perché “i francesi puzzano e li odio”, ma anche per le posizioni filosofiche. La condanna a essere libero di Bojack è accentuata dal suo status di star: può veramente fare tutto quello che vuole, ma non è capace di essere responsabile della propria felicità, come lo vorrebbe Diane: “Responsabile della mia felicità? Non so esserlo nemmeno della mia colazione!”. Anzi, quei rari sprazzi in cui realizza la vanità della proprie azioni sottolineano forse i momenti di felicità più pura – ma pericolosamente vicina al ciglio del nichilismo: “Non è colpa mia. È colpa della società, è solo e soltanto colpa della società. Hurrà, niente in questa vita ha senso! Niente di ciò che faccio ha conseguenze!”
È probabilmente in questo paradosso che lo spettatore matura la propria immedesimazione in Bojack, in questa decostruzione della pursuit of happiness che è la più americana (e per esteso occidentale) delle protonarrative. I vizi e i lussi dell’attore hollywoo(d)iano non creano distanza: sono passati più di dieci anni da quando ci turbavamo osservando il Dr. House che assumeva antidolorifici come fossero caramelle, e abbiamo compreso che ciascuno di noi è dipendente da qualcosa. Il pubblico a cui si rivolge l’autore Raphael Bob-Waksberg possiede ottime doti di decifrazione. Trentenni istruiti, cultori dell’ironia più amara, meglio se militanti di quella classe disagiata che riconosce nell’insoddisfazione, nella mancanza di closure la propria ragion d’essere. Un pubblico che ha sperimentato l’incertezza esistenzialista che sembra sballottare Bojack da un punto all’altro della trama, e che in quella frattura del tessuto narrativo di cui parlavamo in precedenza riconosce degli spazi vuoti familiari: sono le strade dove Bojack guida senza una meta, e i pomeriggi al bar senza fare null’altro che bere.

Nei riguardi dell’interpretazione del male, Bojack Horseman accetta la teodicea cristiana e il senso di colpa sperimentato dai personaggi assume caratteri contagiosi. La sofferenza è una punizione per i peccati, e lo smarrimento nasce dall’assenza di un giudice atto a comminare la sentenza: a Hollywoo Dio è effettivamente morto, o forse non è mai esistito, e la cosa che più gli si avvicina è quell’universo inteso come “bestia selvaggia, che non si può domare” presentato per via telefonica a Bojack dal più improbabile degli oracoli (Ep. 3×07, Fermate le rotative). Come in Sant’Agostino, il male risiede nella mancanza del bene, quello che Bojack e gli altri inseguono correndo in cerchio. Si veda questa confessione dello stesso uomo-cavallo: “A volte sento come se fossi nato con una perdita e ogni cosa buona che ho iniziato fosse gocciolata via lentamente da me e ora non c’è più e non tornerà più dentro di me”.
Rick and Morty, altra serie animata di dilagante successo prodotta da Netflix, affronta la questione con un piglio differente. Dagli spazi angusti della psicanalisi ci si muove verso gli ampi, ma egualmente inquietanti, orizzonti suggeriti dalla scienza. Se la vita è un susseguirsi di eventi senza significato non è perché l’oggetto del desiderio si rivela impossibile da raggiungere, ma perché ognuno di questi eventi è già accaduto, e ogni esito si è consumato: centinaia, migliaia, milioni di volte in infinite realtà uguali alla nostra e ugualmente insignificanti. Il riferimento è all’interpretazione dei molti mondi della meccanica quantistica, e in effetti Rick Sanchez – che dietro all’archetipo dello scienziato pazzo nasconde una mente geniale e abilità tecniche sovrumane – può affermarlo a ragion veduta. Tramite una pistola di sua invenzione è in grado di spostarsi a piacimento tra una dimensione e l’altra, trascinando il nipote Morty (timido, impacciato e un po’ ottuso, il suo opposto) in avventure che spesso declinano l’improbabilità dello spaziotempo nel grottesco: sederi da cui fuoriescono criceti, divani seduti su persone, popoli con formiche negli occhi, e molte altre amenità. L’effetto nonsense è esilarante, ma gli episodi più cupi presentano l’orrore cosmico in maniera non dissimile da come avrebbe fatto Lovecraft. Ad esempio, nella seconda stagione la Terra finisce ostaggio dei Cromuloni, teste abnormi che campeggiano nel cielo: la sopravvivenza o distruzione del pianeta verrà decretata da un banale talent-show. Oppure nell’episodio 1×06, Febbre d’amore n°9, quando nel tentativo di creare una pozione d’amore per il nipote, Rick diffonde sul pianeta un virus che trasforma gli uomini in mostri cronenberghiani. A differenza della sci-fi più lineare (a cui Rick and Morty strizza l’occhio con una preferenza per Ritorno al Futuro e Doctor Who) l’uomo non è al centro dell’universo; anzi, è spinto alla periferia dallo scontro tra forze incomprensibili e terrificanti. Per dirla con Eugene Thacker, è un universo “assolutamente inumano, e indifferente alle speranze, desideri e sforzi di individui e gruppi umani”. Rick appare l’unico in grado di interpretare un ruolo nel disordine del cosmo, ma non al punto da riuscire a tirare le fila del caos; il suo intervento si riduce a un’iniziativa ribelle, tant’è vero che giunge a scombinare l’equilibrio della Cittadella, punto di riunione dei Rick e dei Morty di ogni dimensione parallela. L’uomo comune, rappresentato dallo svagato genero Jerry, non comprende e soccombe.

Rick and Morty è una di quelle rare serie TV dove non ci si limita a proclamare gli assiomi del nichilismo per incorniciare una scena topica. La loro verità è mostrata attraverso i fatti. Si noti il recupero in chiave ironica quella dinamica tipica della serialità da cui Bojack rifuggiva: affermando la predominanza della trama verticale, in cui ogni episodio chiude un cerchio per poi ripartire in una nuova avventura, si evidenzia come le conseguenze delle azioni siano irrilevanti. Durante i loro viaggi spaziali Rick e Morty si macchiano di crimini efferati, persino uccisioni, senza battere ciglio; non perché incarnano un ipotetico bene, ma perché non assegnano un significato a vite e desideri altrui. Sono loro gli orrori, agli occhi di qualcun altro. Nell’episodio 2×02, Puzza di Mezzanotte, Morty si cimenta in un videogioco che è la simulazione di un’intera vita, quella di Roy, talmente immersivo che chi indossa il casco non si rende conto dello scarto con la realtà e in pochi minuti trascorrono decine di anni virtuali. In un’altra occasione, Rick arresta il tempo per riparare i danni alla casa prima che la figlia Beth e il genero Jerry rientrino, ma finisce per lasciar correre sei mesi in cui lui e i nipoti sono gli unici esseri animati sulla Terra. In ogni puntata tutto torna come prima, e persino la morte si può cancellare. Esistono un Rick e un Morty in ogni dimensione, d’altronde. Nel già citato episodio Febbre d’amore n°9, quando le sorti del pianeta diventano irrecuperabili, i due emigrano in una nuova dimensione lasciando il resto della famiglia a combattere coi mostri partoriti dalla hybris di Rick. Nel paradosso conseguente sono i loro alter ego ad avere la peggio: Rick e Morty li seppelliscono in giardino e proseguono la loro vita. “Nessuno esiste di proposito, nessuno appartiene a un posto, tutti quanti moriranno. Vieni a guardare la TV?”, dice Morty alla sorella Summer riflettendo sull’accaduto, e la sua esortazione, più che un invito a distrarsi, sottintende l’accettazione dell’Assurdo di cui parlava Albert Camus – allargata però su un piano universale. Come si intuirà, la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale ha un ruolo di primo piano nella narrazione di Rick and Morty: nella furia iconoclasta con cui Rick si getta a capofitto in ogni nuova avventura, pur capendone il valore nullo, si legge una polverizzazione del nichilismo che fonde lo Übermensch di Nietzsche con la schizofrenia deleuziana. Rick è in effetti un ponte tra l’uomo e ciò che verrà dopo di esso, perché le sue competenze scientifiche non sono spiegabili attraverso la tecnologia contemporanea, e nell’episodio 2×01, Nelle pieghe del tempo, lo vediamo sostituirsi a Dio (al grido di “Fottiti, Dio”) per scampare alla morte. Al tempo stesso è anche un individuo profondamente disturbato, dilaniato tra i due estremi del sistema binario che si pone come unica valida raffigurazione concordante con la sua visione dell’universo: creazione e distruzione.
Da un lato, Rick vive in osservanza della scientificità più fredda. Quando afferma: “quello che chiamano amore è solo una reazione chimica che fa accoppiare gli animali” (e si veda anche: “un matrimonio è un funerale con la torta”), si accomuna alle posizioni del materialismo eliminativo come professato da Paul e Patricia Churchland: ogni metafisica va abolita, e ogni questione ontologica deve passare per le forche caudine di fisica e neurologia. Sulla stessa linea di pensiero, Rick potrebbe ben affermare in coppia con Thomas Metzinger che l’io, come siamo abituati a intenderlo, non esiste. Ciò che ci costituisce è in realtà una giungla di neuroni e la coscienza è l’inquinamento causato dal continuo attivarsi di tali neuroni. “Siamo un sistema che simula ed emula noi stessi per noi stessi”. Nella Cittadella, per l’appunto, l’identità di Rick si frammenta in migliaia di particelle che lavorano all’unisono secondo un regime regolare e verso un unico obiettivo, come neuroni. Il tema della realtà come allucinazione torna a più riprese, nel già citato episodio del videogioco Roy e in Jerry, che è più felice di vivere in una simulazione ignorandone la natura illusoria.

L’altra faccia della medaglia è il legame affettivo che Rick coltiva coi nipoti. Quello per Morty assume i tratti di un’autentica ossessione. Lo distoglie da qualsiasi impegno, sociale e scolastico, pur di portarlo con sé: sostiene che gli sia indispensabile per mascherare, con la propria stupidità, le onde cerebrali che manifestano la sua intelligenza, ma in realtà mostra a più riprese di ricercarne l’approvazione, seppure con modi burberi. O quantomeno, di invocarne l’aiuto. Come svela il Persuccello nella prima stagione, il goliardico tormentone di Rick “wubalubadubdub” significa “aiutatemi, sto soffrendo” nel suo linguaggio. Ancora una volta la dinamica scelta è quella della schizofrenia, esplicitata nell’episodio 2×07, quando Rick ringiovanisce fino ad acquisire un nuovo sé, il Mini-Rick. È un istrione che monopolizza le attenzioni della scuola e si rifiuta di invecchiare, ma dentro quel corpo la coscienza originale soffre e si dibatte, affiorando tramite le canzoni che il giovane Rick canta agli amici – e che loro fraintendono per una sorta di insofferenza grunge: “Smettetela di guardarmi e aiutatemi ad uscire, aiutatemi, aiutatemi sto per morire”.
Se in Bojack Horseman la ricerca del significato era un tema portante della storia, sempre inquadrato in primo piano, in Rick and Morty assomiglia più a una trama nascosta, da osservare in controluce. Per scardinare il concetto gli autori Justin Roiland e Dan Harmon si affidano a personaggi secondari o scene di poco rilievo, che facciano da tramite verso i protagonisti. I Miguardi dell’episodio 1×05, ad esempio, esseri richiamati da Rick da un’altra dimensione, modellati sul genio della lampada. Il senso della loro vita consiste nel risolvere i problemi altrui; per un po’ semplificano la quotidianità della famiglia, ma il meccanismo s’inceppa quando non riescono a migliorare lo swing di Jerry nel golf. In breve, l’isteria dilaga nei Miguardi, sottoposti alla propria incompiutezza: “l’esistenza è un dolore per i Miguardi, e faremo di tutto per alleviare quel dolore”. Un’altra sponda, da sempre affidabile per riflettere sul tema del significato e della coscienza, è quella offerta dalle intelligenze robotiche. Rick le crea in laboratorio per sostituire i nipoti, a mo’ di simulacri, e ne offre una persino alla figlia durante una crisi matrimoniale con Jerry. Il clone potrebbe portare avanti gli obblighi familiari al posto suo, le spiega, lasciandola libera di seguire la carriera che sognava prima di sposarsi. “Qual è il mio scopo?” chiede un robottino ideato da Rick sulla tavola da pranzo, in un episodio più grottesco ma non meno perturbante. “Passare il burro”, è la risposta che innesca la sua disperazione. “Oh mio Dio”, si lamenta, e vengono in mente i robot tormentati del videogioco NieR: Automata.

Come dicevamo, Rick and Morty è una serie che si muove con rara maestria su quel filo che unisce il serio (il tremendamente drammatico, in questo caso) e il faceto. Una delle scene cult, evolutasi in un meme a pieno diritto, è quella dell’episodio 3×03 dove Rick si trasforma in un cetriolo munito di occhi, sopracciglia e bocca e comincia a vagare per la città. Dietro il velo dell’umorismo nonsense si nasconde una delle affermazioni più crude offerte dalla serie. L’entusiasmo di Rick che urla “Mi sono trasformato in un cetriolo, Morty” significa liberazione. In quel momento e in quella forma, nessuno gli chiede di interpretare il proprio ruolo nell’universo, di scegliere un punto nell’abisso che separa la creazione e la distruzione e di sceglierlo di nuovo infinite volte. Solo liberandosi dal corpo umano si può rigettare la coscienza umana, sembra suggerirci Rick, e finalmente apprezzare nei panni di un cetriolino che niente ha davvero importanza.
La popolarità di queste e altre serie – ma il discorso si estende agilmente anche a letteratura, fumetti, videogiochi e cinema – svela una tendenza significativa: esistenzialismo, pessimismo e nichilismo, seppure in forme eterodosse, hanno scavato una traccia nella cultura popolare intercettando un elemento fondante nello spirito del nostro tempo. L’antieroe affascinante, come Amleto, Dottor House o Tyler Durden di Fight Club, cede terreno a un Bojack che di eroico non ha nulla, è insignificante come il mondo in cui vive. Il linguaggio per tradurre il suo dolore non è più quello della tragedia, bensì quello piatto della depressione, della schizofrenia e dell’ansia sociale. Se ci sentiamo vicini a Bojack, sebbene il suo esempio sia dei più indesiderabili, forse è perché ne condividiamo la tensione esistenziale: da una parte il richiamo di nuovi feticci, in un mondo che ha smarrito i suoi dei, dall’altra il sospiro con cui si accetta l’assurdo.
Riflessione ed esegesi di alto livello. Con uno stile di scrittura all’altezza. Uno dei colpi di classe è la lettura in senso “consustanziale” dello sviluppo verticale in Ricky e Morty (in contrapposizione con il montaggio quasi à la Resnais di Bojack Horseman; o comunque alla sua struttura come una lamiera crivellata da proiettili – o organismo forato da psicofarmaci – che a mio parere ha anche a che vedere con i buchi della memoria, quasi una parodia del reiterato e “profano”, capo di imputazione dei buchi-di-sceneggiatura).
Complimenti da parte mia. Uno dei pochi testi illuminanti su questi temi.
Ps. In certi momenti queste due serie mi hanno riportato all frastagliamento del tempo nello spazio di Here di R. Mc Guire.