Il Brutto Posto: i luoghi infestati, dai miti a “Loney”

Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo!

Terribilis est locus iste, esclama il patriarca: è una delle prime attestazioni letterarie di una sensazione che conosciamo bene tutti, in un modo o nell’altro. Ci sono luoghi che fanno paura, e ad inquietarci è l’ambiente stesso, non necessariamente come premessa di qualche minaccioso occupante, come negli antri dei orchi e delle streghe, con i resti delle vittime e gli schizzi di sangue. No. La minaccia è più ampia, più vaga, e per questo persino più intensa, come l’aria satura di elettricità prima di un temporale. È proprio questa tensione a farci chiedere “Cosa è successo qui?” Possiamo scoprire che si tratta di fantasmi, suicidi, atti violenti, che in quella camera d’albergo è impazzito qualcuno o che in quella casa di campagna venne confinato un figlio deforme. Che vi venivano compiuti riti tenebrosi. Oppure può non venirci fornita spiegazione alcuna, senza che per questo la forma della porta o la disposizione degli scogli e degli alberi smettano di turbarci.


Ci sono luoghi che fanno paura, e ad inquietarci è l’ambiente stesso, non necessariamente come premessa di qualche minaccioso occupante.


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Con la consueta chiarezza di chi questi elementi li bazzica da anni come lettore e scrittore, è stato Il Re dell’horror in persona, Stephen King, a indicare l’archetipo condiviso da tutte queste diverse esperienze. E, se è vero che Dio parla per bocca dei bambini, niente attesta la forza brutale e insondabile del linguaggio infantile come quando prova a dipingere le proprie paure: “Non dico che la casa stregata sia una delle vere carte dei Tarocchi del mito del soprannaturale, ma credo che potremmo allargare un po’ l’ambito della nostra ricerca, proprio per trovare un’altra delle sorgenti che alimentano la polla del mito. Se si vuole un nome più adatto, potremmo chiamare questo archetipo il Brutto Posto, un termine che comprende molto più della casa in rovina alla fine di Maple Street, con il giardino pieno di erbacce, le finestre rotte e il cartello IN VENDITA tutto stinto.”

“Numen inest”: per Ovidio è così che i Latini esprimevano la sacralità di un fiume, di una roccia, di un boschetto. E già Virgilio aveva raccontato quanto sia difficile capire chi sia effettivamente il misterioso potere che sussurra da una serie infinita di dettagli.
Definire è sempre delimitare, anche se si tratta di qualcosa di terribile o spaventoso. Iam tum religio pavidos terrebal agrestes Dira loci, iam tum sylva, saxumque tremebant. Hoc nemus, hunc, inquit, frondoso vertice collem (Quis deus incertum est) abitat deus. Già allora la paurosa santità del luogo atterriva gli agresti tremanti; rabbrividivano della selva e della rupe. “Un dio, è incerto qual dio, abita il bosco e il colle dalla vetta frondosa.” Come notava sempre Stephen King, l’urlo nei film horror è spesso un urlo “liberatorio”: abbiamo finalmente visto che si trattava ‘solo’ di una testa mozzata, o ‘solo’ di un morto che cammina. Prima non lo sapevamo, non vedevamo, e ad esporci davvero in tutta la nostra nudità primitiva, facendoci tornare in un balzo degli uomini delle caverne che tendono le lance verso il buio, è sempre l’ignoto. Non è certamente casuale che la domanda fondamentale della narrativa dell’orrore – ma anche la prima battuta dell’ “Amleto”- sia “Chi è là?”

loney-book-cover-xlargeProprio in queste settimane, Bompiani ha pubblicato uno dei tentativi recenti più intensi e spaventosi di raccontare il Brutto Posto: “Loney”, esordio di Andrew Michael Hurley. Un romanzo sull’amore fraterno, la violenza di una fede tradizionale che cerca di circoscrivere il mondo e le sue sfide in una serie di categorie rigide e comprensibili, e l’orrore di una magia che erode poco a poco i nostri fragili castelli di sabbia, le palizzate delle nostre ridicole convinzioni universali, la nostra ostinazione nell’aggrapparci a ciò che non si vede, pur di non guardare negli occhi ciò che, invece, si vede e ci vede benissimo. Una storia che è tutt’uno con la sua ambientazione, una costa britannica sperduta e grigia, il Loney:

“C’erano ovunque le prove di un antico fervore: frangiflutti schiantati dalle tempeste, pontili di legno ridotti in neri ceppi piantati nella melma. E c’erano altre, più misteriose strutture: resti di capanni in cui un tempo si puliva il pesce per i mercati dell’entroterra, boe di segnalazione arrugginite, un moncone di faro di legno che, sul promontorio, aveva guidato marinai e pastori attraverso l’incostante mutare del fondo sabbioso. Ma era impossibile conoscere davvero il Loney. Si trasformava con ogni afflusso e ogni deflusso d’acqua, e i minimi di marea rivelavano gli scheletri di coloro che si erano illusi di leggere il posto abbastanza bene da poterne sfuggire le correnti insidiose. Affioravano resti di animali, e in certi casi di persone, e una volta di entrambi: un pastore e la sua pecora, isolati e annegati sul vecchio passaggio da Cumbria. E adesso, a più di un secolo dalla loro morte, il Loney aveva sospinto nuovamente le loro ossa verso l’entroterra, come per dimostrare qualcosa.”

Questo non è un semplice sfondo, per quanto inquietante e suggestivo. Fin dalle prime battute del romanzo percepiamo che la vera battaglia in corso, sotto la superficie degli eventi piccoli e grandi, meschini e terribili, è quella ingaggiata proprio tra questa illusione di leggere il posto e il luogo stesso:

“La stanza si fece improvvisamente silenziosa. Le cornacchie avevano smesso di gracchiare. La casa e i campi tutt’attorno erano immersi nella quiete, e tutto sembrava guardingo timoroso. Al Loney, la notte si insinuava in un modo che non avevo mai visto altrove. A casa, a Londra, la notte si teneva a distanza da noi, sgattaiolando dietro i semafori e i palazzi di uffici, e poteva facilmente essere spazzata via in un istante dalla furia di luce e metallo dei convogli della metropolitana che sfrecciavano oltre il giardino. Ma qui era diverso. Non c’era niente tenerla lontana. La luna era fredda e distante e le stelle erano fioche quanto le minuscole schegge di luce dei pescherecci in alto mare. Come l’ombra di un enorme uccello rapace, il buio avanzava lentamente giù per la collina e dilagava oltre Moorings, sulle paludi, sulla spiaggia, sul mare, finché non rimaneva altro che un torbido arancione all’orizzonte, mentre l’ultimo barlume di luce inglese veniva meno.”

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Come migliaia di anni fa, verrebbe da aggiungere. Siamo ai confini di quel piccolo spazio “pulito e illuminato bene”, direbbe Hemingway, dove puntelliamo le nostre piccole certezze, sperando di dimenticare le tenebre tutte intorno, come se ignorarle equivalesse a sconfiggerle. Tutto questo in virtù d’una prosa che ha il sentore inesorabile delle cose semplicemente vere, capace di restituire la stoffa dell’esperienza di chiunque abbia camminato su una costa piovosa, in una primavera che lotta ancora con l’inverno:

“Scendemmo sulla spiaggia, seguendo un’ingarbugliata scia di resti. Gabbiani che il mare aveva ridotto a zuppi e contorti mucchietti d’ossa e piume. Enormi ceppi d’albero, piallati dall’acqua fino a sembrare di metallo e arenati come obici del tempo di guerra. In realtà, il mare aveva lasciato le sue offerte lungo tutta la spiaggia, come un gatto che cercasse di ingraziarsi il padrone. Il Loney era sempre stato una discarica per i detriti del Nord, e tra i viluppi di alghe c’erano scarpe e bottiglie, copertoni e cassette per il latte. Ma tutto sarebbe scomparso con la prossima marea, risucchiato nel guazzabuglio del mare.”

Apparentemente non è successo ancora niente, eppure, appena sotto la soglia della consapevolezza, avvertiamo già qualcosa che raspa alla porta, e ci riempie di tensione dolorosa. In quel grigio desolato, in quei tronchi levigati dalle onde, in quei gabbiani aggressivi, c’è già tutto.
Che certi luoghi siano carichi di questa comunicazione spaventosa, che nessun discorso razionale può esprimere davvero, lo sapeva benissimo anche Dostoevskij. Alcuni dei suoi incubi più terribili non sono tanto la descrizione di una sequenza di eventi, quanto di uno stato, o, appunto, di un luogo, come nell’inferno immaginato dal perverso Svidrigrailov:

“«Io non credo nella vita futura.»
«E se laggiù non vi fossero che ragni, o qualcosa del genere?»
“È pazzo!”, pensò.
«Noi ci rappresentiamo sempre l’eternità come un’idea che non possiamo comprendere, come una cosa immensa, immensa. Ma perché dovrebbe essere immensa? E se lassù non ci fosse altro che una stanzetta, simile ad una rustica stanza da bagno affumicata, e in tutti gli angoli ci fossero tanti ragni? Se l’eternità non fosse altro che questo?»”


«Noi ci rappresentiamo sempre l’eternità come un’idea che non possiamo comprendere, come una cosa immensa, immensa. Ma perché dovrebbe essere immensa? E se lassù non ci fosse altro che una stanzetta, simile ad una rustica stanza da bagno affumicata, e in tutti gli angoli ci fossero tanti ragni? Se l’eternità non fosse altro che questo?»


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Lovercraft non si è guadagnato la fama di maestro dell’orrore cosmico per niente. La sua prosa, nelle sue vette deliranti come nei suoi punti meno efficaci, è sempre basata sul bilanciamento di due forze opposte: la citazione colta, scientifica, archeologica o architettonica, precisa fino alla pedanteria, e l’allusione. Ma è quest’ultima a innervare le sue conquiste più forti, come in quel capolavoro che resta “Il colore venuto dallo spazio.” Se si fosse limitato a buttar giù solo il titolo, l’incantesimo sinistro contenuto in quella singola immagine-non immagine sarebbe già all’opera. Ma ecco l’incipit vero e proprio, dove, ancora una volta, è il paesaggio stesso a farla da padrone:

“A occidente di Arkham le colline s’innalzano all’improvviso, tra valli e boschi profondi che non hanno mai conosciuto la scure: vi sono macchie strette e buie dove gli alberi si inerpicano in maniera fantastica e ruscelli che non hanno mai visto la luce del sole. Sui pendii più dolci sorgono antiche fattorie di pietra e tozzi cottage coperti di musco che meditano da secoli sui segreti del New England, al riparo di grandi costoni di roccia: si tratta, per la maggior parte, di costruzioni ormai disabitate, con grandi comignoli in rovina e i fianchi d’embrice pericolosamente gonfi sotto i tetti bassi a doppio spiovente.
La gente che ci abitava è andata via, e ai forestieri quei posti non piacciono: ci hanno provato i franco-canadesi, gli italiani e i polacchi, ma come sono venuti così se ne sono andati. Il motivo non è qualcosa che si veda, si senta o che si possa toccare, ma anzi, qualcosa che si immagina soltanto, È una regione che non fa bene all’immaginazione, e di notte non procura sonni tranquilli.”

T. S. Eliot, aggirandosi tra i luoghi della sua memoria, aveva intuito che “il genere umano non può sopportare troppa realtà” e forse è proprio echeggiandolo che Shirley Jackson aprì così il suo romanzo di fantasmi, “La casa degli invasati”:

“Nessun organismo vivente può continuare per molto a mantenere la propria sanità mentale in condizioni di assoluta realtà; anche gli uccellini e le cavallette, dicono, sono capaci di sognare. Hill House, insana, stava da sola contro le colline, contenendo in sé solo il buio, era stata così per ottant’anni e poteva rimanere tale per altri ottanta. All’interno, le pareti continuavano a essere erette, i mattoni a stare uno accanto all’altro, i pavimenti erano saldi e le porte erano assennatamente chiuse, il silenzio si stendeva sul legno e la pietra di Hill House, e qualsiasi cosa vi fosse dentro, era sola.”

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Tuttavia, qui ci aggiriamo ancora tra assi marce e scricchiolii. Anne River Siddons col suo terribile (e ancora non tradotto) “The house next door”, avrebbe invece raccontato la nascita di una casa stregata contemporanea, un’abitazione assolutamente moderna e confortevole, che tuttavia complotta contro la serenità dei suoi abitanti: “The room was bright and white and still and silent, but soundless sound roared and howled in it.”
Come notò C. S. Lewis, la protagonista fondamentale de “Il Signore delle mosche” di Golding è l’isola stessa, evocata da una prosa così sensuale e avvolgente da costituire un vero e proprio sviluppo musicale sul motivo appena accennato da Omero con la terra stregata di Circe. Anche in Golding, la vitalità semicosciente del piccolo paradiso, il suo abbraccio, la sua luce erotica, sono un tutt’uno con la violenza che coinvolge i ragazzini sopravvissuti. Quel luogo non è bellissimo ma crudele, è bellissimo e crudele, casto e lascivo, paradiso e inferno.

A chi, come nel più trito luogo comune “preferisce la montagna al mare”, bisogna ricordare ciò che la moglie di Jack Torrance nello “Shining” di Stephen King intuisce mentre osserva dal finestrino della macchina il paesaggio che racchiude l’Overlook Hotel, edificato con spregio noncurante su un cimitero indiano:

“La parete di roccia cadeva a strapiombo sulla destra, spalancando dinanzi ai loro occhi una valle scoscesa che sembrava sprofondare all’infinito, tappezzata del verde cupo dei pini delle Montagne Rocciose e degli abeti rossi. I pini digradavano fino ai grigi dirupi di roccia che cadevano a precipizio per centinaia di metri. Wendy vide una cascatella rimbalzare su una parete col sole del primo mattino che vi scintillava come un pesce dorato invischiato in una rete azzurra. Erano montagne bellissime, ma aspre. E difficili. Wendy si disse che certamente non avrebbero perdonato molti errori. Un brutto presentimento le fece salire un groppo alla gola. Più a ovest, sulla Sierra Nevada, la spedizione Donner era rimasta intrappolata nella neve e per sopravvivere aveva dovuto piegarsi al cannibalismo. Le montagne non perdonavano molti errori.”

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Ed è proprio in questo suo tributo al Brutto Posto, che King fa esprimere, per bocca di Danny e del fantasma di Tom, un’intuizione fondamentale su ciò che temiamo davvero nei luoghi infestati: Questo posto disumano crea mostri umani.


Ogni luogo stregato è, in fondo, uno specchio, che ci mette davanti ciò che abbiamo, magari per anni interi, evitato di fissare. La nostra violenza, la nostra rapacità, la nostra fame di gettarci alle spalle quel fardello piagnucoloso che sia chiama io e mordere, penetrare, lacerare, pulsare.


Ogni luogo stregato è, in fondo, uno specchio, che ci mette davanti ciò che abbiamo, magari per anni interi, evitato di fissare. La nostra violenza, la nostra rapacità, la nostra fame di gettarci alle spalle quel fardello piagnucoloso che sia chiama io e mordere, penetrare, lacerare, pulsare. O semplicemente la nostra disperazione, che si abbatte sul vecchio prete cattolico di “Loney” sulla spiaggia grigia, più forte e orribile di qualsiasi mostro o spettro:

“Doveva essere lo shock, pensò, il freddo che lo faceva tremare, ma era atterrito. Sì, era stato quasi trascinato in mare, ma ciò di cui aveva paura non era il mare. Si sentiva solo. Più solo di quanto si fosse mai sentito in vita sua. Era una specie di nudità, un istantaneo ritrovarsi svestito. Sentì un formicolio sulla pelle. Un’anguilla gelida serpeggiargli nel ventre […] Lì c’era solo esistenza che andava e veniva con un’indifferenza che lo lasciava di sasso. Lì la vita si manifestava spontaneamente e senza una ragione precisa. Si dipanava senza controllo e si esauriva nell’oblio. Si era battuto contro il mare per strappargli il cadavere dell’ubriacone con la stessa futilità con cui Serse aveva frustato i Dardanelli con le catene. Il mare non aveva nozione di contesa o di proprietà, e lui era stato solo un testimone del suo potere. Gli era stata mostrata la religione perfetta. Quella che non aveva bisogno di fede. Né c’erano parabole per trasmettere le sue lezioni, perché non c’era alcuna lezione da imparare. Solo questa: la morte era il nulla. Non una soglia, bensì un muro contro il quale l’intera razza umana era ammassata come ciarpame marino. Si sentì lui stesso come un uomo sul punto di annegare, brancolando disperatamente in cerca di un appiglio. C’era solo una cosa che poteva aiutarlo a stare a galla ancora un po’, anche se alla fine era destinato a sprofondare.”

Verrebbe quasi da correggere Danny: siamo davvero sicuri che ci sia bisogno di “creare” i mostri? Il filosofo del linguaggio Daniel Dennett ha descritto la dinamica che agisce dietro ogni riflesso superstizioso, plasmato da millenni di evoluzione, come:

“An overactive adoption of the intentional stance … This is a mammalian feature that we share with, say, dogs. If your dog hears the thud of snow falling off the roof and jumps up and barks, the dog is in effect asking, ‘Who’s there?’ not, ‘What’s that?’ The dog is assuming there’s an agent causing the thud. It might be a dangerous agent. The assumption is that when something surprising, unexpected, puzzling happens, treat it as an agent until you learn otherwise. That’s the intentional stance. It’s instinctive. Now, the dog just goes back to sleep after a minute. But we, because we have language, we mull it over in our heads and pretty soon we’ve conjured up a hallucinated agent, say, a little forest god or a talking tree or an elf or something ghostly that made that noise. Generally, those are just harmless little quirks that we soon forget. But every now and then, one comes along that has a little bit more staying power. It’s sort of unforgettable. And so it grows. And we share it with a neighbor. And the neighbor says, ‘What do you mean, a talking tree? There’s no talking trees.’ And you say, ‘I could have sworn that tree was talking.’ Pretty soon, the whole village is talking about the talking tree. The talking tree idea has entered the world. It has made multiple copies of itself. Everyone in the village has a copy of the talking tree idea. What’s it for? It’s for itself. It just happened because it could. It’s like a virus.”

01Un virus, e siamo noi a infettare l’ambiente. Il peso intollerabile della divinità senza nome, il terrore che crediamo ci scruti dalle fronde o mugghi con le onde scure, grava invece sulle nostre spalle di primati capaci di chiedere “Chi è là?” E la tragedia, come intuì George Steiner, è che il mare non ha alcuna risposta. Gli elfi capricciosi, le streghe che mangiano i bambini, gli orchi, la mera stranezza degli alberi che si tendono come artigli neri nella notte, i ragni che si arrampicano in una stanzetta sudicia, siamo noi. Dentro gli occhi e il cuore abbiamo tutti gli orrori che servono. La minaccia siamo noi. Dobbiamo solo trovare una superficie abbastanza lucida per scorgerla.


Gli elfi capricciosi, le streghe che mangiano i bambini, gli orchi, la mera stranezza degli alberi che si tendono come artigli neri nella notte, i ragni che si arrampicano in una stanzetta sudicia, siamo noi. Dentro gli occhi e il cuore abbiamo tutti gli orrori che servono. La minaccia siamo noi. Dobbiamo solo trovare una superficie abbastanza lucida per scorgerla.


È una storia vecchia come il primo giardino della nostra memoria collettiva. Siamo davvero fatti per vivere in un giardino, e per farci scivolare dentro la tentazione, e conoscere il bene e il male come intuì John Donne, passeggiando per Twickenham:

Bruciato dai sospiri, circonfuso di lacrime,

qui vengo in cerca della primavera.

E ai miei occhi e agli orecchi

si versa balsamo da curare ogni cosa.

Ma, di me stesso traditore, io porto

il ragno amore che tutto transustanzia

e tramutare può la manna in fiele,

e affinché questo luogo giustamente

sia detto paradiso, vi ho portato il serpente.

di Edoardo Rialti


Edoardo Rialti (1982) è traduttore di letteratura anglo-americana e letteratura fantasy, sci-fi, horror, per Mondadori, Lindau, Gargoyle, Multiplayer. Tra gli altri ha tradotto e curato opere di C. S. Lewis, J. Abercrombie, P. Brown, O. Wilde, W. Shakespeare. E’ collaboratore de “Il Foglio” dove si occupa di critica letteraria e ha scritto le biografie a puntate di J. R. R. Tolkien, G. K. Chesterton, C. S. Lewis, C. Hitchens. Ha insegnato in Italia e Canada. Dipendesse da lui, la sua giornata comprenderebbe solo caffè, sport e scrittura.
Immagini: (c) The Village (2004), Antichrist (L.V.Trier, 2009), Shining (Kubrik, 1980)

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