Che cos’è la gravità? Nessuno lo sa – e quasi nessuno sa che nessuno lo sa. Il fatto che qualcosa di così pervasivo possa essere altrettanto misterioso è uno dei più grandi enigmi della scienza moderna.
IN COPERTINA: La Caduta di Fetonte, di Giorgio De Chirico
Questo testo è un estratto da “Il mistero sotto i nostri piedi” di Richard Panek. Ringraziamo Raffaello Cortina Editore per la gentile concessione.
di Richard Panek
Cadere è facile. Non devi fare nulla.
Restare in piedi è difficile. È necessario che il tuo corpo faccia il contrario di quello che la gravità gli farebbe fare se lasciassi alla natura il suo corso. Potresti pensare che “stare in piedi” significhi “stare fermi” – e in effetti è così – ma quella formulazione è in realtà una ripetizione affermativa di una formulazione essenzialmente negativa: “Non cadere giù”.
Attraverso l’evoluzione una specie accumula tante mutazioni, e quelle anatomiche devono tenere conto degli effetti della gravità, fin quando la relazione tra conformazione anatomica e gravità è unica per ogni specie. L’apparato circolatorio della giraffa deve pompare sangue a un’altezza molto maggiore della testa di un uomo, dunque la sua anatomia richiede una pressione sanguigna maggiore e vasi sanguigni più resistenti. All’estremo opposto, un insetto interagisce con la gravità a un livello minimo: può lasciarsi trasportare dalla corrente per enormi distanze senza problemi. (Deve però preoccuparsi della tensione superficiale: una pozzanghera, per un artropode, equivale all’Annisquam River.)
Le mutazioni anatomiche successive che Homo sapiens ha accumulato nel corso dell’evoluzione hanno aumentato la capacità del corpo di restare in piedi per periodi lunghi. Il sistema visivo registra sia i movimenti esterni sia dove la testa e il corpo si trovano in relazione al mondo. I sensori nei nostri muscoli, tendini e legamenti – il sistema propriocettivo – registrano le posizioni delle nostre gambe e piedi rispetto al terreno e la posizione della nostra testa rispetto alle spalle e al petto. Il cervello, una volta elaborati i dati presenti e passati, coordina le azioni delle varie parti del corpo.
Ora metti tutto questo – un sistema fisiologico di misurazioni continue e correzioni in tempo reale, complesso e accurato come il sistema solare di Laplace – in movimento.
-->I serpenti, ovviamente, barano. Per la precisione, non tentano neppure di camminare. Quello che tentano di fare è insinuarsi, contraendo e rilassando i muscoli in onde, come fanno anche i pesci. Ma il corpo di un serpente è aderente al terreno, e lascia che la gravità compia tutto il suo lavoro. Anche i rettili quadrupedi toccano terra, ma possiedono zampe e le usano per muoversi. I mammiferi quadrupedi non toccano terra quando camminano, eccezion fatta per le zampe ovviamente, ma hanno il vantaggio di possederne una in più rispetto alle tre necessarie perché un oggetto resti stabilmente in piedi.
Le gambe umane, invece, sono una in meno del necessario. I tripodi sono più stabili dei bipedi. Ma i tripodi non possono camminare. Gli umani non restano semplicemente in piedi, ma lo fanno camminando.
Una volta ho scritto il soggetto per un documentario del National Geographic su grande schermo. Il titolo era Robots 3D, e il sottotitolo provvisorio (che non divenne definitivo) era Non è facile essere Uman(oid)i! Come quel riassunto suggeriva, il messaggio del film è che progettare robot perché facciano quello che fanno gli esseri umani è molto complicato perché quello che fanno gli esseri umani è molto complicato.
L’intelligenza, e la cosa non mi sorprende, è notoriamente difficile da replicare. Lo stesso, tuttavia, vale per la locomozione – e questo è sorprendente almeno per me, anche perché non pensavo che la difficoltà fosse analoga a quella dell’intelligenza artificiale: la scienza non capisce del tutto il nostro funzionamento. Se hai mai visto uno di quei video di robot che “giocano” a calcio o che giocano “a calcio” (mettere le virgolette al posto giusto è difficile perché i robot sembrano fare qualcosa in prossimità di un pallone che implica il cadere a terra), capirai a cosa mi riferisco. La prima generazione di gambe robotiche partiva da un giunto posto sull’anca, esattamente come nel caso degli umani, se la nostra anatomia fosse quella degli omini fatti a bastoncini nel disegno di un bimbo di sei anni.
Ma la nostra capacita di camminare si basa su una specie di jujitsu evolutivo: vinciamo la gravità arrendendoci a essa. Il nostro atteggiamento nei suoi confronti è Fai del tuo peggio. E la gravità lo fa. Ma a quel punto noi replichiamo, Marameo! Se pensi a quello che fa un robot-calciatore quando cade in modo non controllato, pensa allora a quello che noi facciamo durante una “caduta controllata” – che, in effetti, è il termine che gli scienziati usano per ciò che noi intendiamo con “camminare”. Inizia con la gamba sinistra. Supponi che sia dritta, e che sostenga da sola il peso del corpo. Sei in piedi su quella gamba, ovvero non cadi da quella gamba. A questo punto ti sporgi in avanti e ti lasci andare. Ti arrendi. Cedi alla gravità, permettendole di fare quello che vuole, e non fai nulla per contrastarla.
Cadi.
Ora supponi che, mentre stai cadendo, la gamba destra inizi a estendersi nella stessa direzione. All’inizio è piegata al ginocchio, ma più la gamba si allunga più il ginocchio si distende. Alla fine, la gamba è completamente distesa e a quel punto il piede tocca terra. E questo è il momento in cui vinci la gravità.
Ti rialzi.
Non di molto. Ma abbastanza da ritornare alla stessa altezza a cui ti trovavi quando il peso era tutto sulla gamba sinistra dritta, solo che ora il peso è tutto sulla gamba destra dritta. Dominando il paesaggio da questo piedistallo – l’altezza riportata sulla tua carta d’identità – canalizzi verso il cervello i dati provenienti dal sistema visivo, propriocettivo e vestibolare. Poi ti sporgi di nuovo in avanti, e di nuovo non fai nulla. E di nuovo: cadi.
Nel normale corso degli eventi, non riflettiamo su tutto questo cadere e rialzarsi. Lo facciamo e basta. È parte del nostro ritmo naturale. È l’esperienza che abbiamo dell’universo alla scala della nostra specie. “Non cadere giù” è il nostro standard nella realtà quotidiana. Va al di là di ciò che chiamiamo scienza: ricorda l’epoca dei filosofi-scienziati, dei filosofi naturali, dei Nuovi Filosofi, degli antichi filosofi e dei costruttori di miti.
Il filosofo americano Mel Brooks ha detto: “Tragedia è quando mi taglio un dito. Commedia è quando cado in un tombino aperto e muoio”. L’ugualmente stimabile filosofo inglese Alfred Hitchcock traccia la stessa distinzione, “la linea sottile fra tragedia e commedia”, in un’intervista televisiva del 1972. Chiama in causa lo stesso esempio di Mel Brooks, “la vecchia scena dell’uomo che cade in un tombino”. Hitchcock costruisce la scena alla sua solita maniera, impassibile e ponderata. L’uomo indossa un cappello a cilindro, sta leggendo un giornale e sta passeggiando – “e improvvisamente scompare nel buco! E tutti ridono a crepapelle. Ma” – Hitchcock si sporge in avanti, come se volesse guardare giù nel buco – “provi a guardare meglio. Ha una ferita in testa. Perde sangue. Chiami un’ambulanza”.
Stop!
Hitchcock si mette dritto e riassume il concetto: “Scivolare su una buccia di banana può essere molto pericoloso”.
Brooks e Hitchcock erano due registi: non è una coincidenza che abbiano scelto entrambi un esempio visivo per illustrare la differenza tra commedia e tragedia. Ma non è una coincidenza neanche il fatto che abbiano scelto lo stesso esempio. Cadere in un tombino è il classico esempio di caduta sul didietro – proprio come scivolare su una buccia di banana. Non che la paura di cadere in un tombino o di scivolare su una buccia di banana siano universali. Ma avere un didietro lo è, cosi come la paura di cadere su di esso.
Hitchcock aveva ragione: butta qualcuno in un tombino e magari se la caverà. Ma se sei un autore di commedie o tragedie, e vuoi alzare la posta in gioco teatrale, devi pensare su scala molto grande. Una scala più alta. Quindi sostituisci la strada con un dirupo, perché un dirupo è, per i tuoi scopi, un tombino più alto. E se il dirupo è sufficientemente alto – e deve esserlo, altrimenti dove starebbe il dramma? – il destino di un personaggio posto in prossimità di esso è: vita o morte.
Nelle commedie, la minaccia di caduta non è reale: in effetti, la non minaccia è parte del gioco. I personaggi dei cartoni animati cadono in continuazione da dirupi, e trovano sempre il modo di sopravvivere. Un cratere a forma di coyote nel canyon di un cortometraggio dei Looney Tunes non indica la scomparsa definitiva dell’antagonista, ma solo il passaggio alla scena successiva, in cui Willy il Coyote farà il suo ritorno sano e salvo. Nel cortometraggio delle Merrie Melodies del 1941, The Heckling Hare (Volo a caduta libera), Bugs Bunny e Willoughby il cane triste cadono da un dirupo, e continuano a cadere. Nemici solo pochi istanti prima, ora si abbracciano l’un l’altro, urlando e cadendo, urlando e cadendo. Cadono per quarantuno secondi – forse la caduta più lunga nella storia del cinema. Poco prima di arrivare a terra, si raddrizzano un po’ in modo da scendere con i piedi verso il basso, e atterrano dolcemente.
“Vi abbiamo fregati, eh?” ci apostrofa Bugs Bunny, sbucando dalla quarta parete. Be’, non proprio. Ci avrebbero sorpresi se fossero morti. Il gran finale sta nel come ingannano la morte.
Fanno l’impossibile: respingono la gravità.
I personaggi sui dirupi nelle tragedie sottostanno a leggi diverse. Se devono sopravvivere, lo fanno nel modo più impegnativo. A differenza dei cartoni animati, non possono negare l’esistenza della gravità. Devono sconfiggere la gravità. Non possono comportarsi come se una caduta non avesse conseguenze fatali. Non possono cadere in piedi. Per prima cosa, non devono cadere. Devono aggrapparsi alla vita. E anche questo non è abbastanza.
Poiché gli autori dei romanzi d’appendice del diciannovesimo secolo volevano tenere i lettori sulle spine in attesa della puntata successiva, dopo una settimana o un mese, hanno inventato un espediente che in seguito assunse il nome di cliffhanger (appeso a un dirupo). Il romanziere inglese Thomas Hardy è forse il primo autore ad appendere letteralmente un personaggio a un dirupo, alla fine del capitolo XXI di Due occhi azzurri, comparso sul Tinsley’s Magazine tra il settembre del 1872 e il luglio del 1873. “Knight”, conclude Hardy descrivendo la relazione tra il suo protagonista e il promontorio, “è ora letteralmente appeso per le braccia” – e lì, sospeso tra la vita e la morte, Hardy lascia Knight, e tutti noi, in sospeso.
Hitchcock fa ripetuto uso di questo espediente viscerale con i suoi spettatori, definendo perfino una corrispondenza tra la statura morale del personaggio e l’altezza: l’eroe Cary Grant aggrappato a una parete del Monte Rushmore in Intrigo internazionale che riesce a tornare su; il cattivo Lloyd appeso alla Statua della Libertà in Sabotatori che perde la presa e precipita per cento metri verso il porto; il moralmente compromesso James Stewart alla fine di Vertigo – La donna che visse due volte, in piedi sul cornicione di una torre campanaria, che guarda in basso il corpo di una vittima delle sue ossessioni, occupa una specie di purgatorio a mezz’aria: guarito, ma senza cuore.
Negare la gravità o sfuggire a essa è opportuno se cerchi di non cadere. Ma se invece cerchi di salire, devi fare qualcosa di altrettanto eroico: devi vincere la gravità.
Quando Stanlio e Ollio cercano di trasportare un pianoforte su per 131 gradini, nel loro cortometraggio del 1932 La scala musicale, solo per vederlo scivolare giù, e poi spingerlo di nuovo su per vederlo riscivolare giù, e così via, stanno omaggiando Sisifo. Le variazioni sul tema sono divertenti – il piano scivola sulla schiena di Ollio, Stanlio scalcia una balia con una carrozzina che maledice la sua sfortuna, un poliziotto dà una botta in testa a Stanlio con un manganello – ma il tema in sé è eterno.
Quale sia questo tema, è oggetto di interpretazione. Normalmente, il supplizio di Sisifo è simbolo di futilità e la “fatica di Sisifo” è diventata proverbiale. Ma che altro possiamo fare, nei panni di Sisifo o di Stanlio e Ollio: non risalire la collina? Considera il supplizio di Sisifo nel contesto del vincere la gravità, e diventerà una specie di nobile intento – un simbolo di valore, non di futilità.
L’espediente narrativo del cadere e risalire funziona perché, sia che guardiamo un film sia che camminiamo su un marciapiede, la tensione nel trovarsi a mezz’aria è reale, e si può risolvere solo tornando con i piedi per terra. Perché l’enigma della Sfinge – Qual è la creatura che cammina su quattro gambe al mattino, su due a mezzogiorno e su tre alla sera? – è cosi duraturo? Non solo perché la risposta – l’Uomo – evoca l’inevitabilità dell’invecchiamento, ma per come coglie l’essenza di tale verità. Il suo effetto Aha! proviene dalla nostra innata e inconscia consapevolezza che la vita è una lunga salita e discesa. Abbiamo inserito la gravità nella forma narrativa stessa: la salita e discesa dell’enfasi drammatica.
E dunque ripetiamo, passo dopo passo, un ciclo eterno di atti impavidi e di rese. Di paura e coraggio. Di cadute e non cadute. Di conservazione dell’equilibrio. Proprio come l’universo.
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