Da Resident Evil fino a Death Stranding: tutta l’importanza degli “spazi sicuri” e dei luoghi di quiete nell’universo dei videogiochi.
In copertina un’opera di alberto burri, oggi all’asta da pananti casa d’aste
“Chiudiamo fuori la notte! Forse temete ancora le nebbie oscure e le ombre minacciose degli alberi e le acque profonde e gli esseri malvagi. Non abbiate più paura! Per questa notte siete sotto il tetto di Tom Bombadil” – Il Signore degli Anelli, La Compagnia dell’Anello
L’eroina, inseguita da creature aberranti, trova rifugio in una delle stanze del grosso edificio nel quale si trova. L’arredamento è spartano, un letto ad una piazza, un vecchio armadio, poi un tavolo sul quale è poggiata una macchina da scrivere. L’aria, scossa fino a pochi attimi prima da una tensione opprimente, si fa lieve. Nella stanza aleggia una musica malinconica, delicata come la luce che emana la lampada ad olio poggiata su una cassa di legno lì vicino. La luce calda ti fa sentire rilassata, appare sullo schermo.
Sa che può concedersi una pausa e – finalmente – riposare. La camera nella quale si trova è sicura, lo sa. Anzi, non può sapere niente, perché l’eroina è una massa di sprite e pixel, un asset grafico senza coscienza. L’eroina è solamente l’avatar di una persona che dietro uno schermo sta giocando a Resident Evil.
Il senso di pace e sicurezza dei save points (punti di salvataggio) di Resident Evil (da adesso RE) sono diventate, negli anni, una delle caratteristiche più riconoscibili della saga survival horror di Capcom – nata nel 1996 su Playstation.
-->In RE i save points non sono dei semplici segni extra-diegetici lasciati dagli sviluppatori, ma stanze nelle quali poter trovare un rifugio a tempo indeterminato, oltre che salvare lo stato della partita.
Nel linguaggio videoludico queste stanze si chiamano safe rooms: un luogo ripetibile nell’arco narrativo, un elemento di progressione che serve per avere un momento di pace, salvare la partita – in quel caso è sinonimo chiamarle save room -, fanno da hub o da teletrasporto. Le funzioni di una safe room sono una o tante e dipendono, semplicemente, dal videogioco stesso e da chi lo ha creato.
Diceva in un’intervista a PC Gamer il director di RE 2, Kazunori Kadoi, che le safe room nei survival horror si assumono il compito di spezzare una tensione che altrimenti, se costante, diverrebbe inutilmente stressante. Nonostante i tanti i capitoli della saga la save room di RE non ha mai tradito la sua funzione: “I don’t think we should ever break the rules as far as letting the player be attacked and hurt in the safe room. […]”. Rendere una safe room una trappola sarebbe stato tirare un brutto scherzo al giocatore, rompere una regola non scritta. La geometria del luogo sicuro non fa altro che rimarcare quello che c’è dietro i suoi confini, ovvero il pericolo costante.
Il primo videogioco su console che ha dato la possibilità di salvare lo stato della partita è stato The Legend of Zelda (1986, Nintendo) su NES (Nintendo Entertainment System). Una batteria permetteva di scrivere su una memoria non-volatile lo stato. Nei dintorni del 1986 giochi come il primo Metroid o Mega Man potevano essere ripresi da un determinato livello tramite delle password che venivano rivelate avanzando nel gioco.
Da quegli anni in poi i videogiochi, quando raccontano il viaggio dell’eroe, fanno spesso uso del save point, artefatto in-game col quale poter salvare. Nei JRPG (il gioco di ruolo giapponese) i save point da raggiungere sono stati un elemento indispensabile: chi ha giocato a Final Fantasy VII si ricorderà del punto di domanda galleggiante. Questi segni grafici non solamente concedevano di tirare il fiato dopo una mezz’ora passata a sconfiggere mostri, ma davano la possibilità di staccare con la partita stessa.
Nella saga di Dragon Quest (datata quanto Zelda e riconoscibile per i personaggi disegnati da Akira Toriyama) il save point è una chiesa, un luogo che oltre ad inserirsi come momento diegetico della storia, ha una traccia musicale tutta per sé, che diventerà un classico delle soundtrack videoludiche. Per tutta la serie il modo per salvare la partita rimarrà sempre quello, al punto tale da farsi uno dei marchi distintivi della saga.
Ma in Dragon Quest le chiese si trovano quasi sempre in villaggi o luoghi generalmente abitati, che già garantiscono un senso di sicurezza – al di là della mera possibilità di salvare la partita: un contesto diverso dalla safe room di un gioco action come può esserlo Resident Evil, dove il save point si pone con una natura differente. È un tratto strategico nei JRPG, posizionato in luoghi “tattici” della mappa, mentre è pausa dalla frenesia (o dall’orrore) in giochi come Silent Hill 3.
La safe room è un pezzo di terra che fa da enclave per chi ci abita momentaneamente, circondato da stati di pericolo costante. Scrivo abitare con una certa pretesa che mi porta all’uso che ne fa Martin Heidegger ma, per arrivarci, farò un giro lungo.
Le safe room si ritrovano nei videogiochi con un forte impianto narrativo. Non sono l’equivalente di una partita a Tetris o Scacchi, che hanno una profonda struttura competitiva ma che è priva di quella narratologica. Le safe rooms sono luoghi inscritti in un mondo che si fa ri-raccontare, giochi il cui narrative design li ha resi un esperienza da tramandare per via orale come una storia qualsiasi. Sono videogiochi la cui trama, dopo averli vissuti, possiamo raccontare nello stesso modo – tono ed enfasi – con il quale faremmo raccontando uno dei canti dell’Odissea. Per dirla con una citazione, “più grande è la nostra voglia di raccontare la storia di un videogioco, maggiore è l’intensità con la quale lo abbiamo esperito.”
La considerazione è di Marie Ryan – studiosa di narratologia e cybercultura – che ha scritto un saggio che si chiama Avatars of Story, nel quale ha delineato dei tipi interattivi che si manifestano nel rapporto tra un soggetto umano e il mondo virtuale. In uno di questi, l’internal-ontological, il giocatore è situato all’interno dello spazio e del tempo, le sue azioni determinano vita, morte e eventi all’interno del mondo virtuale. La particolarità di una struttura internal-ontological è questa metanarrativa del soggetto giocante conseguenza di un insieme di possibilità non lineari di interazione. Per esempio una partita a Skyrim (2011, Bethesda) potremmo raccontarla così: “girovagando per le locande di Windhelm, ho incontrato un uomo che si chiama Aventus Aretino. Quella stessa notte uno sconosciuto è apparso al fianco del mio letto e mi ha proposto di entrare nella Confraternita Oscura…”. La linearità del racconto è figlia di un’esperienza che non è lineare, ma di un insieme di scelte che abbiamo fatto più o meno consapevolmente. Nello specifico, per dirne una, quella di dormire in una locanda della città.
L’impianto narrativo di un videogioco è lo storybuilding – frammentato, guidato dagli eventi, generato dagli atti del giocatore, collaborativo. Lo storytelling è quell’operazione che fa il giocatore quando racconta la sua avventura in Bioshock o The Witcher. Molti di questi prodotti condividono la forma archetipica del viaggio avventuroso (un eroe che ha un arcinemico da sconfiggere, qualcuno da salvare, un tesoro da scoprire, etc), quella tanto citata nei classici Joseph Campbell (Il viaggio dell’eroe) e Vladimir Propp (Morfologia della Fiaba).
Nelle strutture internal-ontological convivono tre tipi di tempo: quello del mondo virtuale, che scorre di pari passo con le azioni del giocatore in cui viaggia/esplora, quello dei combattimenti e quello sospeso in cui l’utente ha messo in pausa il gioco e/o sta visitando dei menù di opzioni.
Come le cut scene, che con ambiguità fanno scorrere il tempo in un modo tutto loro (la storia va avanti mentre il giocatore sta fermo, deprivato delle sue azioni), anche i safe spaces sono uno spazio liminale.
Quando si parla di luoghi di rifugio, di (momentaneo) riposo e sicurezza, si parla di pratiche di spazialità, di interazione tra un soggetto e il mondo virtuale. E spesso il rapporto tra avatar e mondo virtuale è un rapporto burrascoso, basato sull’esplorazione perigliosa, di pericoli sempre dietro l’angolo, di forze benigne e maligne che si affrontano, di terre da conquistare o liberare. Abitare un mondo ostile significa costruirsi una casa rifugio. Abitare è condizione basilare dell’esistenza come forse intende Heidegger, “Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire” (Costruire abitare pensare, 1951), una cosa che i videogiocatori fanno nelle simulazioni virtuali. Abitano quando costruiscono la fattoria ereditata dal nonno deceduto in Stardew Valley o lo fanno quando coltivano relazioni con i propri vicini in Animal Crossing.
Per dirla con un intervento di Daniel Vella in Ludotopia – Places, Spaces and Territories in Computer Games esiste un modo di abitare estiale (da Estia, dea greca della casa e del focolare). In questi giochi, come ad esempio Minecraft, possiamo decidere di costruire una casa che ci garantisca sicurezza dai pericoli della notte (nel caso di Minecraft sono gli zombi, gli erranti e via così). Ma c’è un modo di abitare ermetico (dal dio messaggero Ermes) che si rifà al movimento verso l’esterno, un errante abitare-fuori-da-casa. Spesso succede che pratiche estiali ed ermeticali si sovrappongono: in Mass Effect (2007, Bioware) viaggiamo il cosmo sulla Normandy, una nave spaziale che fa da hub per organizzare le missioni e avere relazioni con il resto dell’equipaggio. La Normandy è chiaramente una casa, ma mobile, che se da un certo punto di vista garantisce quel sincero senso di comfort e sicurezza che una dimora sa dare, da un altro punto di vista è un oggetto minuscolo nell’abisso stellare, un rifugio che viaggia l’universo pieno di pericoli.
I safe places, come in generale i momenti di pausa, sono interstizi tra l’estiale e l’ermetico, perché interrompono il movimento del protagonista nella storia. Le pause hanno un valore narrativo, rappresentano l’esperienza del movimento spazio-luogo, luogo che riceve del valore percepito che altrimenti ne sarebbe privo. Videogiochi come The Legend of Zelda: Breath of the Wild (2017, Nintendo) o come un capitolo della saga di Elder Scroll, ovvero tutti quelli esplorativi o d’avventura o di ruolo si basano su un impianto che è quello dell’essere in movimento per gran parte del tempo. Prendersi una pausa (magari in una safe room) è un gesto che suona sovversivo – perché atto di interruzione. ICO (2001, Team Ico) è la storia di un bambino che a causa della sua maledizione (nato con le corna) viene abbandonato in un castello. In quel luogo sinistro e infestato incontra Yorda, una ragazzina che decide di salvare. In ICO il viaggio è interrotto dalle pause in cui ci si siede su delle panchine in pietra, che il giocatore deve fare per salvare la partita. Ma sedersi con Yorda, nonostante non abbia nessun significato esplicito, è un atto meccanico che si carica ogni volta di qualcosa di emotivamente sontuoso.
In opere come Dark Souls o Dragon’s Age l’idea di sentirsi a casa passa per l’elemento fondamentale del fuoco. Il falò è un elemento ricorrente nelle storie. Nei film le citazioni sarebbero sterminate (Stand By Me, Kill Bil, Easy Rider, etc). Nei videogiochi il falò è un elemento che richiama quasi sempre all’immaginario del cavaliere nel mezzo di un’impresa, di lontano retaggio arturiano. È l’eredità nei confronti di Dungeons&Dragons, che influenzò pesantemente tutti i videogiochi di ruolo occidentali dei primi anni ‘90.
Chiaramente la letteratura di fugaci quiete nel mezzo di un impervio percorso ne è piena: ne Il Vecchio e il Mare il protagonista Santiago si riposa con i remi in braccio, sognando leoni da cacciare; Huck Finn conosce il suo amico Jim mentre si rifugia da una tempesta.
Nell’Odissea di Omero c’è un personaggio che viene ricordato proprio per il momento di ristoro che concede all’impresa di Ulisse, Nausicaa, la figlia del re dei feaci.
Il Signore degli Anelli regala alcuni dei momenti più memorabili sul tema: la casa di Tom Bombadil e Baccador, per dirne una, sembra a tutti gli effetti una safe room. Pochi momenti prima i protagonisti hanno rischiato di essere fatti prigionieri dal Vecchio Uomo Salice e nella dimora di Bombadil possono recuperare fisico e sanità mentale. Fuori di lì il percorso li porterà nelle mortifere Tumillande e all’incontro con i nazgul.
Nell’underground dei sottogeneri musicali che infestano Youtube, vanno particolarmente di moda le compilation di tracce videoludiche, esplicitamente create per rilassare / studiare / lavorare al pc. Una forma di ambient che negli ultimi dieci anni funziona molto tra millennials e gen Z. Non posso non citare 3 Hours of Relaxing Super Nintendo Music.
Della serie fanno parte anche alcune compilation a tema colonne sonore survival horror e quelle sulle save rooms di Resident Evil, come questa. Leggere i commenti lasciati dagli utenti che hanno ascoltato le compilation può sembrare un’operazione inutile, se non fosse che farlo ci fa rendere conto di come questi videogiochi – e nello specifico le loro safe room – si siano cristallizzate nella testa di chi li ha vissuti.
Dio, mi fa tornare indietro nel tempo. Mi ricordo della mia me, quando ero giovane, seduta al tavolo della cucina e giocarci (a RE, ndr), mentre mia madre cucinava. La vita era più semplice.
Un anno fa stavo avendo problemi a lavoro, dovevo affrontare stress tutti i giorni. Il mondo nel quale vivevo era cupo e non so come ascoltare per un’ora questa con indosso delle cuffie mi ha salvato.
Sono felice di aver salvato il gioco.
Mi ricorda i caldi pomeriggi d’estate passati a giocare, buttato sul divano, nella mia cameretta, con le tapparelle mezze chiuse… Era il mio luogo sicuro, ero libero dalle preoccupazioni, giovane e pieno di salute, ora è tutto uno schifo.
Ne trovereste centinaia così. In queste testimonianze la safe room non è solo lo spazio in cui poter salvare la partita, ma diventa un luogo che si associa ad un pezzo di vita extraludico. La safe room diventa un’area condivisa dotata di valore biografico e psicologico: ci ricorda lo spazio sicuro che nelle tecniche di psicoterapia il paziente si costruisce, nel quale poter entrare nei momenti di difficoltà emotiva. Seppur utilizzato specialmente nell’ EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) quando bisogna trattare un disturbo da stress post-traumatico, il luogo sicuro è un elaborato mentale che si può imparare a gestire in autonomia. Molti di noi hanno dei safe place che frequentiamo da anni e che non ricordiamo quando li abbiamo costruiti-abitati per la prima volta. Leggendo i commenti sulle compilation musicali a tema safe rooms, così come la loro organizzazione semantica all’interno del videogioco, non posso non pensare a un particolare gioco di ritorni. I game designer quando costruiscono un save points del genere, a livello musicale ed estetico stanno riproponendo lo stesso meccanismo degli spazi sicuri. In questa estetica si combinano elementi che abbiamo visto, come ad esempio i falò, gli anfratti, le rovine di una civiltà.
Sarebbe tedioso elencare roboticamente tutte quelle che mi sono capitate sotto gli occhi, ma playlist come questa o quest’altra sono l’immaginario che sto cercando di descrivere che, assieme alle compilation sulle safe rooms dei survival horror, fanno parte di un macrogenere che ha impattato notevolmente sugli ascolti underground di un paio di generazioni.
Negli ultimi tempi ho passato qualche ora a giocare ad Atomic Heart. Il videogioco è ambientato in un ucronia in cui l’ Unione Sovietica, grazie ad una mirabile scoperta scientifica, è riuscita a vincere tutte le guerre possibili e a raggiungere la piena automazione. Qualcosa va – ovviamente – storto e l’intero gioco è attraversato da un senso di disagio e oppressione che si affianca a luoghi e paesaggi utopistici e luminosi. La follia che affligge tutti i robot di Atomic Heart ha intaccato anche la safe room. Agli elementi ormai più volte citati, come una musica rilassante, ci si ritrova di fronte ad un falso e posticcio panorama naturale. Nella safe room di Atomic Heart possiamo migliorare/creare armi utilizzando un box che contiene una IA di nome Nora: ha perso stabilità come le altre intelligenze artificiali, mangia uomini e li desidera sessualmente. Un elemento di inquietudine in una safe room che serve, soprattutto nelle prime ore di gioco, ad esaltare la sensazione di situazione di folle apocalisse.
Nell’opera di Hideo Kojima, Death Stranding, il protagonista viaggia parti di America a piedi in situazioni infernali, dove vita, morte, desolazione ed incubi sono la quotidianità. I rari momenti di serenità sono vissuti in dei rifugi, futuristici, spogli, lucidamente lugubri. In Death Stranding si può salvare la partita dal menù delle opzioni, per cui le sue safe rooms hanno un significato esclusivamente diegetico.
Nella safehouse di Death Stranding si possono fare docce calde per pulirsi dal fango, ascoltare musica, dormire su un comodo letto per ore. Ma sono luoghi che nel tempo sovvertono l’assioma di sicurezza e tranquillità, che instaurano sensazioni di paura e disagio, attraverso alcuni eventi legati alla storia principale e che vengono scatenati se si eseguono alcune azioni. Può capitare, ad esempio, di scrutare un’ombra nella doccia o di osservarsi allo specchio con indosso una strana maschera d’oro, per poi risvegliarsi di soprassalto. Nelle sue safe room Death Stranding ti ricorda che puoi farti tutte le docce che vuoi, ma non puoi scrollarti quello strano senso di disagio che ti rimane addosso per tutta l’esperienza. La musica nelle stanze sicure di Death Stranding è sempre rilassante ed evocativa, ad esempio ci sono molte tracce dei Low Roar (synth e dream pop, diciamo). Kojima (tanto per cambiare…) gioca con il videogiocatore, in Death Stranding sembra proprio abbia voluto creare la safe-room percepita dai Millenial/Gen Z, cioè uno spazio in cui fare i conti con la propria vita. Una vita in pausa con o senza mostri, zombie, non-morti, draghi, quel che vi pare.
Ogni volta leggere un suo articolo è come leggere un romanzo..aspetti di arrivare alla fine. Bello il paragone con Santiago del Vecchio e il mare o con Nausicaa di Omero o ancora col Signore degli Anelli. Io sono uno di quelli che ” ..ha cristallizzato nella testa. ..”questi video giochi, le loro salfe room..bravo!!!
Bellissimo articolo.
Articolo interessante , mix di letteratura e video giochi..molto bravo