L’uomo ha un impatto devastante sulla natura del pianeta. Ha alterato il clima, acidificato gli oceani, avviato quella che probabilmente sarà la settima estinzione di massa. L’ecologo inglese Chris D. Thomas si chiede se in questo scenario catastrofico non si nasconda anche qualcosa di buono.
IN COPERTINA e nel testo: Sandro CHia, Senza titolo, Asta pananti online
Questo testo è tratto da “Il mondo di domani” di Chris D. Thomas. Ringraziamo Aboca Edizioni per la gentile concessione.
di Chris D. Thomas
Oscar Wilde era orgoglioso di essere il più anticonvenzionale possibile, ma quando ha liquidato la natura come “un luogo dove gli uccelli volano non cotti” e ha spiegato che “se la natura fosse stata comoda, l’uomo non avrebbe mai inventato l’architettura”, si è limitato a esprimere l’opinione prevalente del XIX secolo.
Gli piaceva prendere in giro gli urbanisti che si ritiravano in campagna durante il fine settimana; tuttavia, essi condividevano il suo punto di vista sulla separazione tra natura e umanità. L’unica differenza era che Wilde voleva fuggire dalla natura, mentre loro volevano andarle incontro.
Guardando oltre le battute, Wilde, in questo caso, stava dando voce a una norma sociale. La distinzione tra natura e umanità era considerata una separazione creata da Dio per la maggior parte della popolazione che credeva in un Dio e a quel tempo era ancora ampiamente accettata dai non credenti.
Il mito della separazione persiste ancora oggi, nonostante il fatto che Darwin e Wallace abbiano pubblicato la loro teoria dell’evoluzione quando Wilde era ancora un bambino, oltre 150 anni fa. Per esempio, la lingua inglese mi impone di riferirmi a un “chi” quando si parla di un essere umano, ma a un “quale” o a un “quello” quando si parla di animali e piante, come se fossero pietre. I programmi di avventura e i documentari sulla fauna selvatica servono spesso una dieta a base di natura idealizzata e separata. La tutela della natura è comunemente rappresentata come un’attività in cui l’uomo fa “cose buone” per la natura, mentre altri hanno una visione più utilitaristica che rappresenta la natura come qualcosa “di esterno” a beneficio dell’uomo. Gli scienziati di solito trattano l’impatto umano come un fattore esterno di cambiamento piuttosto che come parte integrante del sistema. Il mito della separazione permea la scrittura scientifica e giornalistica a tal punto che si parla della storia naturale del nostro Pianeta addirittura come fosse diventata storia innaturale. Eppure sappiamo per certo che la specie umana si è evoluta naturalmente, quindi gli esseri umani devono essere naturali per forza. Noi siamo parte della natura. Accettare questo, la prospettiva che “l’uomo rende la natura meno naturale” equivale a dire che “la natura rende la natura meno naturale”. Ciò non ha senso.
Prendiamo in considerazione il passato. La catastrofe che ha colpito il T-Rex e gli altri enormi dinosauri è stata insolita, in quanto ha avuto origine nello spazio, mentre la maggior parte delle altre estinzioni di massa nella storia della Terra sembrano essere state causate da cambiamenti naturali interni al sistema terrestre stesso, alcuni geologici e altri biologici. Le fuoriuscite di lava, i cambiamenti climatici che alterano la posizione dei continenti e l’esaurimento dell’ossigeno negli oceani hanno causato estinzioni di massa quando questi eventi geologici cataclismatici hanno creato condizioni che superavano il limite di tolleranza della maggior parte delle specie allora in vita. Altri episodi di estinzione si sono verificati quando si sono evoluti tipi completamente nuovi di esseri viventi. L’evoluzione, oltre 2 miliardi di anni fa, dei cianobatteri in grado di intrappolare l’energia del sole, ha generato così tanto ossigeno libero (un prodotto di scarto della reazione chimica) da rendere l’atmosfera e gli oceani tossici per la maggior parte degli abitanti della Terra presenti all’epoca. Quell’evento biologico ha aperto nuove opportunità evolutive per forme di vita multicellulari che sviluppano un metabolismo basato sull’ossigeno. Grilli, granchi, seppie, merluzzi, caimani, corvi e ghepardi non sarebbero mai esistiti se non fosse stato per l’ossigeno.
Oggi, il rapido aumento del tasso di estinzione è nuovamente trainato da un evento evolutivo senza precedenti che si verifica all’interno del sistema Terra: l’ascesa di un primate insolitamente intelligente e linguisticamente capace. Circa 7 milioni di anni fa, i nostri predecessori erano primati africani. Erano scimmie intelligenti e socievoli, che vivevano prevalentemente a terra ma si arrampicavano sugli alberi per nutrirsi e utilizzavano un piccolo numero di strumenti di base. Se vedessimo un esemplare vivente di quell’animale, saremmo unanimi nel dire che non era umano e che faceva parte del mondo naturale. Ma ha continuato a evolversi. Possiamo supporre che due o più popolazioni di questa scimmia si siano separate, vivendo in regioni geografiche dell’Africa dove il clima, la vegetazione e la disponibilità di cibo erano diversi. Queste popolazioni si erano così differenziate, che le scimmie di ogni regione non avevano più esattamente lo stesso comportamento e gli stessi attributi fisici, allo stesso modo in cui oggi riconosciamo gli esseri umani provenienti da diverse parti del mondo. Con il passare del tempo, queste popolazioni separate alla fine si sono divise in due o più specie affini, nonostante talvolta si siano ancora ibridate tra loro. Siamo comunque d’accordo sul fatto che non si trattava di esseri umani e che facevano parte del sistema biologico naturale.
Molte nuove scimmie sono spuntate fuori nel corso del tempo; di queste scimmie sopravvivono oggi solo due rami, uno che ha condotto agli attuali esseri umani, l’altro che ha generato scimpanzé adattati alla vita nella foresta e bonobo (la nostra ascendenza comune con le altre grandi scimmie risale a un’epoca ancora più antica) che si sono evoluti con dita allungate e una maggiore capacità di oscillare tra gli alberi. La nostra linea di sviluppo è uscita dalla logica degli alberi, gli individui hanno iniziato a correre sulle zampe posteriori, hanno perso i peli del corpo, hanno cominciato a vivere in gruppi sociali complessi, hanno sviluppato massa cerebrale, hanno elaborato strumenti più sofisticati, hanno controllato il fuoco e hanno acquisito una comunicazione complessa. Questi sviluppi evolutivi e culturali, a loro volta, hanno portato alle progressive innovazioni sociali degli ultimi mille anni, che comprendono la nostra capacità di usare linguaggi molto complessi, di addomesticare animali, allevare piante e costruire città, così come la nostra capacità di sviluppare religioni, dittature, monarchie, democrazie, burocrazia, reti commerciali e altri sistemi di cooperazione e controllo su scala sempre più ampia.
-->Quando contempliamo la biologia e l’impatto dell’uomo sulla Terra, non c’è dubbio che l’Homo sapiens risulti un animale estremamente insolito. Ma a che punto della sequenza ininterrotta di generazioni potremmo affermare che gli esseri umani hanno cessato di far parte della natura e che gli effetti dell’attività degli esseri umani sul resto del mondo si sono fatti innaturali? Non c’è alcuna giustificazione scientifica o filosofica che possa essere usata per dividere, in due categorie qualitativamente distinte, questo continuum di scimmie che diventano animali umani. L’evoluzione ha avuto luogo per un tempo sufficiente a renderci riconoscibili come esseri umani e rendere gli scimpanzé identificabili come scimpanzé. Per molti versi, siamo ancora molto simili, del resto abbiamo condiviso gli stessi bis-bisnonni (e aggiungiamo ancora altri 250.000 bis). Gli scimpanzé, come accade agli umani, possono anche diventare grigi e perdere un po’ di peli con l’età, vivono in gruppi sociali complessi, a volte corrono sulle gambe posteriori, hanno cervelli estremamente grandi e usano strumenti. Possono comunicare a sufficienza per trasmettere informazioni culturali, intraprendere la caccia di gruppo e organizzare l’equivalente della guerra tra comunità di scimpanzé.
Più recentemente, i nostri antenati umani moderni, accoppiati con i Neanderthal, hanno sviluppato la capacità di digerire il latte da adulti e hanno sviluppato una pelle rosata. La pelle chiara ha permesso alle nostre antenate femmina di produrre sufficiente vitamina D per sostenere la crescita dei loro figli durante la gravidanza e di allattare nel buio inverno settentrionale. La popolazione europea stava gradualmente crescendo separata dall’atavica popolazione etiope da cui abbiamo origine. Le differenze che osserviamo tra le popolazioni umane che vivono al di fuori dell’Africa sono emerse negli ultimi 60.000-100.000 anni, ovvero 2.500-4.000 generazioni fa (1-2% della separazione tra noi e gli scimpanzé) come risultato di nuove mutazioni genetiche, di una selezione naturale che favorisce alcune di queste mutazioni rispetto ad altre, di una migrazione continua e di un certo grado di ibridazione con altri tipi di esseri umani che già abitavano il continente eurasiatico. I comuni processi evolutivi naturali erano in atto. C’è la possibilità che, forse tra un milione di anni, si formino e si diffondano in tutto il mondo molte specie umane diverse, proprio come è accaduto con la popolazione di un antico Homo che si è evoluta in una distinta specie nana sull’isola indonesiana di Flores, dove è sopravvissuta fino al suo sterminio (forse a opera di Homo sapiens) circa cinquantamila anni fa. Questa separazione in molte specie umane diverse avrebbe potuto essere il nostro destino, se non fosse stato per il torrenziale movimento umano nel mondo che abbiamo visto in tempi recenti. La conseguenza degli spostamenti è che i geni umani presenti nel mondo stanno finendo di nuovo in un grande crogiolo simile a quello di Pangea. L’umanità sta intraprendendo un nuovo viaggio evolutivo.
La certezza scientifica che ci siamo evoluti dalle scimmie è assoluta (siamo ancora scimmie), così come è certo che siamo ancora in evoluzione e che l’evoluzione degli esseri umani è stata un evento perfettamente naturale nella storia della vita sulla Terra. Siamo stati in grado di superare la maggior parte delle malattie che, senza cure, ridurrebbero di numero la nostra popolazione, di progettare l’ambiente in modo da poter sopravvivere su gran parte della superficie terrestre e di acquisire dal mondo sempre maggiori risorse, abbattendo ad esempio i mammut e il resto delle bestie di grandi dimensioni che abbiamo spinto all’estinzione. I paesaggi mutati dall’agricoltura intensiva e l’architettura delle città che Oscar Wilde ha approvato in quanto frutto dell’evoluzione umana, hanno permesso il successo dei passeri, del Senecio di Oxford e di altre specie che vivono in questi ambienti. Tutto interamente naturale. La distribuzione di nuove specie che abbiamo trasportato in tutto il mondo è altrettanto naturale.
Il fatto stesso che continuiamo a concettualizzare una separazione tra umanità e natura oltre un secolo e mezzo dopo che Darwin e Wallace hanno sviluppato la loro “idea pericolosa”, implica che ci deve essere qualcosa di essenziale a determinare il senso che diamo al termine “altro” ogni volta che contempliamo la natura. L’elemento fondamentale che più ci contraddistingue è che ci siamo evoluti. L’evoluzione per selezione naturale in primo luogo ci ha fatto nascere ed è sempre l’evoluzione a renderci difficilmente accettabile l’idea che siamo semplicemente una parte del mondo naturale. L’evoluzione ci ha programmato – attraverso un complesso sistema di meccanismi biochimici, elettrici e genetici – per renderci adatti ad amare e a proteggere i nostri figli, i nostri compagni e una famiglia allargata, perché la loro sicurezza e la loro successiva riproduzione sono il mezzo primario con cui i nostri geni vengono trasmessi alla generazione successiva. Quell’amore è reale per noi, ma c’è una ragione evolutiva per cui lo proviamo. Collaboriamo con altri esseri umani che sono membri della nostra tribù e da essi impariamo, che si tratti della nostra comunità locale, della squadra sportiva, della scuola, del lavoro, della professione, del gruppo di coetanei, della nostra comunità religiosa o nazionale e tutto ciò avviene al fine della nostra sopravvivenza, per la nostra prosperità e, in ultima analisi, per trasmettere i nostri geni; questo tribalismo culturale evoluto viene mantenuto anche in individui che scelgono di non riprodursi. Combattiamo anche guerre sociali, economiche e fisiche con altri membri della specie umana per proteggere quello che ognuno percepisce come il bene collettivo. Gli altri esseri umani sono di cruciale importanza per ciascuno di noi, quindi è una semplice conseguenza dell’evoluzione che io e te reagiamo in modo più convinto agli esseri umani che nei confronti di altri animali e piante; siamo predisposti a trattare gli esseri umani come esseri separati dal resto della natura. I membri della nostra specie rappresentano i nostri potenziali compagni, discendenti, collaboratori e nemici. L’impressione di essere distinti e speciali non appartiene solo agli esseri umani. I leoni africani, i bisonti americani e le balene killer rispondono con forza agli altri membri della propria specie per le stesse ragioni. I membri della propria specie rappresentano potenziali compagni, prole, collaboratori e nemici. Ogni specie è speciale per se stessa medesima, perché da essa dipende la sopravvivenza dei geni di ogni individuo.
Questo ci mette di fronte a conflitti intellettuali tra le nostre concezioni razionali, istintive e culturali del mondo. La nostra valutazione razionale giunge alla conclusione che i principi naturali della fisica e della chimica hanno generato un insieme sempre più complesso di reazioni chimiche “evolute” e auto-perpetuanti, che chiamiamo vita biologica, senza uno scopo ultimo o un futuro prevedibile. Gli esseri umani ne fanno parte. La nostra logica istintiva o evoluta, che di solito è rafforzata dalla nostra cultura, è volta ad assicurare la riproduzione della nostra chimica mantenendoci al sicuro, difendendoci, riproducendoci con successo, proteggendo i nostri figli e parenti, assistendo coloro che potrebbero a loro volta assisterci e facendo baratti con coloro che hanno qualcosa di valore da offrirci. Nella maggior parte dei casi, questa logica interna o istintiva domina il nostro pensiero e il nostro comportamento, perché è ciò che ci ha portato a esistere. Non sorprende, quindi, che la maggior parte degli attuali esseri umani distingua ancora oggi tra l’uomo e il resto della natura.
La nostra predisposizione evolutiva all’attenzione verso noi stessi e verso gli altri esseri umani ci rende molto più facile sviluppare filosofie in cui l’uomo è (in qualche modo) separato dalla natura, rispetto a orientamenti che prendono atto della verità: che ci siamo evoluti in modo del tutto naturale, siamo ancora animali e tutto ciò che facciamo al resto del mondo è naturale. Possiamo non essere soddisfatti di alcuni dei cambiamenti che stanno avvenendo come conseguenza della nostra esistenza al mondo, ma si tratta in ogni caso di processi naturali. Non solo ci siamo evoluti naturalmente, ma è evidente che le leggi della fisica, della chimica e della biologia non sono state abrogate quando gli esseri umani le hanno scoperte, le stiamo semplicemente usando per i nostri fini. Pensate ad alcuni dei cambiamenti che potrebbero portare le persone a concludere che il nostro impatto sul pianeta è innaturale. Sì, abbiamo provocato l’estinzione di molti dei più grandi animali terrestri, ma questa non è una novità. Molti animali di grandi dimensioni si sono estinti quando il Nord e il Sud America sono entrati in contatto tra loro, molto prima che gli esseri umani fossero in circolazione. Infatti, gli eventi di estinzione di massa negli ultimi 500 milioni di anni hanno principalmente condotto all’estinzione gli animali di grossa taglia. Queste estinzioni causate dall’uomo sono semplicemente una conseguenza del nostro agire come predatori ecologici.
Il trasporto delle specie per il mondo è il secondo punto. Gli esseri umani hanno accelerato il ritmo con cui i semi delle piante e gli animali sono stati trasferiti da un luogo all’altro negli ultimi tempi, ma non sono stati gli esseri umani a inventare i viaggi a lunga distanza. Costruire aerei è stata un’attività completamente nuova, ma il volo non è un’invenzione; siamo solo il primo animale ad aver sviluppato uno strumento fisico per farlo (a meno che non si contino piccoli bruchi e ragni che penzolano dai fili di seta e si fanno trasportare dal vento). Gli uccelli sono da sempre in grado di spostare semi, acari e malattie, e ciò accade da 50 milioni di anni, molto prima che la nostra presenza fosse una scintilla negli occhi dei nostri antenati proto-scimmia. Allo stesso modo, navi e veicoli hanno moltiplicato enormemente la velocità con cui le specie si muovono tra le diverse parti del mondo, ma non siamo stati noi a inventare il nuoto per solcare le acque; ricordiamoci che le tartarughe sono arrivate alle isole Galapagos, presumibilmente appese alla vegetazione galleggiante. Sulla terraferma, il movimento dei semi delle piante un tempo era mediato da mandrie di elefanti, ma ora è realizzato dall’uomo e dai suoi veicoli, oltre che dal commercio orticolo. Perché questo tipo di trasporto, se è ad opera di un mammifero (elefante) è percepito come più naturale del trasporto operato da un altro mammifero (umano)? Gli esseri umani agiscono semplicemente come “agenti di diffusione” per altri animali e piante, un processo che è in ogni caso completamente naturale.
La conseguenza del cambiamento climatico causato dall’uomo è che le specie si stanno gradualmente spostando dalle proprie aree geografiche verso i poli e le altitudini più elevate. Anche in questo caso, non si tratta di una novità. In ciascuno dei molti episodi in cui questo è accaduto in precedenza, ovvero quando il clima è cambiato (sia per motivi fisici che biologici), le specie di tutto il mondo si sono spostate. In conclusione, siamo noi oggi a trasformare la Terra. I dinosauri sono stati molto efficaci nel trasformare gli habitat prima del rinoceronte gigante e poi sono arrivati sulla scena gli elefanti, che successivamente sono stati spodestati dall’uomo, il quale rappresenta oggi il principale agente di alterazione. Quando gli esseri umani raccolgono il grano e il mais prodotti dai campi, non fanno nulla di fondamentalmente diverso dalle attività delle formiche tagliafoglie.
Questi incredibili insetti raccolgono le foglie e coltivano le colture fungine in nidi sotterranei, poi ne usano i frutti, ricchi di sostanze nutritive, per l’alimentazione delle loro larve in via di sviluppo. Quando beviamo il latte vaccino, facciamo la stessa cosa che fanno altri tipi di formiche, le quali bevono gli essudati nutrienti e zuccherini degli sciami di mosche nere, a cui badano come pastori in miniatura. Quando costruiamo capanne, case e dighe, non facciamo nulla di diverso dai castori che costruiscono con modalità simili. Quando usiamo nuove tecnologie genetiche per spostare i geni da una specie all’altra, operiamo un’estensione del trasferimento di geni che è stato precedentemente realizzato dall’ibridazione e da parassiti microbici e virali. Abbiamo soltanto portato queste stesse cose a nuovi livelli. Naturalmente, molti dei materiali specifici che usiamo sono nuovi e la complessità dei nostri strumenti e sistemi di comunicazione sono senza pari, ma non abbiamo inventato processi biologici completamente inediti. Anche se raggiungeremo qualcosa di diverso in futuro, sarà comunque una conseguenza della nostra precedente evoluzione naturale.
Il risultato di tutti questi cambiamenti quantitativi (ma non qualitativi) è un nuovo ordine naturale del mondo, in cui ogni sorta di popolazioni e specie vivono in luoghi che prima non abitavano. Sono nate nuove comunità biologiche, dagli acari della polvere che vivono nei nostri letti, ai microbi e agli invertebrati pelagici che si attaccano ai frammenti delle plastiche in galleggiamento sugli oceani di tutto il mondo. Nelle città vive e si evolve una enorme varietà di piante, invertebrati e persino vertebrati, sono state anche impiantate ex novo foreste per la produzione del legno. Le piante europee stanno crescendo in vaste aree dell’America del Nord e del Sud, grazie a noi che là le abbiamo trasferite; ovviamente non possono essere ricondotte in patria. Le falene che si annidano nel profondo della giungla del Sabah sotto il sacro Monte Kinabalu si sono spostate più in alto rispetto alle zone dove gli esseri umani hanno surriscaldato il clima e le remote barriere coralline si stanno modificando nei luoghi dove si trovano ad affrontare temperature più elevate e la crescente acidità del mare. Gli alberi delle foreste che crescono nelle profondità della giungla amazzonica hanno sperimentato nuove condizioni quali la perdita dei mammiferi più grandi che si nutrivano della loro vegetazione, l’aumento dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera e, fisiologicamente, cambiamenti decisivi del clima. L’impronta dell’impatto umano è onnipresente, ma i processi naturali dell’ecologia e dell’evoluzione in ogni caso funzionano ancora. Da un punto di vista biologico, gli individui continuano a nascere e a morire, le popolazioni crescono e declinano, e l’evoluzione avviene come sempre. Si tratta di processi naturali e regolari. Perché dovremmo considerare questi nuovi ecosistemi alterati dall’uomo come meno naturali dei processi ecologici ed evolutivi che ancora operano al loro interno?

Il mondo è un ambito in cui la combinazione specifica di specie e geni nei singoli luoghi può anche essere nuova, ma i processi biologici fondamentali in funzione sono sempre i medesimi. Mentre delineo lo stato attuale del mondo, sottolineo queste cose, perché potrei descrivere qualsiasi periodo di cambiamento ambientale avvenuto nel passato con parole identiche. Le stesse spiegazioni potrebbero adattarsi a ciascuna delle circa venti grandi oscillazioni del clima mondiale che si sono verificate negli ultimi milioni di anni. In altre parole, possiamo descrivere esattamente negli stessi termini l’impatto umano e non umano. Le specie si sono sempre spostate ed evolute da un luogo all’altro e lo hanno fatto in modo particolarmente rapido ogni volta che l’ambiente è cambiato, qualunque sia stata la causa.
Accettando che il cambiamento ecologico ed evolutivo sia il modo in cui funziona la natura, dobbiamo considerare la vita come una sequenza infinita di eventi, non un’unica immagine fissa di come essa ci appare oggi. Questa prospettiva dinamica della vita sulla Terra ci consente di accantonare la maggior parte della nostra retorica carica di sventura e di riconoscere che i cambiamenti che vediamo intorno a noi, compresi quelli che sono stati direttamente o indirettamente progettati dagli esseri umani, non sono per forza fondamentalmente migliori o peggiori di quelli avvenuti nel passato. Sono solo diversi. Possiamo trarre vantaggi dalle specie animali e vegetali, possiamo sfruttarle ovunque esse vivano, apprezzare le nuove specie dell’Antropocene, che stanno nascendo, e cercare soltanto di sistemare le cose che noi, come esseri umani, pensiamo necessitino davvero di un aggiustamento. Non è necessario sistemare le cose solo perché ci appaiono diverse da come dovrebbero essere secondo noi.
In ogni caso, non ha senso piangere per il latte versato. Gli apporti a ogni ecosistema, umani e non umani, non sono separabili tra loro. La realtà dei fatti è che gli unici luoghi dove possiamo tentare di proteggere le specie “naturali” del mondo da ulteriori perdite sono aree del mondo già alterate dall’uomo. Anche se oggi eliminassimo ogni essere umano dalla superficie del pianeta, non si potrebbe tornare a ciò che è stato una volta.
Dal tetto di quello che era stato un condominio di sedici piani, la paura dell’altezza mi dava le vertigini. Mi avvicinai al bordo della terrazza che non aveva parapetto, un punto panoramico sull’ex città ucraina di Pripyat e osservai dall’alto quel mondo post-umano. Alcuni rondoni, discendenti dei dinosauri con le piume, si libravano nell’aria e nidificavano nelle fessure degli edifici abbandonati. La sommità degli alberghi, delle scuole, di un ospedale e di una ruota panoramica spuntavano sopra il paesaggio boscoso, resti di un utopico mondo sovietico. Verso l’orizzonte, un nuovissimo e scintillante sarcofago in acciaio e cemento, era sospeso, pronto a sigillare l’ambiente dalle radiazioni del reattore nucleare numero 4 di Chernobyl. Come gli ultimi templi Maya che sono rimasti sepolti nella foresta quando le malattie in arrivo dall’Europa hanno iniziato a decimare la popolazione, contribuendo allo sterminio di una vasta e antica civiltà dell’America centrale, Pripyat è una lezione su quanto effimero possa essere l’impatto dell’umanità.
Trent’anni dopo il terribile disastro nucleare che ha colpito Chernobyl il 26 aprile 1986, Pripyat è una “città perduta” in divenire. Si tratta di una terra da cui le persone sono state allontanate. I gruppi di turisti in visita appaiono di tanto in tanto, intenti a osservare i gusci degli edifici da cui sono stati rubati gli oggetti di valore e a scattare toccanti foto degli oggetti appartenuti ai bambini, materiale cinicamente disposto a terra a questo scopo. C’erano anche addetti del personale di sicurezza e migliaia di lavoratori che a rotazione, con turni brevi per limitare l’esposizione alle radiazioni, lavoravano per smantellare e ricoprire gli ex reattori nucleari. A parte tutto questo, sul territorio era presente solo uno sparuto gruppo di contadini anziani, tornati alle loro piccole aziende agricole per trascorrere lì il resto della vita. Non sono luoghi completamente disabitati, ma quasi. Restano ancora alcuni punti caldi per le radiazioni, soprattutto sottovento, in direzione del luogo del disastro, ma queste aree sono abbastanza circoscritte nell’ambito di un paesaggio molto più vasto: 2.600 chilometri quadrati sul lato ucraino del confine e altri 2.165 chilometri quadrati in Bielorussia. La geometria impone che ben oltre il 90% della fauna selvatica viva in luoghi dove i livelli di radiazione sono tollerabili, ma che sono stati abbandonati dall’uomo. Questo vasto paesaggio è una finestra su ciò che potrebbe accadere alla Terra se l’uomo se ne andasse.
Mentre osservavo tutto dalla vertiginosa cima del palazzo, la zona vietata all’accesso si trovava al di sotto, punteggiata da monumentali relitti di umanità che sbucavano da un mare di verde. Oggi, a pochi chilometri di distanza dal reattore guasto, i falchi allevano i loro pulcini sulle sporgenze di una torre di raffreddamento abbandonata, lanciando richiami che riecheggiano nell’immenso spazio vuoto. Enormi e viscidi pesci gatto divorano il cibo che i turisti gettano nel canale, scavato per convogliare l’acqua dei sistemi di raffreddamento. Essendo proibita la pesca, questi pesci possono raggiungere la loro potenziale dimensione massima. Le avèrla, con il becco uncinato, le piume color ruggine, la testa grigia e la maschera nera sul muso, volano verso terra per catturare cavallette, lucertole e piccoli roditori, infilzando le loro prede su arbusti spinosi. Questi “uccelli macellaio”, dopo aver immobilizzato con successo l’insetto, triturano la vittima in bocconi digeribili. Le iridescenti farfalle imperatore si lanciano con i calabroni dorati e bruni a bere i dolci essudati di una quercia che segna l’ingresso di un vivaio abbandonato, rimasto seppellito sotto la chioma smeraldina della foresta. Il paesaggio è diventato la patria di un gran numero di cinghiali, alci, cervi, orsi e lupi che si nascondono durante le ore calde del giorno. Nell’area sono stati liberati dei bisonti europei, anche se esemplari ibridi. Quel giorno una cicogna nera volteggiava in alto nel cielo.
Trent’anni dopo il disastro, si possono osservare i benefici che derivano dal bandire l’attività umana da vaste aree. A un osservatore casuale può sembrare che la natura stia tornando a come “dovrebbe essere”.
Eppure non sta tornando a un mondo preumano. Intorno a Pripyat ci sono colvizioni di pioppi che ora formano fitte popolazioni. Spuntano fuori dai marciapiedi che esistevano prima del disastro e i loro alberelli emergono dalle crepe nel cemento, a circa sei piani da terra. A essi si aggiunge una specie invasiva di acero nordamericano che contribuisce alla ricrescita del verde. Gli abitanti dell’impero sovietico hanno accolto l’offerta orticola dei loro nemici, a quanto pare. I polloni del carrubo americano formano dei boschetti spinosi in quelli che una volta erano i giardini municipali e coprono la vista dei campi sportivi che esistevano in precedenza. Il ritorno alla foresta è accelerato dalla crescita di una serie di piante sia straniere sia europee. I cani procione dell’Asia orientale si aggirano sotto questi alberi nordamericani. In assenza del Tarpan, un cavallo selvatico eurasiatico ormai estinto, gli ambientalisti hanno liberato in questo strano paesaggio i cavalli selvatici di Przewalski, nonostante il fatto che questi animali provengano dalle praterie e dalle aree semidesertiche dell’Asia centrale. Gli elefanti della foresta che si sono estinti e i castori giganti che una volta contribuivano a mantenere aperti i varchi nella vegetazione, aperture che avrebbero fatto comodo ai cavalli, non esistono da molto tempo e non sono nella condizione di ritornare.
Se da questi spazi togliamo gli esseri umani, cosa osserviamo? L’atmosfera e il clima sono stati alterati e non possono essere protetti dal resto del mondo. La Terra non sta tornando alla sua versione pre-umana incontaminata. Gli animali e le piante in arrivo da continenti lontani, e qui introdotti, resteranno e si evolveranno in versioni europee dei loro parenti americani e asiatici. Questi sono guadagni biologici permanenti, mentre i grandi mammiferi che abbiamo spinto all’estinzione in un lontano passato sono perdite permanenti. Tutto ciò è innaturale, potrebbe dire qualcuno, eppure tutte le specie che prosperano nel paesaggio descritto prima sono specie perfettamente naturali. La realtà pratica è che il futuro della Terra è già stato modificato in modo permanente per il fatto stesso che l’uomo è esistito. Non possiamo disfare tutto adesso.
Il pianeta è stato modificato per troppo tempo e ora è difficile tornare indietro. L’impatto crescente dell’Homo è in atto in Africa da circa 2 milioni di anni e da un milione di anni in Asia. Circa 46.000 anni fa, gli aborigeni australiani hanno eliminato il Diprotodonte, un marsupiale di due tonnellate, e tutti i suoi parenti, così come gli uccelli di mezza tonnellata e i rettili di sette metri, preannunciando in tal modo una “macellazione globale”. Le pitture rupestri rappresentano gli incontri dei primi uomini con animali giganti, alcuni estinti, altri ancora in vita. La prima figura conosciuta di animale rappresenta un maiale, la cui immagine di 35.000 anni fa è ancora visibile in una grotta di Maros a Sulawesi. I maiali selvatici di Sulawesi sopravvivono ancora oggi, ma le iene dell’Ardèche, presenti 30.000 anni fa e rappresentate nella grotta di Pont d’Arc nel sud della Francia, non sono state ugualmente fortunate. I nostri antenati che si sono rifugiati inquella gola calcarea devono averle uccise e poi spinte all’estinzione. Oggi, pensiamo alle iene come animali esclusivamente africani, ma non è sempre stato così. È andata nello stesso modo per i rinoceronti europei che non sono più in circolazione e pertanto non possono ripopolare Chernobyl. Ondate di invasioni umane hanno condotto allo sterminio dei grandi animali in tutta l’Asia e poi nel Nord e nel Sud America. Già diecimila anni fa gli esseri umani avevano ucciso la maggior parte degli animali terrestri più grandi del mondo, molto prima che venisse costruita la prima città o si diffondesse la scrittura.
La cronologia degli eventi indica che gli animali più grandi hanno intrapreso la via della scomparsa quando il clima ha iniziato a riscaldarsi, alla fine dell’ultima era glaciale. Quando le temperature si sono alzate, le foreste mondiali, le praterie, i deserti e le tundre si sono spostate sulla superficie del pianeta, ma senza gli animali di grosse dimensioni al seguito. Gli elefanti moderni possono modificare la vegetazione e gli animali estinti potevano fare la stessa cosa. Alteravano la struttura delle foreste, delle savane, delle praterie, delle paludi e delle tundre del mondo, influenzando così i tipi di piante e di altri animali che avrebbero potuto prosperare o meno.
La nuova vegetazione che si è sviluppata dopo l’ultima era glaciale non è la stessa che si sarebbe sviluppata se il mondo non fosse stato abitato dall’uomo, né è la stessa che si è sviluppata in precedenza. In pratica tutti gli ecosistemi sulla superficie terrestre sono stati fondamentalmente alterati dall’uomo per oltre diecimila anni. La grande accelerazione dell’innovazione e dell’impatto umano negli ultimi secoli ha, in realtà, trasformato un mondo che i nostri antenati avevano già iniziato a trasformare molti millenni prima. A fronte dei due gruppi di animali dei quali disponiamo delle migliori – anche se ancora grezze – ricostruzioni storiche, cioè mammiferi e uccelli, almeno il doppio delle specie si sono estinte prima del Settecento, rispetto a quelle scomparse da quegli anni in poi. Non dobbiamo immaginare che gli eventi recenti si stiano svolgendo in un mondo incontaminato in precedenza. Il mondo è stato trasformato così profondamente che non è più possibile identificare le parti degli ecosistemi che sono state alterate unicamente dall’uomo.
La vasta diffusione dei cambiamenti influenzati dall’uomo su un periodo così lungo determina che i guadagni biologici associati alla nostra esistenza sono universali quanto le perdite. Tuttavia, l’espressione che rappresenta il guadagno nell’equazione mondiale che fotografa guadagni e perdite, è spesso considerata come un problema, e non un trionfo della natura nella sua capacità di adattarsi alle condizioni alterate.
Molti ecologisti e ambientalisti, e in particolare un gruppo speciale di “biologi delle specie invasive”, sono inclini a considerare i cambiamenti dei luoghi in cui vivono le specie come la prova che ci stiamo muovendo verso un mondo meno desiderabile rispetto a quello precedente. Rimpiangono il mondo precedente. È come se esistesse uno stato del mondo “come dovrebbe essere”, con ciascuna specie a occupare la sua posizione “corretta”. Solo che il “dovrebbe” non è mai esistito. La natura semplicemente accade e la distribuzione delle specie cambia: nessun periodo ha meriti maggiori o minori di altri. Che piaccia o no, questi guadagni biologici non scompariranno e altri cambiamenti avverranno in futuro. Considerare questi cambiamenti come innaturali e indesiderabili è una visione miope del mondo.
Dobbiamo incoraggiare il dinamismo, non opporre resistenza, se la nostra preoccupazione è permettere alla natura di adattarsi al mondo abitato da umani. È così che le specie del nostro pianeta sono sopravvissute ai cambiamenti del passato. Troppo spesso ci comportiamo come se la natura fosse un gran maestro, un grande quadro che deve essere conservato così com’è. Quando percepiamo la natura come oltraggiata, cerchiamo di “riportarla” a uno stato passato, proprio come potremmo cercare di riparare un capolavoro danneggiato. Questo obiettivo ci impone di estirpare quelle piante e quegli animali che pensiamo siano nel posto sbagliato. Uccidiamo le specie di successo per proteggere quelle non riuscite bene. A volte è possibile farlo, ma più grande è l’area che prendiamo in considerazione e più lungo è il periodo di tempo di cui ci occupiamo, più è certo che alla fine non riusciremo a mantenere le cose come stanno in un dato momento. Ma non sarà la natura in sé a perdere. Perderemo semplicemente la nostra lotta di esseri umani che vogliono riportare la Terra a una specifica versione romanzata di come avrebbe potuto essere una volta. Al pari di Canuto il Grande, re d’Inghilterra, gli esseri umani hanno affrontato una sfida irrealistica. La marea non si è fermata davanti al re Canuto e il cambiamento biologico non si fermerà davanti a noi.
Possiamo pensare all’Antropocene come a un nuovo inizio per la vita sulla Terra e non solo come al tramonto della vecchia guardia. Questo è un sollievo. Il “nessun cambiamento” non può essere preso in considerazione quando contempliamo il futuro: le nostre scelte sono tutte incentrate sulla direzione e la velocità del cambiamento in atto. Possiamo guardare ai cambiamenti futuri con un sentimento di eccitazione e interesse, non solo con presagi negativi. Questo, tuttavia, non ci permette di toglierci del tutto dai guai. Abbiamo la possibilità di trasformare la Terra in un luogo peggiore per gli esseri umani e per la maggior parte (ma non per tutte) delle altre forme di vita. Dobbiamo essere vigili. Mettersi a rimpiangere il fatto che le cose non sono più come erano prima e sfogare la nostra frustrazione per lo stato innaturale del mondo non è la via da seguire. Dobbiamo compiere le migliori scelte possibili, accettando che gli esseri umani sono parte del nuovo ordine naturale del mondo.
Notevole!