Che cosa significa abitare



Le nostre case ci definiscono, eppure stiamo perdendo la loro dimensione sociale, simbolica e cosmologica. Mentre la società capitalistica si espande distruggendo interi ecosistemi, tornare allo spazio domestico significa ripensare il nostro modo di esistere e quindi di abitare il pianeta intero.


In copertina e nel testo delle opere di Gustav Klimt

di Andrea Cafarella

La tua casa non dovrà dominare una gran vista; dovrà essere incassata nel verde, sebbene sul pendio del terreno, o magari in cima a un rialzo per agio di deflusso. Avrà da essere comunque volta verso oriente per non perdere il sorgere del sole; il tramonto viene tanto più tardi che potrai sempre fare quattro passi per andarlo a vedere dall’altra parte.

Robert Louis Stevenson

Ho sempre pensato che l’esperienza della lettura dipendesse – in un rapporto di contaminazione reciproca – dal libro e dall’ambiente nel quale il lettore è immerso. Così come dal periodo della vita che sta attraversando quella persona, dal momento della giornata, dal tempo atmosferico o dalla stagione dell’anno, oltre che da infiniti altri fattori. In particolare, però, trovo che il luogo in cui si legge abbia un ruolo decisivo; ci sono dei libri che ricordo perfettamente solo pensando al grigio inverno parigino, altri che associo a un treno o a un aereo, altri ancora lasciano emergere dalla memoria volti e persone, occasioni di festa o di lutto, di tradimento o di perdita. E ci sono anche quei libri che ho frequentato talmente tanto, e in occasioni così varie, che se ci penso mi danno immediatamente la sensazione di abitarne il testo. Diventano essi stessi un luogo che contiene le case che ci hanno ospitati, le città dove abbiamo vissuto e le persone che abbiamo incontrato, fuori e dentro noi stessi. 

Viceversa, alcuni luoghi rappresentano – e ne sono letteralmente trasfigurati – il ricordo di specifiche letture di alcuni libri. Se penso alla mia prima casa romana la associo immediatamente a Bolaño e Cioran, oltre a tante altre letture fatte in quella minuscola stanzetta. Ricordo benissimo quando sono stato a Firenze per la prima volta, grazie a Gombrowicz. E non posso discernere la lettura dell’opera immensa di Samuel Beckett dalla mia permanenza negli Stati Uniti d’America, né dalle pareti viola e verdi di cui era composta la casa dove abitavo, io ci vedo e ci vedrò sempre il volto di Beckett nell’enorme quadro, alla testa delle scale di legno che portavano verso l’uscita, raffigurante un gigantesco demone che fuoriusciva dall’oscurità della tela. E viceversa. 

Ogni luogo ha i suoi libri di riferimento. Esiste tuttavia un unico posto al mondo, per me, nel quale ogni libro letto può rivestirsi di un’importanza peculiare. Si tratta di un preciso angolo del terrazzino di casa, alle Eolie. Per chi non fosse pratico dell’architettura di queste isole: i terrazzi sono tradizionalmente recintati da una sorta di panchina – i cosiddetti bisola. Le colonne che si ergono agli angoli di questa “recinzione”, incorniciano le sedute, che possono essere maiolicate, utilissime quando si è in tanti, e di straordinaria comodità per chiunque vi si sia sdraiato almeno una volta nella vita. Inoltre, la cosa che rende davvero speciale proprio quell’angolo del mio terrazzino (nel quale ho passato talmente tante ore da lasciare un alone dove solitamente poggio la testa) è la sua posizione strategica: si trova infatti proprio davanti al curvone che sovrasta il molo, probabilmente uno dei punti più frequentati del paesino. 

In quell’angolo la seduta è perfetta, spira quasi sempre una brezza salina rinfrescante e quando sollevo gli occhi dal libro posso seguire l’andirivieni del curvone, inoltre, se qualcuno sta per entrare in casa mi avverte sempre il rumore del cancelletto, e con una leggerissima torsione del capo posso sapere subito di chi si tratta. 

Costituisce una soglia: il terrazzo è talmente immerso nel dedalo delle stradine interne, attaccato alle altre case, da dovere per forza di cose divenire osmotico e permeabile.

Alcuni dei libri che ho letto e riletto in quel preciso angolo del terrazzo sono davvero diventati la mia casa, la mia casa letteraria. Li ho abitati, nel modo più intenso che conosco.

Uno di questi libri indimenticabili è senza dubbio La caduta del cielo. Soltanto adesso mi rendo pienamente conto del ruolo che ha avuto nell’esperienza di lettura di questo libro il luogo in cui mi trovavo in quel momento; il paesaggio e lo spazio immaginario tracimavano l’uno dentro l’altro facendosi un tutt’uno; il libro e la casa erano partecipi entrambi di quell’esperienza, in una comunione d’intenti che può generarsi solo quando diamo un senso profondo al nostro abitare, riferendoci a un luogo reale, metaforico o immaginario. 

Che cosa significa abitare? E quindi: cosa è la casa?

Si dice degli scrittori che la loro casa – o la loro patria – sia la lingua che abitano, nella quale scrivono. Ovviamente, quindi, possiamo dire a ragion veduta che la casa non è solo ed esclusivamente un luogo fisico. Potremmo anche concordare, ma dovremmo tenere presente che la casa non sempre è un singolo luogo, fisso e stabile nello spazio e nel tempo; basti pensare ai nomadi di ogni periodo storico e di ogni luogo del pianeta. 

Comprenderemo a questo punto quanto possa essere difficile definire in maniera univoca e condivisibile cosa sia la casa, e quindi cosa possa voler dire abitare. 

Robert Louis Stevenson è un autore arcinoto per essere uno scrittore di viaggi, avventure mirabolanti e di una certa poetica dell’esotico e di ciò che è distante. Eppure, la frase che ho posto in esergo a questo scritto viene da un libricino che raccoglie uno spassoso breve testo del nostro Stevenson intitolato «La casa ideale». La casa ideale di Stevenson ovviamente è meravigliosa, ricolma di wunderkammer, tavoloni, quadri, mappe, e quant’altro si possa essere capaci di immaginare; il dato però che mi sembra interessante è che questa fantasiosa immagine di casa presenta una strettissima relazione con l’esterno, con il paesaggio naturale che la circonda. Mi sembra emblematico l’incipit del testo, nel quale Stevenson scrive: «Qualunque sia il luogo nel quale ci proponiamo di trascorrere l’esistenza, due sono le condizioni imprescindibili: la solitudine e la presenza vivificante dell’acqua». Attenzione: non intende qui la semplice «fornitura dell’acqua», ma la presenza del mare, di un fiume, ma anche di un semplice ruscello, o di un piccolo lago, qualsiasi rivolo zampillante dal quale poter effettivamente avvertire la «presenza vivificante dell’acqua».

Per chiunque abbia già letto o leggerà questa breve e delicata prosa, risulterà chiaro che le estrose indicazioni di Stevenson non possono servire da vere e proprie indicazioni per la costituzione di una perfetta dimora, a misura di stevensoniano, tuttavia, tramite lo strumento narrativo, l’autore riesce, secondo me, a fissare alcuni punti molto interessanti per il discorso che desidero portare avanti in queste pagine.

Nel periodo che stiamo vivendo, per ovvie ragioni, la casa è diventata un simbolo e un argomento di primaria importanza sul quale riflettere e di cui parlare. Proprio nei giorni in cui scrivo scopriamo che «il diritto alla casa è il grande assente dal piano nazionale di ripresa e resilienza» voluto dal premier Draghi. E mi torna in mente un libro letto anch’esso in quell’angolo eoliano questa estate: Mal di casa di Catrina Davies (Atlantide, 2020), nel quale l’autrice racconta di come ha trasformato la sua vita andando ad abitare in un capannone, che era stato di suo padre quando lei era ancora una bambina. Un testo costruito su diversi strati, che può essere letto anche come un saggio, se vogliamo, sull’abitare.

I libri che ruotano attorno al concetto di casa pubblicati negli ultimi anni sono davvero tantissimi, ultimo ma non meno importante, in pubblicazione proprio in queste settimane, La filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità di Emanuele Coccia (Einaudi, 2021). Proveremo, nelle pagine che seguono, a guardare la casa da punti di vista diversi, benché possano moltiplicarsi all’infinito e sia impossibile raccoglierli tutti fornendo una definizione esaustiva. L’architettura può chiaramente venirci in aiuto, ma anche la filosofia e l’antropologia, l’arte, la letteratura weird, e persino l’attivismo politico e una certa prospettiva ecologica. Poiché, sembra arrivato il momento, infine, in cui diventerà assolutamente necessario ripensare il nostro modo di abitare – la casa in sé e la casa più in assoluto, ovvero il pianeta Terra e quindi, ampliando ulteriormente il concetto, anche l’universo intero –, bisogna assolutamente cambiare casa, e farlo adesso.

Ho abitato – Cos’è la Casa?

 

È chiaro che il dibattito sulla casa e sull’abitare affonda le sue radici molto indietro nel tempo. Non è certamente legato solo ed esclusivamente al cambiamento climatico o alla scomparsa di certe abitudini o di uno specifico modo di pensare. Tuttavia, possiamo dire che, pian piano che gli oggetti della casa prendono fuoco, sempre di più e con una maggiore varietà di sguardi, si alimenta la discussione sull’abitare, sulle sue diverse forme e le infinite possibilità e criticità davanti alle quali ci pone.

Mi sembra emblematico, nel suo piccolo, il caso di un libriccino che ho trovato illuminante e pieno di suggestioni: Le case che siamo di Luca Molinari, noto teorico e studioso di architettura. Pubblicato per la prima volta da nottetempo nel 2016, è stato ripubblicato in un’edizione ampliata nel 2020, l’anno che – mi sembra plausibile pensare – ricorderemo come «l’anno della pandemia», o con qualche nomignolo similare. In appendice a quest’ultima edizione, difatti, è possibile trovare un testo, Le case che saremo, che è apparso per la prima volta nella collana Semi (nella quale nottetempo ha pubblicato dei brevi testi sulla pandemia, in e-book, distribuiti gratuitamente online, nei mesi iniziali del diffondersi del virus in Italia). Le pagine dello scritto in questione sono molto “emotive” e intime, rispetto al resto del libro, e così, poste a chiusura di questo vero e proprio vademecum dell’architettura del futuro, illuminano e caricano di responsabilità e di peso tutto il ragionamento precedente di Molinari, ci costringono all’urgenza e all’essenzialità del silenzio e dell’ascolto. Riflettono su cosa voglia dire – per la casa e per noi, costretti a starci rinchiusi per lunghi periodi – attraversare questo momento così strano e interessante, che nella pandemia ha trovato una forma espressiva intensa e, potremmo dire, invadente.

«La casa è l’inizio di un universo di tecniche e sperimentazioni che abbiamo chiamato nel tempo architettura. È a questo luogo, a questa idea primaria che l’architettura è sempre tornata». Quindi la casa rappresenterebbe in architettura un nucleo di senso. Dalla casa nascono i concetti architettonici che costituiscono il mondo circostante, e alla casa bisogna tornare, secondo Molinari, per ripensare il nostro mondo, come esso è stato costruito e come possiamo riformularne l’immagine oggigiorno. 

Adelaide Cioni, presentando su Antinomie il suo lavoro «à propos de bacchelli 5» si chiedeva sentitamente cosa fosse per lei la casa: «È il luogo in cui dormo? È il luogo per il quale faccio la spesa? Dove lavo il pavimento? Dove mi faccio la doccia, mi lavo i denti?». Forse è tutte queste cose contemporaneamente ma non solo e non per forza, mi sento di dire. E immagino altre simili domande, ma la risposta è sempre «no». O quantomeno: «non solo». 

La risposta di Adelaide Cioni – artista davvero intrigante, che ha vissuto per un periodo «nelle case di altri, come ospite» –, mi sembra molto interessante, per quanto incompleta e del tutto intuitiva, «la casa», scrive, è «dove posso posare i miei oggetti senza pensare a quando dovrò portarli via. La casa è un tempo quindi».

Nel suo ragionamento, poi, Adelaide Cioni arriva – tramite l’etimologia del verbo abitare («dal latino “habitare”, forma iterativa di “habere”. Quindi alla lettera “avere ripetutamente, continuativamente, nel tempo”») – a considerare il “possedere” una casa, viverla e abitarla, come «Un tempo che ha la qualità dell’“eterno”» il tempo dei miti greci, «in cui le cose diventano significative per frequentazione, per ripetizione». Una forma di ritualità che ci permette di avere il tempo, e di raggiungere l’eterno.

«La casa definisce un confine pulito e colorato in contrasto con la nuda terra e la Natura, perché è un artefatto e, come tale, si contrappone al mondo esterno, ai suoi agenti naturali che in fondo terrorizzano l’uomo» scrive Luca Molinari nell’ultimo capitolo del suo libro: intitolato «La casa che sono»; e mi pare che in questa definizione ci siano proprio le cose che andrebbero ripensate, come suggerisce lo stesso Molinari quando chiude il capitolo proponendo di concepire la casa come «laboratorio politico e sociale aperto sulle nostre vite e sul nostro modo di abitare il mondo che ci circonda». Se consideriamo una prospettiva in apparenza diametralmente opposta – e probabilmente, per questo motivo, complementare –, vale a dire quella dell’antropologo Andrea Staid; possiamo riflettere ulteriormente sull’idea che «Ci sono persone che considerano l’abitare come un processo mai concluso e per loro l’abitare non è un corollario, ma sostanza della libertà quotidiana che investe la dimensione antropologica dell’uomo». Un po’ come Adelaide Cioni, ospite nelle case di altri. Anche rispetto alla questione della separazione della casa dalla Natura (e su questa parola ci sarebbe da fare un discorso ulteriore e di carattere più generale) Andrea Staid ci porta a considerare che «Per la maggior parte degli abitanti della città informale, degli ecovillaggi, delle case occupate o per i travellers, la casa non è quasi mai separata dall’ambiente che la circonda; al contrario lo modella, lo ricrea e vive in sintonia con esso». Abita la soglia, il confine tra fuori e dentro, tra conosciuto e sconosciuto. 

In un libro straordinariamente breve (dico “straordinariamente” poiché riesce a essere un manuale, un memoir, un saggio antropologico e un appello sociale e politico in poco meno di duecento pagine e con una semplicità spiazzante) che s’intitola La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire (ADD, 2021) Andrea Staid racconta molti differenti modi, non solo di concepire ma soprattutto di costruire la casa. «Come costruiamo lo spazio», scrive Staid, «ci identifica e modifica i nostri comportamenti, in modo concreto», quindi il luogo che abito, sia esso un enorme palazzo della periferia industriale o una capanna in un’isoletta dispersa nell’oceano, definisce effettivamente chi sono, «dunque i luoghi che abitiamo costruiscono, in relazione al paesaggio che li circonda, significati simbolici e affettivi che si riflettono sul rapporto esistente tra paesaggio, salute e qualità della vita», ovvero: noi costruiamo la casa mentre la casa costruisce noi, in un rapporto trinitario con il paesaggio e l’ambiente che circonda tutto ciò, la Terra, o volendo allargare ancora il punto di vista, la Natura stessa.

Chiusi in casa davanti allo specchio/schermo

 

Friedensreich Hundertwasser, artista e architetto di origini austriache, affermava che l’uomo possiede tre pelli: la propria, gli abiti e la dimora. (Andrea Staid)

Hundertwasser è sicuramente uno dei numi tutelari del ragionamento che Andrea Staid porta avanti nel suo libro sul ripensare l’abitazione. Già nelle prime pagine Staid arriva a citare anche Heidegger e Benjamin: «Nell’abitare risiede l’essere dell’uomo» ed è «il bozzolo in cui gli esseri umani prendono forma». «Concentrarsi sulle nostre case, sui modi in cui abitiamo il mondo, significa considerare come diamo forma alla nostra umanità più intima». Quale momento migliore per riflettere sull’abitare che un lungo periodo di confinamento in casa? Per alcuni sicuramente lo è stato, non saprei dire di me o della maggioranza di noi. 

Da una parte sembrerebbe che i confini di casa siano stati abbattuti, tramite gli strumenti concessi dalla rete Internet, i social network e tutto l’apparato di tecnologie che ci hanno permesso di rimanere in contatto costantemente durante i mesi di lockdown.

Eppure, alle volte si ha come l’impressione che «Noi umani ci guardiamo continuamente allo specchio, intrappolati in un’allucinazione narcisistica e vediamo solo la nostra immagine riflessa, senza vedere il resto che ci sta crollando sopra», avverte Andrea Staid in questo suo libro. Siamo davvero intrappolati in una fantasia della mente che ci rende ciechi? Impegnati a fissare ossessivamente il nostro stesso volto riflesso su uno schermo, viviamo in una selfie-trap, un’ossessione egoica? Non credo di poter riuscire a rispondere a questa domanda.

Sono però molto d’accordo con Luca Molinari quando scrive che «Bisogna avere la forza di abbattere», di buttare tutto giù e «di ricostruire e rifondare spazi che diventino dominanti per una comunità che sta cambiando e che guarda all’architettura come a un bene comune da tutelare e su cui costruire futuro». Esistono già dei luoghi diversi, Molinari fa l’esempio di una biblioteca condominiale nata dalla volontà dei condomini, per esempio. Ci sono gli orti comunali e centinaia di altri esempi di come i luoghi comuni possano essere davvero vissuti, in barba al cosiddetto «senso del decoro» che troppo spesso ci impedisce di abitare i luoghi che sono nostri, che appartengono a tutta la comunità.

Un altro interessante vaticinio lo ricaviamo ancora da Andrea Staid. Citando Marc Augé, suggerisce che «bisogna uscire dalla propria tana culturale e promuovere l’essere transculturale», incontrare tutte le culture del mondo per imparare un abitare nuovo, «è qualcosa che si capisce solo al ritorno, dopo aver visto come fanno gli altri, come aprono e chiudono le porte, come si rivolgono al popolo animale o al vento». Poiché, come dice Gilles Clément: «Solo il viaggio apre le porte di una casa di cui si credeva di avere le chiavi». Sarebbe quindi essenziale, secondo questa prospettiva, di stampo palesemente etnologico, andare a ricercare nelle differenze, in come altri popoli e altre identità vivono l’abitare, gli spunti necessari per un ripensamento della casa, a tutti i livelli di significato essa possa essere intesa. Voltando la faccia dallo specchio/schermo che ci riflette sempre più belli di come siamo, filtrati dalla tecnologia e dall’iper-comunicazione, per osservare l’Altro: così potremo forse capire qualcosa in più su di noi e sulle tre pelli che ci portiamo addosso e che dicono chi siamo.

La scomparsa dei riti

 

Il filosofo Byung-Chul Han nel suo La scomparsa dei riti. Una topologia del presente (nottetempo, 2021) individua uno dei sintomi e delle cause di questa malattia narcisistica proprio nel processo di allontanamento – degli esseri umani che sono parte delle società cosiddette “occidentali” – dalla dimensione rituale e simbolica della vita. «I riti sono azioni simboliche» ci dice immediatamente – prima riga, prima pagina. «Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità». I simboli che ci circondano e i loro significati profondi sono le colonne sulle quali si erge il tempio della nostra comunità, le fondamenta della casa. 

«I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento»; secondo Byung-Chul Han sarebbe proprio l’attitudine simbolica e rituale a dare senso al luogo che abitiamo, a tutti i livelli: la nostra abitazione, la città, la regione, il pianeta intero. I riti «Trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile». E mi torna in mente il tempo circolare del mito greco, nell’intuizione di Adelaide Cioni succitata. 

I rituali non sono gesti quotidiani, delle semplici abitudini, poiché nella ripetizione ci restituiscono un senso più profondo e sacro. Pensandoci bene: ognuno di noi crea dei piccoli e grandi rituali: può essere la pratica meditativa, come il momento durante il quale innaffiamo le piante, come per me è leggere su quel terrazzo, seduto sempre nello stesso angolo, dal quale si vede la spiaggia, il molo e il curvone. Ogni tanto mi lascio distrarre dai passanti e dalle loro discussioni o dai loro movimenti, e questo mi aiuta a pensare. 

«Tornare a riflettere sul senso profondo» della parola «casa», scrive Molinari, «credo sia importante per ridare valore a uno dei fondamenti della nostra vita privata e pubblica […] comporta oggi ritornare ai gesti primari, ai simboli che si rinnovano, alle visioni che per millenni hanno dato valore ai nostri luoghi e che adesso spingono ancora sulla nostra realtà per essere ripensate e rivitalizzate», e in queste parole risuonano i ragionamenti di Byung-Chul Han sulla scomparsa dei riti e sulla necessità di ridare senso simbolico agli spazi che abitiamo, ai luoghi che sono nostri, che siamo noi.

Si deduce quindi che una delle caratteristiche dell’abitare contemporaneo sulle quali si potrebbe – e probabilmente si dovrebbe – lavorare, qualunque sia la disciplina di riferimento, è proprio il significato dei rituali relativi alla propria dimora. «Lavorare oggi sulla questione della casa, sulla sua valenza simbolica, fisica e sociale, vuol dire puntare alla costruzione di ambienti capaci di accogliere soggetti con vissuti e culture eterogenei, puntare sulla possibilità che queste realtà possano convivere e crescere insieme in futuro» (Molinari). Ragionare perciò su degli spazi condivisi, dove «paure e differenze possono essere accolte come una risorsa che aiuti a ripensare l’idea stessa di città e di paesaggio umano e naturale». Ripensare le nostre case dovrebbe forse nascere dall’osservazione e dall’incontro con l’altro che ci permetta di costituire nuovi rituali e nuovi simboli, poiché la massificazione e la globalizzazione hanno svuotato i miti del loro senso originario e della loro capacità simbolica di «mettere insieme», di accordare le parti e di permettere agli esseri umani di abitare il mondo, e tutte le differenze di cui esso è composto, tutto il selvaggio che si nasconde fuori di noi, fuori dalla nostra casa, nell’oscurità del bosco.

La caduta del cielo

 

Il libro di cui raccontavo all’inizio di questo saggio, La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami (nottetempo, 2018) si apre con una profezia che Davi Kopenawa rivolge ai Bianchi: «Tutti gli sciamani periranno. Quindi, se nessuno di loro sopravvive per trattenerlo, il cielo crollerà». Volendo tradurre il concetto in un linguaggio che pertiene a una mentalità più occidentale: a seguito della scomparsa dei riti, la nostra casa è in fiamme riprendendo il titolo del libro dell’attivista Greta Thunberg (Mondadori, 2018). Interessante notare come anche Giorgio Agamben, in modo completamente diverso, riprende la stessa metafora per intitolare una sua raccolta di saggi (nella quale ragiona proprio sugli ultimi accadimenti, ampliando alcune riflessioni che aveva già iniziato a esplorare nella sua rubrica/blog «Una voce»): Quando la casa brucia (Giometti&Antonello, 2021). 

A tutti i livelli del dibattito è ormai cosa risaputa: siamo agli sgoccioli, il pianeta sta collassando. Lo hanno detto tutti, ormai: il cambiamento climatico ci porterà ad attraversare una serie di catastrofi e probabilmente arriveremo a rendere la gran parte del pianeta totalmente inabitabile per la maggior parte delle forme di vita. Attenzione, però: la verità non è proprio che «il pianeta sta collassando», ma siamo noi a provocarne il collasso, quindi sarebbe più giusto (come suggerisce – seppure in termini forse ingiustamente onninclusivi – il termine Antropocene) dire che «noi stiamo facendo collassare il pianeta». Ancor più precisamente: una piccola parte della popolazione mondiale, ovviamente quella più ricca, ha la maggior parte della responsabilità, seppure ognuno di noi, in forme diverse e in un contesto incredibilmente complesso e variegato, è anch’egli responsabile per l’accaduto: la nostra casa, il tetto, le pareti, le porte, i mobili, i letti, tutto adesso è in fiamme.

Il mese scorso ho partecipato a un corso che organizza Dinamo Press sul cambiamento climatico. Si tratta di un argomento talmente vasto e disordinato, invisibile, fumoso, così complesso che è davvero difficilissimo sviluppare dei discorsi che entrino nel merito delle questioni senza tralasciare dettagli significativi, eppure trovo che chiunque viva in questa società, e voglia coscienziosamente condividere il proprio spazio con la comunità globale, abbia il dovere di cercare di informarsi su questa dinamica, su questo iperoggetto, il più possibile. Nonostante la cecità evidente denunciata da Amitav Gosh e da tanti altri, non farlo sarebbe come rimanere sdraiati sul divano a guardare Netflix mentre le tende prendono fuoco e scatenano l’incendio che potrebbe uccidere noi e tutti gli altri abitanti della casa. 

Insomma, c’è un problema enorme, «Baker e Herzog sono stati profeti precoci di una verità che il riscaldamento globale ha reso impossibile da ignorare: per quanto possiamo illuderci di avere un controllo sulla natura, essa è e sempre sarà un grande Altro che non capiremo e sottometteremo mai totalmente», scrive Gianluca Didino nel suo Essere senza casa (minimum fax, 2020). E torniamo sempre lì, a questo rapporto malato che abbiamo costruito nei secoli con la Natura e con il grande Altro. 

«Questo nuovo secolo è obbligato a liberare le nostre città dalle tossine accumulate nei decenni passati e le pratiche da attivare in futuro sono tutte da immaginare» (Molinari). Quindi non c’è solo bisogno di ritrovare nelle culture altre nuovi accessi, nuove aperture verso una dimensione rituale e simbolica dell’abitare, dobbiamo anche pagare lo scotto soprattutto del XX secolo, che, ci dice Molinari, «verrà sicuramente ricordato come il più grande cantiere della storia dell’umanità». Un secolo nefasto per quanto riguarda l’inquinamento provocato dagli esseri umani, basti pensare agli incalcolabili danni provocati dall’uso sconsiderato dell’energia atomica. Per non parlare dell’aumento delle emissioni di CO2, deforestazioni, allevamenti intensivi, speculazione edilizia, eccetera eccetera, si potrebbe continuare per pagine intere a parlarne, senza mai arrivare a una fine, a descrivere un quadro completo.

«Dobbiamo incentivare un vivere-abitare elastico, economie circolari, condivisione, ecologia sociale, aiuto reciproco, mutuo appoggio, prestiti, utilizzo comune, ripensare il concetto stesso di bene comune espanderlo al di fuori dei limiti capitalisti» scrive ancora Andrea Staid. Detta così sembra anche qualcosa di utopistico e ingenuo, i deliri di un sognatore, eppure, trova riscontro in ciò che scrive anche Molinari – e qui si incontrano le due visioni, i punti di vista – «Basterebbe forse guardare al modo in cui i suoi abitanti [della città] stanno cambiando molti di questi luoghi per capire come affrontare la comune situazione». Ci sono molti esempi di un vivere comunitario ecologico e orientato a una economia del dono che permetta una circolazione più equa della ricchezza. Si traducono in piccoli gesti, negli spazi di aggregazione che vengono riattivati autonomamente dai cittadini, nelle attività più disparate che si pongono come obiettivo quello di ripensare il mondo, a partire dai rapporti e dalle relazioni tra culture diverse, individui diversi e modi di vivere che nelle loro differenze trovano un reciproco arricchimento.

Varcare la soglia

 

«Oggi l’esperienza dell’assenza di casa, intesa come luogo stabile in cui mettere le radici, accomuna gran parte della mia generazione», da questo tipo di vissuto nasce il ragionamento che percorre le pagine di Essere senza casa di Gianluca Didino. «Questo essere senza casa è letterale: viviamo in alloggi temporanei, con contratti d’affitto annuali, dormendo sul divano di un amico, crescendo figli in case condivise con altri adulti che non possono permettersi una casa propria». Sembrerebbe all’apparenza una situazione simile a quella descritta e rappresentata da Adelaide Cioni, ma non è così. Didino ci porta a ragionare sulle criticità di questa condizione: il processo che porta dall’«aprire le porte della propria casa» come «atto di ospitalità» (quasi rituale, evidentemente molto vicino alla concezione greca dell’ospite sacro), al concedere l’uso temporaneo e magari stagionale della propria dimora o di una delle stanze di casa, solo come «una maniera di arrotondare lo stipendio resa possibile dal capitalismo delle piattaforme». Riferendosi qui esplicitamente ad Airbnb (per approfondire si consiglia Airbnb città merce, Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, Derive Approdi, 2019 di Sarah Gainsforth), un esempio emblematico di questa ennesima appropriazione di significati da parte del capitalismo imperante che ha ormai colonizzato ogni spazio, persino e soprattutto la cosiddetta sharing economy

Qui introduciamo un concetto molto interessante che viene usato da Molinari come da Didino, «l’idea di una casa completamente trasparente», «in linea con le promesse di trasparenza totale offerte da internet». Una casa dove, appunto, per soldi, è possibile per l’altro usufruire degli spazi come se fossero quelli di un albergo, resi neutri per il tempo della sua permanenza. Il pubblico e il privato non esistono più da quando la nostra casa si è trasformata, e i suoi muri sono vetri che permettono a chiunque di poterne sbirciare gli interni. 

Quando questa barriera osmotica tra dentro e fuori viene regolata dal denaro – come nel caso di Airbnb – o dal narcisimo, come quando parliamo di tutti i patinati contenuti “privati” che riversiamo sui social network, allora si produce uno spazio liminare strano, spaventoso, weird. Tuttavia «la soglia» di casa potrebbe anche tornare a essere come le «impercettibili barriere per allontanare il malocchio o la cattiva sorte» dei tempi antichi, come ci ricorda anche Didino, citando Molinari. Ed è forse con questa prospettiva, quasi magica – nuovamente – rituale, spirituale, animistica, che potremmo riabbracciare l’esterno, il grande Altro che è anche l’enorme problema del riscaldamento globale. Un iperoggetto impensabile e misterioso, che crea sgomento. Per descriverlo Didino usa la categoria del weird. Cosa sarebbe allora il weird? Il «non-familiare» che viene dell’«esterno»; quello che Laura Pugno chiama il «selvaggio» nel suo In territorio selvaggio (nottetempo, 2018). Dal punto di vista di Gianluca Didino «il weird è un ingresso nel territorio dell’Altro in un’epoca, come quella ipermoderna, segnata dalla crisi dell’eros», nella quale quindi il rapporto con l’esterno è ormai compromesso e bisogna attraversarne le contraddizioni; oltrepassare la soglia allora comporta un rischio, e il rischio è di incontrare lo sguardo della tigre mentre acquattata tra i cespugli ci fissa negli occhi e, magari, accorgerci di essere ricambiati, di essere guardati da lei.

La tigre ti sta guardando

 

«L’Altro radicale non seduce, ma piuttosto produce uno smottamento ontologico che inibisce il sentimento […]. L’accostamento stridente che definisce il weird è una frattura che non può essere ricomposta». Per oltrepassare la soglia della nostra casa – aspetto che sembra essere essenziale, da tutti i punti di vista, per ripensare il nostro abitare, e finalmente incontrare il grande Altro – bisogna essere pronti ad affrontare la paura come i protagonisti di un racconto di Lovecraft.

«Per questo Fisher ha parlato di soglie “che [conducono] al di là del principio di piacere e dentro il weird”, perché il weird sembra avere molto poco a che fare con il piacere» continua Didino. Ci sarebbe tuttavia in questo smottamento dell’anima, in questa paura cosmica e ancestrale, una possibilità salvifica, qualcosa che ritroviamo in Baker, Herzog e persino in Amitav Gosh, quando ci parla dello sguardo della tigre e dell’effetto che può fare incontrarlo – come con il cambiamento climatico – e accorgerci che ci sta guardando ed è già su di noi, quando è ormai troppo tardi.

Oggi ci troviamo di fronte a due opzioni: possiamo stare chiusi in ciò che rimane della casa, nel suo simulacro spettrale, connettendo le nostre reti neurali a internet, aspettando di essere sedotti dalla prossima narrazione e di cedere per qualche giorno o qualche ora il nostro libero arbitrio al prossimo Ratto. Oppure possiamo capire che la casa è il ricordo di un mondo che non c’è più, un hauntologico passato che non vuole passare». (Gianluca Didino) 

Attraversare il selvaggio significa quindi scoprire che la casa come l’avevamo intesa fino a oggi non può più avere luogo, dobbiamo cambiare il nostro modo di abitare gli spazi. Imparare a inforestarci, dice Baptiste Morizot nel suo Sulla pista animale (nottetempo, 2020). «Quando trascorriamo tempo tra gli alberi si verificano diversi fenomeni, fra cui il rafforzamento del sistema immunitario, l’abbassamento della pressione arteriosa e la riduzione degli ormoni dello stress» (Staid). Chiaramente non si tratta solo ed esclusivamente di passeggiare nei boschi o di tracciare gli animali selvatici, tuttavia queste possono essere azioni concrete per andare verso quanto suggerisce Gianluca Didino. Queste e altre pratiche di confronto con il mondo esterno permettono di godere appieno dello smottamento creato dalla diversità e dalla mostruosità (etimologicamente parlando) che incontreremmo attraversando la soglia e inoltrandoci nello spazio selvaggio. 

Elogio della semplicità

 

Un’altra prospettiva, altrettanto interessante, sulle possibilità che abbiamo di ripensare il nostro abitare in senso lato, ce la propone il filosofo Leonardo Caffo nel suo ultimo libro, Quattro capanne o della semplicità (nottetempo, 2020). Oltre al lungo lavoro che Caffo porta avanti da anni sul discorso del postumanesimo e del nostro rapporto con l’animale, questo libro ha dato anche luogo al progetto «Una capanna nel bosco», creato per rappresentare l’idea di un vivere più leggero ed ecologico, che riduca l’impatto ambientale della presenza umana e promuova un rapporto diverso con – appunto – l’esterno e le altre forme di vita, il paesaggio e l’ambiente attorno a noi.

D’altronde Leonardo Caffo, seguendo l’insegnamento di Thoureau, uno dei protagonisti di Quattro capanne, parte dall’assunto che «nessuna teoria filosofica è tale se non viene testata attraverso una pratica di vita». Il nostro pensiero si deve necessariamente tradurre in un vivere quotidiano che rispecchi e metta in pratica le nostre idee. Con questo presupposto Leonardo Caffo rievoca le vite di quattro grandi personaggi che hanno scelto la via dell’isolamento, della capanna. Sono Thoreau, Kaczynski (ovvero Unabomber), Le Corbusier e Wittgenstein. Tutti e quattro condividono la scelta di vivere in delle piccole case, isolate, una vita basata sul ritorno ai gesti semplici, su una ritualità essenziale. 

Essi costruirono una sorta di «filosofia del perdente» che mi sembra molto simile alla via mistica proposta da certi saperi orientali, come la via del vuoto buddhista o il cammino di perfezionamento dei maestri sufi. «La semplicità applicata alla vita è una filosofia del perdente e non c’è niente di eroico in colui che sa lasciare andare le cose: tutto è passeggero». Chi sceglie la via della semplicità, secondo Caffo, non ricerca un’esistenza titanica che ricadrebbe forse nella tendenza narcisistica di cui abbiamo già parlato (che mi riporta alla mente la paradossale espressione «narcisismo spirituale») quanto piuttosto una dedizione assoluta a ciò che s’intende nel senso più ampio possibile con «lavoro interiore».

Quattro capanne si pone proprio come un percorso – di rinuncia e di semplificazione delle proprie necessità –, come se i quattro personaggi fossero espressione delle tappe di un cammino ideale, un cammino che Leonardo Caffo tenta di portare avanti anche nella sua vita privata, che ogni tanto emerge sotto forma di diario all’interno del testo. E anche «molta della filosofia di Wittgenstein è un diario in prima persona», così come quella di Thoureau. Wittgenstein, il personaggio che viene posto alla fine del libro, come ultima tappa, è il simbolo più alto della semplicità che si fa pratica filosofica «nella quale l’unica chance di salvezza è il lavoro su se stessi». Il costante perfezionamento del proprio Sé. Non basta la politica del less is more o del minimalism di stampo americano. Il segreto per una vita pratica che abbracci le intuizioni filosofiche che qui stiamo esplorando si basa esclusivamente sul labor limae interiore, ovvero su come riuscire a risvegliarsi dall’allucinazione egoica e narcisistica che abbiamo messo in piedi, e provare a rimarginare quella ferita tra dentro e fuori che denunciavano Didino e Molinari, la malattia delle soglie. Serve davvero lo shock provocato dagli occhi del selvaggio che ci fissano nascosti nel buio? Forse sì, probabilmente i personaggi di Quattro capanne hanno avuto la possibilità di guardare la tigre negli occhi, in modi molto diversi. Il momento del risveglio, tuttavia, dev’essere necessariamente seguito da una pratica giornaliera di lavoro personale e intimo, di semplificazione. Sembrerebbe un discorso un po’ astratto messo così, me ne rendo conto. Si traduce tuttavia in: consumi minori e più consapevoli, un’attenzione diversa verso il selvaggio, l’altro, il diverso, gli animali non umani, i vegetali e una maggiore elasticità nell’affrontare gli imprevisti del quotidiano, che possono nascondere immense sorprese, o disastri catastrofici, da affrontare con quella lucidità di chi ha lavorato tanto profondamente sul proprio modo di stare al mondo da essere diventato quasi invisibile, il passo talmente leggero da non lasciare tracce.

Divenire Casa

 

«In questo periodo storico è tanto più urgente domandarci come possiamo alleggerire il nostro modo di abitare il pianeta, renderlo meno dannoso cercando di stabilire un legame equilibrato tra uomo e natura» (Andrea Staid), raggiungere la condizione del postumano contemporaneo che interagisca in modo differente con le specie che popolano il pianeta insieme a noi, anche e soprattutto attraverso una «filosofia del perdente», che lascia tutto in favore di una semplicità quasi ascetica, che torni a dare un significato simbolico e rituale, e sacro, agli avvenimenti e alla vita stessa. 

Prima di scrivere quest’ultimo paragrafo mi sono alzato per dare l’acqua alle piante. Ho controllato anche la terra delle piante grasse dentro casa e ho deciso di abbeverare anche loro. Mentre curavo questa relazione, nel mio piccolo e contraddittorio spazio abitativo, osservavo le pareti di casa e ricordavo la carta da parati e quanto è stata dura disfarsene, guardavo le serrande di legno e mi venivano in mente le ore passate a scartavetrarne le superfici. Tutti lavori fatti sotto la guida esperta di mio padre, stando accanto a lui. 

La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire di Andrea Staid è un libro che si basa proprio sul risignificare la casa imparando a costruirla. Ovviamente non si tratta soltanto o semplicemente di tornare a costruire le nostre case con le nostre mani, quanto piuttosto di incarnare un’attitudine all’autocostruzione, alla risignificazione, al fabbricare piuttosto che comprare. 

Riprendendo la lezione di Tim Ingold e del suo Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura (Raffaello Cortina, 2019) Andrea Staid teorizza, oltre un abitare, anche un costruire la propria casa che si traduce in una serie di pratiche, di azioni semplici che vanno dall’autocostruzione, l’autoproduzione e l’autogestione delle risorse comuni, in generale, e arrivano fino all’uso di saponi fatti in casa o alla riduzione dei rifiuti prodotti. «In questo senso il nostro modo di abitare è una costruzione simbolica che orienta le scelte, plasma i gesti, influenza i linguaggi, così come accade nelle relazioni con lo spazio che condividiamo non solo con altri esseri umani, ma anche con gli animali e le piante». In pratica ogni nostro gesto nell’ambiente in cui viviamo è una costruzione del nostro sé, così, scegliere delle comode serrande di plastica può essere molto più rapido e agevole che scartavetrare per ore le serrande di legno degli anni ’70 che ti ritrovi in casa e che hanno necessariamente bisogno di un’accurata manutenzione. A dispetto di ciò, come abbiamo visto, oltre a essere chiaramente una scelta più ecologica, può concorrere, insieme a innumerevoli altri gesti, a cambiare il nostro mondo, a partire dalla nostra casa. «Nel suo Making, Tim Ingold si spinge ancora più in là» scrive sempre Andrea Staid, «L’atto di pensare avviene nel coinvolgimento diretto con le pratiche situate nel contesto ecologico di materiali, natura, flussi, forze; anche la materia agisce, non è passiva». Vi sarebbe quindi un beneficio effettivo nell’autocostruzione, che si oppone alle politiche usa e getta di certe multinazionali del gusto (come Ikea, su cui Andrea Staid fa un discorso critico ben preciso e molto forte all’interno del libro) e si associa invece all’idea di una specifica agency dei materiali che ricorda molto l’interessante ragionamento proposto da Laura Tripaldi in Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali (effequ, 2020), per l’appunto.

Non è da tanto che ci siamo trasformati tutti in homo comfort; noi esseri umani abbiamo quasi sempre costruito la nostra abitazione con l’aiuto di qualche familiare o amico e questa pratica funzionava. Sono state le società industriali a cambiare tale dinamica, a togliere con leggi e cavilli burocratici la possibilità di costruirsi la casa. (Andrea Staid)

Da homo faber siamo diventati homo comfort, secondo Andrea Staid. Non riusciamo più a comunicare con i materiali della nostra casa perché non sappiamo nemmeno di cosa è fatta, o come è stata progettata e assemblata. E così, chiaramente, si riducono anche le nostre capacità di immaginare gli spazi, di possederli nel «tempo del mito», potenzialmente per l’eternità (da questa concezione del tempo dell’abitare, forse, proviene l’idea che i proprietari di casa originari infestino la propria dimora, in forma di spettri, anche dopo la loro morte biologica), abbiamo perso la facoltà di abitare veramente il luogo, del quale adesso non sappiamo più nulla. 

«Tornare a essere homo faber è una necessità per il futuro che costruiremo, significa imparare di nuovo a essere donne e uomini artefici, in grado di trasformare la realtà grazie alle proprie capacità pratiche e intellettuali», vuol dire riscoprire l’importanza di saper fare e di cercare di essere il più possibile autosufficienti – cosa che Staid ha imparato da comunità sparse in tutto il mondo ma che ha ritrovato anche in Italia, quando si è avvicinato a situazioni catastrofiche come quelle dei terremotati dell’Aquila dopo il sisma del 2016; e che ha messo in pratica personalmente, autocostruendo parte della casa dove abita attualmente, immersa nel selvaggio di una montagna sulla costa ligure, è riuscito anche a creare una quasi totale autosufficienza grazie al suo orto e alla sua fatica. 

Luca Molinari scrive piuttosto che «c’è da diffidare di chi prospetta un futuro felice di autocostruzione 2.0 perché non sono persone interessate a guardare a una massa crescente di fasce povere che dalle campagne del Sud del pianeta si muovono per popolare metropoli soggette a una crescita vertiginosa». Credo che in questo senso lo stesso Andrea Staid sarebbe in parte d’accordo, promuovendo egli stesso un ritorno all’attitudine dell’homo faber, un essere umano artefice dei propri spazi che sappia tenere conto delle complessità della vita pratica contemporanea. La sua proposta, a mio modo di vedere, ha molto a che fare con il lavoro su di sé che wittgeinsteiniamente suggeriva Caffo. Quanto ci propone di fare Andrea Staid sono piccole azioni pratiche che vanno sostenute giorno per giorno, orientando ogni nostra scelta verso un vivere differente, che non sia per tutti uguale ma che possa avere una stessa disposizione d’animo, un faro di segnalazione per non infrangersi sulla scogliera.

Nel libro di Andrea Staid troviamo anche alcuni spunti pratici rispetto all’autocostruzione, e all’autogestione più in generale, ma soprattutto nelle sue parole c’è l’esortazione forte di uno studioso molto sensibile e un attivista agguerrito, che vede l’antropologia come uno strumento per intraprendere il percorso che stiamo tracciando in queste pagine, di costruzione consapevole e lavoro costante sul proprio sé, per imparare nuovamente ad abitare, per poter indossare con rinnovata consapevolezza le proprie tre pelli: l’epidermide, le vesti e infine la propria dimora. 

Torniamo quindi al punto di partenza: come imparare nuovamente a costruire? Ascoltando l’insegnamento del grande Altro, ovvero di tutte quelle alterità troppo spesso ignorate. 

Il percorso dunque è il seguente: uscire, partire, viaggiare verso lo sconosciuto, il selvaggio, lasciare entrare il weird in casa nostra; e da qui, da questo punto di vista, da questa intuizione comprendiamo che qualcosa bisogna cambiare; e allora fare i conti con i propri demoni può significare proprio tentare di mettere insieme gli opposti, la diplomazia animale, comprendere il linguaggio delle foreste, ascoltare gli sciamani e allungare le braccia verso il cielo per aiutarli a sorreggerlo, senza volgere lo sguardo altrove, dove la monotonia rilassante e confortevole dell’abitare contemporaneo, svuotato di senso, genera un mondo dove non solo dio è morto ma non sono rimasti nemmeno gli spazi sacri o i rituali collettivi per tenerne viva la memoria; una coltre impossibile da dissipare, confusionaria e annichilente ci offusca lo sguardo. «La terra inaridita diventerà vuota e silenziosa» scriveva Davi Kopenawa nella profezia che menzionavo all’inizio del saggio, e gli spiriti xapiri «fuggiranno lontano», «non saranno in grado di respingere i fiumi dell’epidemia che ci divorano», perché stiamo rendendo questo pianeta inabitabile e irritabile, e se non faremo al più presto qualcosa per cambiare direzione e dimensione al nostro abitare, presto davvero la casa sarà totalmente ridotta in cenere, e non ci saranno più abitazioni, per nessuno. 

Prima di allora potremmo forse ancora rincorrere la speranza di cambiare il nostro modo di abitare il mondo, cercando di occupare gli spazi in armonia con gli altri esseri viventi, ricostruendo la nostra casa – dentro e fuori di noi –, impegnando noi stessi in un lavoro costante sul profondo e autentico Sé, imparando l’arte di scomparire, lasciando così spazio al grande Altro. Attraversare la soglia, alleggerire il passo, perfezionare il respiro: «Un lungo viaggio di mille miglia si comincia con il muovere un piede» (Lao Tzu), dunque cominciare a camminare, inoltrandoci in questo percorso senza fine che è l’essere-nel-mondo, ovunque ci porterà, con la consapevolezza estrema dell’eremita e lo sguardo attento del cacciatore. 


ANDREA CAFARELLA (MESSINA, 1989) HA VISSUTO E STUDIATO TRA ITALIA, FRANCIA, SPAGNA E STATI UNITI. NEL 2015 SI SPOSTA A ROMA PER LAVORARE NEL CAMPO DELL’EDITORIA. FINO A DICEMBRE 2019 HA LAVORATO COME LIBRAIO. COLLABORA ABITUALMENTE CON CATTEDRALE – OSSERVATORIO SUL RACCONTO, ALTRI ANIMALI, CRAPULACLUB E STANZA251 DOVE SCRIVE NARRATIVA E CRITICA LETTERARIA. HA PUBBLICATO RACCONTI E POESIE ANCHE SU NAZIONE INDIANA, LAHAR MAGAZINE, IL FOGLIO CLANDESTINO E ALTRI. INOLTRE, HA CURATO L’INTRODUZIONE A CONTROCIELO DI RENÉ DAUMAL, TITOLO CHE DA IL NOME ALL’INTERA COLLANA DI POESIA DI EDIZIONI TLÖN.

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