La natura del tempo ci sfugge sia quando ne abbiamo troppo sia quando ne abbiamo troppo poco; Francesco D’Isa ne parla con il professor Alberto Giovanni Biuso, filosofo e autore del libro Tempo e materia.
In copertina e nel testo: Elio Marchegiani, Barocco e oro (1988), Asta PAnanti online
di Francesco D’Isa e Alberto Giovanni Biuso
Quando ci si domanda che cosa sia il tempo spunta spesso la citazione di Sant’Agostino «se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so». Personalmente giudico il santo fin troppo sapiente (e ottimista) perché l’essenza del tempo è difficile da afferrare anche se nessuno ci interpella in merito. Da Oriente a Occidente, infatti, la filosofia ci ha abituato da millenni a complessi paradossi sulla natura del tempo, mentre la fisica dell’ultimo secolo piuttosto che dirimere la questione ha rincarato la dose. È anche per questo che giudico prezioso il lavoro di Alberto Giovanni Biuso, Professore Ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Catania, che nel suo ultimo libro Tempo e materia (Olschki editore) ha affrontato il tema coniugando diversi punti di vista, filosofici e scientifici, a favore di una tesi ben definita, che potrei sintetizzare con le sue parole: «Il fondamento dell’essere è il divenire. L’essere è divenire come gioco di identità e differenza». Piacevolmente colpito dal suo interessante libro e dal coraggio di affrontare questioni così grandi – la temuta metafisica – ho posto qualche domanda all’autore.
FD: Al pubblico non specializzato un libro di metafisica può sembrare inattuale, eppure concordo quando scrivi che:
«Ogni pensiero che si esprime sul mondo, ogni parola che dice il reale, ogni sentire estetico, concetto logico, legge fisica, hanno come fondamento una metafisica. Essa può rimanere implicita, può essere ignorata e può persino venire esplicitamente negata, e tuttavia essa sta all’origine di ogni costruzione concettuale – di qualunque genere essa sia –, ne scandisce l’andamento, ne determina gli esiti. Fisici, chimici, astronomi, biologi non possono conseguire risultati che non implichino sin da subito delle opzioni metafisiche».
Essendo un presupposto implicito in ogni scelta, la metafisica ha in qualche modo il potere di influire sulla vita quotidiana? Come ha inciso sulla tua vita?
AGB: Certo, la metafisica – e in generale la filosofia – incide totalmente sulla vita quotidiana, lo fa in modo particolare sulle vite di chi la coltiva esplicitamente. Nella mia esistenza ha inciso e incide in modo profondo, contribuendo ai miei gesti e ai miei pensieri quotidiani, oltre a determinare la direzione dei miei studi, dei corsi che tengo, dei testi che scrivo.
Pena una grossa semplificazione, al centro di Tempo e materia c’è soprattutto l’idea di un essere che coincide col divenire. A questa intuizione intrecci il pensiero di molti filosofi, ma in particolare ricorre la filosofia di Heidegger e di Eraclito. Un apporto considerevole è anche quello della scienza, tanto che un capitolo del libro (Una fisica del tempo) affianca alle argomentazioni filosofiche quelle della fisica e della chimica. Prima di entrare nel merito, mi diresti quale dovrebbe essere a tuo parere il rapporto tra scienza e filosofia – o più nello specifico tra fisica e metafisica?
Il rapporto tra ciò che chiamiamo oggi scienza e ciò che chiamiamo filosofia è sempre stato strettissimo, sia nel senso della collaborazione, continuità, reciproco arricchimento, sia nel senso del conflitto o di una gerarchizzazione che pone di volta in volta più in alto l’una o l’altra. Io credo e spero che i miei libri (non soltanto questo) testimonino che la relazione tra fisica e metafisica è naturale e necessaria. Una fisica che non sia consapevole dei suoi fondamenti metafisici si riduce a semplice tecnologia, cosa della quale i maggiori fisici del Novecento sono stati ben consci. Una metafisica ignara di ciò che viene scoperto, pensato, ipotizzato in ambito fisico rischia di mancare l’attrito che le consente di camminare in modo fecondo nello spirito del proprio tempo.
Scrivi che:
-->«Le equazioni della dinamica newtoniana e quantistica sono invarianti rispetto all’inversione temporale t → -t ma il tempo può apparire un’illusione soltanto se ci si ferma a un approccio puramente formale; la seconda legge della termodinamica mostra invece la realtà del mutamento e fa del tempo una variabile intrinseca dei sistemi fisici.»
e anche:
«Se dunque la meccanica classica, la relatività e la meccanica quantistica descrivono il mondo attraverso equazioni indifferenti al segno temporale – che non distinguono tra la direzione verso il passato e quella verso il futuro –, il secondo principio della termodinamica dimostra che in qualsiasi processo una parte dell’energia si disperde per sempre e non può più essere recuperata. Come più volte ricordato, il secondo principio afferma che tale grandezza aumenta sempre e che quindi la condizione futura di qualunque sistema isolato avrà un grado di entropia superiore a quello attuale».
Il tempo è dunque irreversibile e ha una direzione, due argomenti che vanno senza dubbio a favore dell’idea di un tempo-divenire. Come si concilia questo con la teoria del Big Bang, o meglio con la singolarità che dovrebbe aver dato inizio al tempo? Dico “aver dato inizio” metaforicamente, perché qui ogni espressione temporale è errata, ma d’altra parte il nostro linguaggio è inevitabilmente temporale. Esiste un meta-tempo, o un teatro degli eventi radicalmente altro in cui situare eventi come questo?
A questa domanda bisogna (tentare di) rispondere su due diversi livelli.
Per quanto riguarda il cosiddetto Big Bang, come tutte le teorie scientifiche è destinato a essere oltrepassato e questo sta già avvenendo. Si tratta infatti di poco più di una metafora. Una metafora che nella sua semplicità rischia di non dire nulla di utile, anche perché si tratta –come giustamente affermi– di una singolarità, che in fisica vuol dire qualcosa di sottratto alle leggi conosciute. Mi sembra, in altre parole, un paradigma già superato.
Altra questione, molto più importante, è il metatempo. La mia tesi è che non esista alcun metatempo (cosa che, tra l’altro, porterebbe a un regresso all’infinito) e che, come scrivo nel testo, non ci sia “un tempo nel quale gli eventi accadono ma l’accadere degli eventi è il tempo”.

Nel libro critichi il presentismo, che «sostiene la piena realtà soltanto del presente: il passato sarebbe una configurazione degli eventi ora dissolta, il futuro una configurazione potenziale ma non reale», sostenendo che «contrarre il presente a un istante irrelato significherebbe di fatto negarlo e quindi negare il presupposto stesso del presentismo». La tua critica all’eternalismo, invece, mi convince meno. Scrivi che
«L’eternalismo afferma che passato, presente e futuro sono reali allo stesso modo, che l’adesso è una configurazione tra le tante della realtà. Per gli eternalisti l’universo è una struttura statica nella quale il divenire somiglia allo sfogliare un album di immagini, tutte ferme e racchiuse in un contenitore molteplice al proprio interno ma anch’esso immobile nella sua struttura. Questo universo-blocco è in realtà una versione matematica e formale dell’Uno parmenideo, il quale rappresenta una chiara e radicale espressione di ciò che oggi chiamiamo eternalismo. Se infatti l’adesso, il già stato e il sarà sono nomi diversi di una struttura che in quanto tale è immutabile e statica, il tempo diventa illusorio, come infatti per Parmenide è illusorio il divenire».
La tua principale critica è che:
«l’eternalismo confligge con uno dei paradigmi più importanti delle scienze contemporanee: l’evoluzione. In un universo eternalista, infatti, la percezione del tempo – fortissima e costitutiva di ogni essere vivente – non avrebbe il vantaggio evolutivo che invece evidentemente possiede. In realtà, la percezione del tempo e del suo divenire è talmente intrinseca al vivente da non rendere né ontologicamente possibile né epistemologicamente pensabile una struttura animale e vegetale che non sia fatta di processi temporali a partire dalla sua genesi, sviluppo, metabolismo, morte».
Ma perché confligge con l’evoluzione? Se immagino il tempo come lo spazio, di cui ho una percezione più o meno ampia e precisa (vedo questo computer e anche degli alberi laggiù alla finestra, ma non la superficie della Luna), posso immaginare che gli esseri viventi che “vedono” il futuro con una minore miopia siano avvantaggiati evolutivamente. L’eternalismo non considera l’identità come un divenire, ma come un “divenuto” in cui l’essere umano è una specie di “verme quadrimensionale” che va dalla sua nascita alla sua morte. Da un punto di vista evoluzionista si potrebbe dire che chi percepisce meglio il futuro sarà probabilmente un “verme” più lungo.
Questa interessante obiezione è significativa delle posizioni eternaliste, le quali presuppongono – come ho osservato prima – un tempo nel quale gli eventi accadono, allo stesso modo in cui si presuppone uno spazio dentro il quale posso camminare in una o in altra direzione. Si tratta dunque dell’ennesima conseguenza della spazializzazione del tempo, come in modo esplicito affermi. Spazializzazione della quale cerco di mostrare l’implausibilità e sterilità ai fini di comprendere lo statuto proprio del tempo e non soltanto quello dello spaziotempo. Aggiungo, più semplicemente, che dal punto di vista logico e linguistico il concetto e la parola evoluzione mi sembrano davvero incompatibili con qualunque negazione o immobilizzazione del tempodivenire. Sarebbe come dire che esiste l’acqua senza che però esista la liquidità, di più: sarebbe come dire che esista l’acqua senza che esista la materia.
Mi sembra che il tempo come divenire si possa sviluppare in almeno tre modi: può essere ciclico (un eterno ritorno alla Nietzsche), infinito e in evoluzione continua, oppure infinito e monotono (simile a quello prospettato dalla morte termica dell’universo, per esempio). Soprattutto quest’ultimo caso mi incuriosisce, perché darebbe una conclusione al divenire senza annullarlo: metaforicamente, è una pallina da ping-pong che rimbalza all’infinito; il tempo scorre ma sempre identico. Qual è la tua opinione?
Come l’essere e come la metafisica, io credo che anche il tempo si dica πολλαχῶς, in molti modi. E dunque siano plausibili e consistenti le ipotesi che hai riassunto e anche altre. La mia tesi (non soltanto mia naturalmente) è quella che hai espresso dicendo “infinito e in evoluzione continua” e che dunque il tempo non abbia alcun inizio e non avrà alcuna fine, perché è l’essere stesso. Se l’essere non fosse eterno non ci sarebbe proprio, come ha ben mostrato anche Spinoza. La sua eternità consiste precisamente nel suo divenire. Credo che questo sia uno dei portati più fecondi della termodinamica al modo in cui è stata riformulata nel Novecento da Ilya Prigogine.
Ti propongo un piccolo enigma: immagina un evento della durata di un secondo, come un battito di mani. Supponi ora che tra il tocco e il rilascio dei palmi trascorra un altro intervallo di tempo, in cui in tutto l’universo (o in tutti gli universi) non accade nulla. Non solo tu, la tua mente e le tue mani restate immobili, ma nulla si muove o cambia, né qui né in alcun luogo – non un capello, un pianeta o una divinità: una stasi assoluta. Poi tutto riprende, senza motivo come senza motivo si è fermato. Questo periodo di completa immobilità trascorre realmente? Se così fosse, potrebbe durare un secondo, un minuto, un giorno o un milione di anni, perché se in questo intervallo di tempo non accade nulla, non puoi stabilirne la durata: tra ogni istante si nasconde un tempo infinito?
È un esperimento mentale simile a quello proposto nel 1969 da Sidney Shoemaker. Condivido la sua ipotesi e provo a riassumerla. L’esperimento mentale consiste nell’immaginare che il nostro mondo sia diviso in tre grandi regioni – A, B e C – nelle quali a esatti intervalli accade un fenomeno singolare, un “local freeze” come quello da te immaginato, che congela tutti gli eventi immobilizzandoli per un certo periodo senza che gli abitanti della regione interessata ne abbiano alcuna consapevolezza e senza che quelli delle altre regioni possano entrare nella zona coinvolta da questo fenomeno. Finito il “fermo” tutto ricomincia esattamente dall’istante in cui si era interrotto. Frasi lasciate a metà vengono completate senza che chi le pronuncia e chi le ascolta abbia avuto alcun sentore del tempo trascorso. Tempo che invece è rimasto ben presente agli abitanti delle altre due regioni mentre osservavano l’immobilità della terza zona.
Un primo risultato è quindi che il tempo possa trascorrere senza che ovunque e sempre vi accadano dei mutamenti. Shoemaker rende più radicale il suo esperimento immaginando un alternarsi differenziato e rigoroso di tale local freeze. Infatti ipotizza che nella regione A il fenomeno si verifichi ogni tre anni, nella B ogni quattro e nella C ogni cinque. L’effetto matematico di tale rotazione è che il fermo avvenga simultaneamente nelle regioni A e B ogni dodici anni, nelle zone A e C ogni quindici, nelle B e C ogni venti. E che tutto si fermi contemporaneamente nelle tre regioni ogni sessanta anni. Il risultato è che esistono intervalli di tempo anche quando non si muove e modifica alcunché e che quindi abbia torto Aristotele a far dipendere il tempo dal mutamento. La struttura dell’essere è temporale persino quando essa viene congelata in una stasi che annulla ogni e qualsiasi mutamento. Shoemaker ha ragione: anche se fosse possibile fermare il movimento/mutamento aristotelico, non sarebbe in ogni caso possibile annullare il tempo. Il quale non possiede dunque una struttura discreta ma continua, gli eventi non sono elementi separati che accadono su uno sfondo dato ma costituiscono l’esistenza stessa dello sfondo e del suo fluire. È quello che ho cercato di argomentare poco fa e, direi, in tutto Tempo e materia.
Probabilmente è una mia impressione sbagliata, ma c’è qualcosa nell’esperimento che non mi convince. Nel caso dei local freeze alternati, il tempo scorre perché solo una delle tre porzioni dell’universo è immobilizzata, dunque non si tratta di una stasi completa. Questa prima ipotesi mi torna. Quando tutte le porzioni si fermano perché i periodi di stasi si intrecciano però, l’autore sostiene che il tempo continui a scorrere. Immagino che il motivo sia perché altrimenti verrebbe meno la regola dell’alternanza e nessuna porzione potrebbe più sbloccarsi. Ma questa regola in base a quale riferimento si calcola? Nei casi privi di sincronia viene assunta in base al normale scorrere del tempo delle porzioni non immobilizzate, ma quando sono tutte immobili il riferimento sottinteso mi pare esterno a queste tre parti (come da un’ipotetica parte numero 4) o un meta-tempo che continua a scorrere, come in un silenzioso conteggio.
Mi spiego meglio: in un qualunque momento in cui nessuna delle porzioni è ferma, potrebbe accadere che tutte le porzioni si blocchino per un “tempo indefinito”, ma sulla base di questa stasi irrintracciabile non si potrebbe dedurre alcuna nuova regola. Che la regola dell’alternanza continui a funzionare con i medesimi ritmi anche quanto tutto è statico, o è un’assunzione assiomatica priva di valenza dimostrativa, o è un’ipotesi non verificabile, basata sulla fiducia degli ipotetici abitanti di queste porzioni nella regolarità dei local freeze propri e altrui, calcolata però in base a un tempo privo di stasi. In breve, l’esperimento di Shoemaker mi sembra dia per scontato il tempo nel tentativo di dimostrarlo, un po’ come un esperimento che cercasse di dimostrare il valore della forza di gravità anche se non esistesse più alcun oggetto dotato di massa dicendo che se esistessero ne sarebbero soggetti.
Capisco l’obiezione, alla quale l’unico legittimato a rispondere sarebbe…Shoemaker. Provo a farlo io, con le mie modeste forze. Si tratta di un esperimento mentale che funziona per analogia: se accettiamo che non ci sia alcuna ragione di reputare il tempo fermo quando il movimento si ferma nelle regioni A e B e però continua ad accadere nella regione C, non ci sono ragioni per escludere che esso continui a scorrere anche quando il movimento si ferma nelle regioni A, B e C. In caso contrario si darebbe un primato ontologico ingiustificato a una o più regioni rispetto alle altre. Inoltre, e diversamente da una tua affermazione (“fiducia degli ipotetici abitanti”), non conta nulla che gli abitanti di una e di tutte le zone siano consapevoli del local freeze. E infatti non lo sono. Perché il divenire è ontologico non psicologico. Questo a me sembra fondamentale nella posizione di Shoemaker.
In ogni caso, si tratta di un esperimento mentale che ipotizza qualcosa che di fatto non si dà. E non si dà perché il movimento non si ferma e neppure il tempo. E movimento e tempo non si fermano perché… lo si scoprirà leggendo tutto il libro :–)
Intervista veramente interessante, anche se (inevitabilmente) complessa.