Il Re di Kowloon è un’icona di resistenza di Hong Kong, i cui graffiti ante litteram hanno incarnato e ispirato la personalità della città, luogo di scomparsa e ricomparsa, potere e impotenza, perdita e rivendicazione.
IN COPERTINA e lungo il testo, un’opera del re di Hong Kong
Questo testo è tratto da La città indelebile di Louisa Lim. Ringraziamo Add editrice per la gentile concessione.
di Louisa Lim
Ero stregata da quel movimento che cresceva davanti ai miei occhi, e in special modo dall’esplosione di scritte cinesi sovversive negli spazi pubblici, che convertivano la metropoli in una galleria di idee populiste a cielo aperto in continua evoluzione. Tali installazioni furono battezzate «muri di John Lennon», in omaggio al muro praghese decorato con slogan della controcultura fin dalla morte del cantante, nei primi anni Ottanta. Il primo Lennon Wall a Hong Kong fu inaugurato nel 2014 dalle proteste pro-democrazia del Movimento degli ombrelli, i cui manifestanti avevano tappezzato di post-it una scala a chiocciola in cemento nei pressi di un palazzo del governo. All’epoca avevo visitato quel muro tutti i giorni e iniziai a fare lo stesso anche stavolta; ma non ci volle molto perché i post-it si emancipassero dai muri per dar vita a sentieri, cavalcavia, marciapiedi di John Lennon. Ben presto non riuscii più a tenere il passo.
In Cina, le radici della parola scritta affondano per più di tremilasettecento anni nel passato. Qualche accademico arriva perfino a teorizzare che l’origine della scrittura cinese preceda quella della lingua parlata. I reperti più antichi sono pittogrammi noti come jiaguwen, o «ossa oracolari», iscrizioni incise con arnesi aguzzi su gusci di testuggine e scapole di bue ai tempi della dinastia Shang, nel XVII secolo a.e.v. I rituali propiziatori in cui erano usati riguardavano ogni sorta d’affare di Stato: quando seminare i campi, quali giorni fossero più propizi per celebrare cerimonie e quali per dichiarare guerra. Le ossa venivano scaldate fino a rompersi, e la risposta al quesito posto era divinata in base alla forma della frattura risultante. Fin dal principio, quindi, la scrittura cinese fu intrisa d’autorità politica e spirituale; il primo carattere per «carattere scritto», zi 字, si compone degli elementi 子, «figlio», sotto un 宀, «tetto». Insieme, significano letteralmente «nuovo nato in casa». Il significato iniziale di 字 era quindi «partorire», «generare», «dare alla luce», mutatosi col tempo in «allevare», «accudire», «educare», «governare» e «amministrare». Riprendendo un motto del grande, compianto sinologo Simon Leys: in Cina, in principio fu la parola, e quella parola fu parola.
Nella tradizione culturale cinese, la calligrafia è sia l’apogeo di tutte le forme d’arte sia uno strumento di potere. Se le piazze europee si popolano di statue di individui celebri, in Cina spazi analoghi pullulano di stele o targhe in pietra recanti testi incisi. Lo stesso vale per l’odierna Cina comunista, in cui l’atipica grafia inclinata a destra del presidente Mao Zedong campeggia tuttora su insegne di palazzi e testate giornalistiche. L’attuale presidente cinese, Xi Jinping, ha perfino adottato una firma «stile Mao», quasi che appropriarsi della sua scrittura possa anche infondergli un po’ del potere che fu di quel maestro calligrafo e poeta. La qualità dei tratti di pennello dei passati imperatori era prova della loro erudizione, sensibilità estetica e abilità poetica, e forniva perfino indizi sullo stile della loro leadership. L’apprezzamento della calligrafia, poi, è esso stesso una forma d’arte, poiché un vero estimatore non si limita a leggere il testo, ma ripercorre con la mente la fugace danza del pennello sulla pagina, un atto che lo stesso Leys descrisse come «una comunione ideale con le dinamiche della pennellata».
Il Re di Kowloon gettò prepotentemente al vento tali usanze, con colpi di pennello che urlavano a gran voce la sua carenza d’istruzione. Mentre crescevo, i suoi caratteri erano ovunque negli spazi pubblici di Hong Kong: strisciavano come ragni giù per i lampioni e lungo i muri, su marciapiedi e viadotti, sfarfallando ai margini del mio campo visivo durante una corsa in minibus. Lui stesso era un caposaldo del paesaggio urbano: malfermo sulle stampelle con sacchi di plastica che dondolavano dai manici, la sua granchiesca sagoma dalle gambe storte era tanto iconica che i pedoni, scorgendolo da lontano, attraversavano per evitarlo. Nel vederlo passare, i genitori coprivano gli occhi ai figli e borbottavano «Chi-sin a! Matto!». Divenne perfino un insulto da parco giochi. «Sei il Re di Kowloon!», si sentivano dire i bimbi più lenti, o strambi, o poveri: gli emarginati, insomma.
I dettagli della biografia di Tsang sono quanto mai vaghi, ma pare accertato che nacque nella provincia del Guangdong, nel villaggio di Liantang nella prefettura di Zhaoqing. Iniziò la scuola a nove anni, e l’abbandonò appena due anni più tardi. A sedici anni attraversò il confine con Hong Kong, lavorando come coltivatore di verdure nei pressi di Choi Hung e Lion Rock. In seguito lavorò come operaio prima in un’azienda di materiali edili, poi presso un centro di raccolta rifiuti. Nel 1956 sposò Man Fuk-choi, originaria del villaggio di San Tin nei Nuovi Territori, terra natia del clan Man che fondò Hong Kong sotto la dinastia Song. La coppia ebbe otto figli, tre dei quali morirono nella prima infanzia.
Per quanto abbia chiesto in giro, nessuno ha mai saputo darmi una versione definitiva del momento in cui il Re ebbe la propria epifania. C’è chi afferma che, tornato al villaggio ancestrale per aggiungere il nome della moglie ai registri di famiglia, avesse rinvenuto antichi documenti che prova- vano che la penisola di Kowloon appartenesse originariamente al suo clan, prima di venirgli confiscata senza alcun indennizzo dopo l’atto di cessione; nessuno con cui io abbia parlato, però, ha mai visto tali carte. In realtà, nessuno ha mai visto nemmeno il villaggio: uno dei suoi reggenti autoproclamati organizzò un’escursione, ma non riuscì a determinare quale, tra i molti villaggi omonimi della regione, fosse il Liantang corretto.
-->Un altro aneddoto narra che Tsang fu investito da un’auto a metà anni Cinquanta, mentre passeggiava nei pressi del tempio dei Signori delle Tre Montagne a Ngau Chi Wan. Quando riprese i sensi, la prima cosa su cui posò gli occhi annebbiati furono le parole 國 «nazione» e 王 «re», scritte in tratti spessi e squadrati su una lanterna all’esterno del tempio. I due caratteri divennero la chiave di volta delle sue muraglie testuali, torreggianti sopra tutti gli altri. Insieme scandiscono l’appellativo 國王, «Re della Nazione», benché talvolta si firmasse 國皇, «Imperatore della Nazione». Per tale motivo, sebbene in inglese si parli di lui come «the King of Kowloon», il suo titolo cinese è sempre stato «l’Imperatore di Kowloon».
Il Re iniziò a scrivere in pubblico intorno al 1956, e fu subito additato come un vandalo e un lunatico. Negli anni Sessanta venne accusato di aver sfondato con un sasso la finestra di un ufficio postale, e fu internato per diciotto mesi nel reparto psichiatrico del famigerato ospedale di Castle Peak. Dopo il rilascio proseguì la campagna graffitara, incanalando la propria ira in spesse sferzate nere sulle mura delle proprietà governative. Della sua sanità mentale si poteva forse dubitare, ma non della coerenza dei suoi metodi. «Tutti gli imperatori cinesi», affermava, «furono calligrafi.» Nel 1970 comparve per la prima volta in un quotidiano locale, in cui si menzionavano i «decreti imperiali» da lui impressi sugli spazi pubblici. L’articolo ne descriveva il domicilio sul fianco di una collina in una piccola baracca di legno, che lui chiamava il suo «palazzo». All’esterno campeggiava una sorta di cartello, in legno anch’esso, recante quattro caratteri: 國泰民安, «La nazione prospera e il suo popolo vive in armonia». A un certo punto degli anni Ottanta fu vittima di un incidente sul lavoro – si dice che un cassonetto gli schiacciò le gambe – che lo costrinse all’uso delle stampelle.
Il dado era tratto. Gli altri potevano considerarlo un vecchio storpio e mentalmente instabile che puzzava come una discarica, ma lui si riteneva un re, e per lui non sarebbe mai esistita altra realtà che quella. Talvolta, per andare sul sicuro, si autoproclamava «imperatore di Cina e Inghilterra». Tutti intorno a lui erano suoi sudditi, un sentimento cui dava occasionalmente voce: «In quanto re, non posso mescolarmi a voi gente comune».
Simon Go Man-ching, un fotoreporter rimasto affascinato dai caratteristici graffiti che aveva visto proliferare ovunque quando studiava al Politecnico di Hong Kong nei primi anni Novanta, iniziò a tenere un registro degli scritti pubblici di Tsang. Quando circolò la voce che il Re fosse morto, Go cercò di rintracciarlo senza posa per due giorni, braccandolo come un cacciatore urbano finché rinvenne il suo indirizzo («in residenza presso la tenuta Tsui Ping») in uno dei suoi graffiti. Fu così che riuscì infine a rintracciare Tsang Tsou-choi, nel suo appartamento al diciottesimo piano di una palazzina di alloggi popolari a Kwun Tong, distretto industriale abitato dalla classe operaia di Kowloon sulla costa settentrionale dell’isola di Hong Kong.
A seguire, Go divenne il primo dei sedicenti vassalli che si premuravano di far visita al Re ogni tot settimane, portandogli materiali per dipingere, pranzi al sacco a base di carne, e lattine di Coca-Cola. La famiglia di Tsang non viveva con lui; c’era chi sosteneva che la moglie gli portasse qualcosa da mangiare tutti i giorni, ma a sentir lui i familiari lo avevano ripudiato. «Mia moglie è venuta a trovarmi e mi ha dato del pazzo. Ha detto che danneggiare quell’ufficio postale è stato un reato grave», disse a una troupe di documentaristi. «Hanno detto che li avrei trascinati a fondo con me, che sarei morto in carcere.»
Go lo vedeva come un anziano solitario e ne assecondava le manie, rivolgendosi sempre a lui come «Maestà». Un giorno, essendosi dimenticato di portargli inchiostro e pennelli, Go si scusò e domandò in tono scherzoso se, da fedele suddito qual era, dovesse togliersi la vita per fare ammenda. Il Re rispose, con la massima serietà: «Non serve. È tutto a posto». Un altro fan, il fotografo Birdy Chu, serba il ricordo di una corsa in taxi al termine della quale, discutendo su dove scendere dal veicolo senza sostare illegalmente su una linea gialla, il Re proclamò solenne: «Io sono il Re. Sono il Re e scendo dove mi pare». Le regole comuni non si applicavano a un sovrano. Per Go, la legittimità delle affermazioni del Re circa il proprio lignaggio era irrilevante. «Credo si tratti di una storia, o Storia, del tutto personale», diceva. «Per lui è una cosa di importanza vitale, mentre per me non ne ha alcuna.»
I parenti del Re non gradivano l’interesse di estranei. Uno dei figli intimò a Go di lasciare subito gli alloggi di Tsang, o avrebbe chiamato la polizia. Il curatore Lau Kin-wai, subentratogli come reggente de facto, ricorda che uno di loro rispose al suo bussare con «Andate via! È morto!». Ma se i parenti del Re potevano limitarne i contatti, non potevano invece arginarne il fluviale flusso di parole, sebbene fossero tanto costernati per le sue attività da rifiutarsi di approvarle e, pare, di trarne alcun profitto. Né potevano impedirgli di includerli nelle sue opere: il Re citava la moglie Man Fuk- choi come «l’Imperatrice», e tracciava con somma cura i nomi dei figli, i suoi «delfini». Dopo che le figlie traslocarono all’estero – una nel Regno Unito, l’altra nei Paesi Bassi – lo si sentì talvolta dire che stavano prendendo il tè con le regine d’Olanda e Inghilterra. Occasionalmente i suoi lavori includevano termini inglesi del tutto casuali, come reach (raggiungere) o snowman (pupazzo di neve).
Nel 1997, appena prima che Hong Kong tornasse sotto l’autorità cinese, Tsang Tsou-choi tenne una mostra. Fu un evento clamoroso, un circo, uno scandalo, una farsa. L’ambiente artistico ne fu oltraggiato, e non un solo pezzo fu venduto. Il giorno seguente il Re era di nuovo in strada, a marcare il proprio regno come aveva sempre fatto.
Col tempo, incontrò il successo commerciale che gli era a lungo sfuggito. Nel 2003 fu il primo hongkonghese a rappresentare il territorio alla prestigiosa Biennale di Venezia. Girò cammei per film locali, si scrissero su di lui poesie e canzoni, e la sua fetida maglietta autografata comparve nelle raffinate sale d’asta di Sotheby’s a Londra. La sua calligrafia storta e claustrofobica strisciò giù dai muri per accalcarsi su lenzuola, biancheria, sacchetti della spesa e infine su bottiglie di whisky, t-shirt, arredi di Starbucks e scarpe da ginnastica firmate, divenuta ormai essa stessa un prodotto commerciale. Tuttavia, il Re restò inflessibile riguardo al proprio ruolo. Nel 2005, in una rara intervista, dichiarò: «Dovrebbero soltanto restituirmi il trono. Io non sono un artista. Sono il Re e basta».
Le sue invettive erano lettere d’amore tanto al territorio quanto alla famiglia perduta. Malgrado le obiezioni, continuò a scrivere in strada fino al 2004, anno in cui incendiò accidentalmente il proprio appartamento e, per la sua incolumità, fu mandato a vivere in una residenza per anziani.
Nel corso degli anni, la costanza del suo messaggio diventò per gli hongkonghesi una fonte di conforto. Il nostro passato veniva messo in dubbio e il nostro futuro era incerto, ma il Re di Kowloon seguitava imperterrito ad autoproclamarsi nostro sovrano come aveva fatto per mezzo secolo, narrando una storia di espropriazione in cui udivamo l’eco di noi stessi. Si poteva considerarlo solo un gioco, qualcosa di cui sorridere, ma l’ostinata audacia della sua sfida al sistema elevava quei caratteri maldestri e deformati a un atto di fede ripetuto giorno dopo giorno, che affermava il nostro diritto a un lembo di terra e ne rivendicava il possesso. Come artista fu Banksy prima di Banksy e Keith Haring prima di Keith Haring, ma la sfacciataggine dei suoi proclami e la durata della sua campagna lo innalzavano a una categoria a sé stante. Nemmeno Davide e Golia potevano rendere giustizia alla radicale asimmetria di forze rappresentata da un pensionato ossessivo, con disabilità mentali e fisiche che ogni mattina si alzava dal letto per sfidare due superpotenze globali.
La leggenda del Re mi affascinava, in particolare perché c’era così poco di certo riguardo alla sua vita. Perfino le persone a lui più vicine non sapevano dire se fosse mentalmente lucido. Alcuni affermavano che fosse schizofrenico, altri che soffrisse di personalità multiple o di semplici allucinazioni; altri ancora che stesse benissimo e fosse un ottimo giocatore di mahjong, con cui si intratteneva spesso insieme agli inquilini della porta accanto. C’era chi lo riteneva affabile, chi invece incoerente. Da giornalista con un debole per le storie impossibili da raccontare, quell’elemento di mistero mi appassionava tanto quanto il suo ruolo di icona totemica nata dal nulla. Verso di lui, però, provavo anche un profondo e intimo senso di fratellanza.
Avevo studiato calligrafia dapprima come studentessa di cinese a Pechino nei primi anni Novanta, e poi durante il mio primo impiego come editor e traduttrice in una casa editrice di proprietà statale, pochi anni dopo. Come piccolo ingranaggio nella macchina mediatica cinese, i miei giorni erano dediti a «ripulire» risme di indecifrabile, assurda propaganda, solo per poi scoprire che ogni errore da me rimosso era stato ripristinato dal mio editore, terrorizzato di perdere la faccia accettando tali correzioni. Il progetto che riassunse il mio intero soggiorno in tale ambiente fu la traduzione in inglese delle opere di un eminente – ed eminentemente noioso – esperto di macroeconomia. Riuscii a finirne di mio pugno un unico capitolo, ma un amico ci sgobbò sopra per mesi. Nel preciso istante in cui l’immenso tomo fu ultimato, l’esperto in questione uscì dalle grazie del Partito e l’intero progetto fu archiviato.
Il lavoro era terribilmente tedioso, ma trattandosi di uffici statali gli orari erano in realtà assai rilassati: pause pranzo di due ore – nelle quali i miei colleghi facevano tappa al mercato ortofrutticolo o facevano il bagno negli appositi locali interni all’ufficio – e pause ping-pong di mezz’ora sia al mattino che al pomeriggio. Dovendo ammazzare il tempo in qualche modo mi dedicai così alla calligrafia, trascorrendo le mie pause a riempire sottili fogli di carta bruna di caratteri incerti e deformati. Mi chiedo se sia una coincidenza che in tante lingue occidentali il termine «carattere» abbia due significati, denotando sia quelli della scrittura cinese sia la gamma di virtù e difetti che compongono una personalità. Adoravo la sobrietà meditativa dell’arte calligrafica, l’idea che la sinuosità e la grazia delle pennellate riflettessero l’intimità dello scrittore, benché fossi lievemente in ansia riguardo a cosa potessero significare i miei scarabocchi storti e traballanti.
Una volta a settimana arrotolavo i fogli marroncini, li infilavo in uno zaino e pedalavo fino a casa del mio maestro: un anziano, arcigno tiranno della vecchia scuola che non si era fatto scrupoli nel comunicarmi quanto avesse svilito i propri standard accettando come sua discepola una straniera laowai come la sottoscritta. Dire che incoraggiasse i miei sforzi sarebbe un’esagerazione; fra noi vigeva la muta consapevolezza che permettermi di continuare a seguire i suoi corsi era un atto di pura e semplice magnanimità, senza la minima speranza circa le mie possibilità di migliorare.
La calligrafia esige disciplina, in special modo per domare e imbrigliare il potere del tradizionale pennello di donnola. È molto più arduo di quanto possa sembrare, e richiede un notevole dispendio simultaneo di attenzione, controllo muscolare e abilità artistica. L’arte in sé è eccezionalmente codificata: ogni carattere è formato da una serie di pennellate da tracciarsi in un preciso ordine, ognuna con un proprio nome e richiedente una tecnica specifica.
Si prenda il tratto orizzontale, heng. A un neofita parrà un banalissimo trattino, tracciato casualmente sulla pagina. Eppure, per mesi e mesi questa pennellata si prese gioco di me con la sua ingannevole semplicità: la sua singola, energica sferzata racchiude un microcosmo di convenzioni implicite che un profano nemmeno noterebbe. Per prima cosa, il calligrafo inclina il pennello per donare un’elegante pendenza al lato sinistro del tratto, e l’accompagna poi lungo la pagina, rilasciando dolcemente la pressione. Il momento cruciale si presenta all’estremità destra del tratto, dove l’artista deve far compiere alla punta del pennello una scattante inversione in senso orario, creando così una piega raffinata che bilancia quel lato dello heng.
L’inchiostro presenta un’altra serie di difficoltà. Lo si acquista sotto forma di barrette compatte dal tipico odore di fuliggine, che vanno macinate con la giusta dose d’acqua: troppo poca e l’inchiostro risulterà spesso e colloso; troppa e i toni color ebano sfumeranno in grigio e inzupperà la pagina, sottile come carta velina, rendendola un ingestibile acquitrino. La calligrafia è una pratica artistica severa: per tracciare un carattere perfetto, ogni elemento dovrà esserlo. Qualsiasi errore è indelebile, senza spazi per ripensamenti, seconde occasioni o reti di sicurezza; la debolezza non si può nascondere né mascherare. L’ascetica semplicità di questa forma d’arte è eccezionalmente ostica per i neofiti. Per settimane – mesi, a essere onesta – cercai di padroneggiare quel singolo heng, ma i miei tratti mancavano di leggiadria: non fluivano, non si libravano. Più provavo, più zoppicavano e si disperdevano. I greggi di heng che mi sforzavo di condurre da un capo all’altro della pagina si ribellavano, afflosciandosi e accasciandosi, sformandosi e ciondolando come filamenti tremuli e spossati.
Di settimana in settimana, l’espressione del mio maestro mentre guardava le mie risme di fogli di prova dichiarava che non stavo rispondendo alle sue attese. Un’allieva cinese non sarebbe andata oltre, ma – forse mosso da pietà – mi consentì ugualmente di laurearmi dal singolo tratto del nu- mero uno (一) al due (二) e infine al tre (三). La mia eccitazione nel progredire oltre il trattino singolo fu smorzata dal fatto che stavo ancora tracciando nient’altro che heng, solo in numero maggiore, il che non faceva che complicare esponenzialmente la sfida. Non solo ogni singolo tratto doveva essere perfettamente bilanciato: ora le pennellate dovevano esistere in armonia l’una con l’altra.
La calligrafia è in parte una forma di meditazione, i cui aspetti spirituali e psicologici la rendono un’attività olistica che riflette ogni sfaccettatura dell’indole dello scrittore. Lo si afferma senza mezzi termini in un manuale del VII secolo, che dichiara: «Il calligrafo dotato di forza e vigore è affine al
saggio; quello che difetta di entrambi è infermo. La scrittura di ognuno è espressione della sua respirazione e digestione d’energia». In altre parole, la mia incapacità di tracciare alla perfezione un solo heng rappresentava un fallimento su tutti i fronti sia della mia abilità artistica che del mio carattere, incluse la mia capacità di concentrarmi, la forza interiore e la fibra morale. Aspiravo a uno stato d’equilibrio e quiete simile al nirvana, ma il mio cervello di primate e le mie mani tremolanti mi tradivano.
Tutto ciò rientrava – ne ero ben consapevole – in uno schema ricorrente: un’abitudine inconscia a scegliere hobby che detesto, infliggendomi negli anni attività come il violino, il birdwatching, il paracadutismo e infine la corsa, sport che odio con tutta me stessa eppure pratico religiosamente da sei anni. Non sorprenderà che in tali hobby sia anche abituata a fallire miseramente: sono troppo stonata per la musica, troppo irrequieta per osservare uccelli, troppo paurosa per gettarmi nel vuoto con un paracadute; quando corro, lo faccio con la grazia di un’oca con l’artrite. Eppure, mi piace pensare che vi sia un che di nobile nel tentare di padroneggiare un’abilità alla quale si è del tutto inadeguati.
Quando mi misi a studiare la calligrafia mio padre, fra sé e sé, ne fu entusiasta. Il padre, Lim Keng-chew, era stato un accademico, e lui aveva sempre covato la speranza che una di noi tre figlie ne avrebbe in qualche modo seguito le orme. Negli anni Ottanta dell’Ottocento il nonno, stufo della corruzione, aveva abbandonato il villaggio natio di Xiamen nel Fujian per trasferirsi a Singapore, dov’era stato fra i membri fondatori del Tongmenghui, il movimento con cui Sun Yat-sen rovesciò l’ultima dinastia cinese, i Qing. La sua bottega di ciabattino contribuì a finanziare la rivoluzione, fornendo alle truppe fondi e scarpe. Era stato un patriarca, con quattro mogli – tre simultaneamente sotto lo stesso tetto – e così tanti figli che nessuno potrebbe mai comporre il nostro albero genealogico. Nostro padre Lim Poh-chye, ultimo nato dalla quarta moglie, ebbe sei fratelli e una sorella dalla stessa madre, e innumerevoli fratellastri e sorellastre. Le nostre riunioni di famiglia sono occasioni epiche: l’ultima volta che ho visitato Singapore, un piccolo pranzo per parenti stretti si è trasformato in una rimpatriata di sessanta persone in cui il passatempo più popolare era battibeccare allegramente riguardo all’identità di quei membri della famiglia che nessuno riusciva a riconoscere.
Quando Singapore fu invasa dal Giappone, mio padre fu costretto a dare alle fiamme il lavoro della vita di mio nonno. I giapponesi stavano prendendo di mira gli intellettuali, e la mia famiglia dovette sbarazzarsi di ogni prova della propria educazione. Al figlio più giovane, così piccolo da essere insospettabile di qualsiasi sotterfugio, fu affidato il compito di appiccare il falò. L’unico frammento sopravvissuto delle opere di mio nonno è una singola poesia di venti caratteri, così complessa che nessuno è mai riuscito a decifrarne l’esatto significato. La sua pietra da inchiostro finì con l’essere oggetto di una sgradevole disputa fra mio padre e uno dei miei zii: guidato da sbiaditi ricordi del proprio genitore, mio padre ha sempre sognato di passare la vecchiaia come un intellettuale d’altri tempi, circondato dai «quattro tesori dello studio» – carta, pennello, inchiostro e pietra da inchiostro – intento a tracciare caratteri sublimi con il pennello che accarezza dolcemente la carta di riso, come un barcaiolo che scivola sul pelo dell’acqua nella calura estiva. Quando iniziai a praticare la calligrafia, mio padre mi donò una magnifica pietra contornata da pesciolini dagli occhi sporgenti che guizzavano tra onde spumeggianti. Penso sapessimo entrambi che non sarebbe stata molto usata. Mostrare a mio padre – la cui grafia era anch’essa teneramente vacillante – i caratteri sgraziati e incerti mi faceva arrossire; nulla avrebbe potuto convincermi a condividerli con colleghi e amici cinesi, che avrebbero tacitamente compatito il mio analfabetismo e si sarebbero chiesti perché non mi vergognassi a sbandierare in pubblico un tale fallimento. Il Re di Kowloon era libero da simili incertezze: non mostrava alcun riguardo per le convenzioni di migliaia d’anni di cultura cinese. «L’arte dei re» era lo strumento con il quale affermava il proprio dominio sul territorio, e poco importava che la gente giudicasse la sua grafia pari agli sgorbi di un bimbo di sei anni. Il mio maestro avrebbe tentato di ridurre quei caratteri squadrati – larghi e piccoli pigiati insieme, a volte sovrapposti gli uni agli altri – alla blanda, standardizzata eccellenza tanto celebrata in Cina; ma un Re vive secondo le proprie regole.
Che annunciasse in pubblico la propria perdita anziché nascondere il fallimento che essa rappresentava era di per sé abnorme, perfino non-cinese. Era qualcosa che capivo istintivamente, poiché il mio sangue misto rendeva anche me una non-cinese, in bilico fra due culture come uno spettro inquieto sospeso a metà tra un mondo e l’altro. I miei genitori si erano sposati in opposizione alle norme razziali e al volere di entrambe le famiglie, ribellandosi ai propri parenti e, una volta giunti a Hong Kong, ai ruoli prestabiliti delle rispettive etnie. Benché cinese, mio padre si conquistò un posto come funzionario coloniale, entrando così a far parte della più ossimorica delle categorie: l’espatriato cinese. Malgrado il suo cantonese scadente, la mia aristocratica madre britannica divenne una fra le prime studiose del retaggio culturale hongkonghese. Nella zona di transizione fra due realtà che Hong Kong rappresentava, entrambi si ritagliarono spazi nuovi – e a volte scomodi – in cui esistere.
Io crebbi a Hong Kong, circondata da una tribù eurasiatica dai toni seppia. Poiché molti padri lavoravano per il governo coloniale in qualità di amministratori o poliziotti, occupavamo un quartiere altolocato per espatriati e uomini d’affari noto col nome di Mid-Levels, a monte degli uffici governati- vi nel distretto centrale; una posizione in un certo senso allegorica, a metà del ripido pendio chiamato «il Picco», per tradizione – e, all’inizio del XX secolo, per legge – riservato ai soli residenti europei. La nostra piccola bolla, tuttavia, ci rendeva inconsapevoli dell’anomalia storica che noi stessi rappresentavamo.
Pur non essendo propriamente del luogo – in molti non parlavamo neppure il cantonese – nessuno di noi dubitò mai del proprio diritto a ritenersi hongkonghese. All’epoca gran parte degli abitanti della città veniva da Paesi stranieri, e noi ci ritenevamo un naturale corollario di quel curioso status politico, che trascendeva le granitiche e stantie identità tradizionali. Il nostro stile di vita era un continuo esercizio di adattamento e metamorfosi. La peculiare situazione di Hong Kong, sospesa tra dominio britannico e cinese, faceva della città uno specchio della nostra identità. Ogni giorno, nelle nostre case, agivamo da interpreti e intermediari tra i due diversi lati di noi stessi: eravamo ibridi, miscugli sino- occidentali come la miscela di tè e caffè detta yuan-yang servita nei locali cha chaan teng, dove si inventavano versioni fusion della gastronomia europea il cui sincretismo finiva col risultare sfacciatamente locale.
Le opere del Re di Kowloon erano lo sfondo della nostra infanzia, elementi del paesaggio al pari delle piccole nicchie votive che costellavano i marciapiedi, le cassette postali coloniali color rosso acceso con i loro emblemi reali carichi di fronzoli e la selva di insegne al neon che si contendevano il campo visivo. Erano parte della nostra scenografia urbana, qualcosa di scontato: erano lì e basta. Più tardi, quando svanirono, il loro ricordo prese a evocarmi un senso di rimpianto al tempo stesso astratto e ben specifico.
Quello specifico era nitido e a dir poco venale: tempo fa avevo quasi acquistato un pezzetto dell’opera del Re, che adoravo ma non mi ero potuta permettere.
Era il 1996, l’anno prima del ritorno di Hong Kong sotto il giogo cinese, e io ero una cronista in erba di tvb Pearl, un’emittente locale a basso budget oggi accusata di essersi ridotta a megafono governativo. La paga era una presa in giro, ma ero abbastanza giovane da considerarla una discreta somma. Facendo visita a un amico che lavorava in un’angusta galleria d’arte abbarbicata su per il pendio che conduce a Central, scoprii appeso a una parete un pezzo di un’opera del Re. Lo desiderai all’istante. Era composto da due parti: una era la foto di una centralina elettrica grigia coperta di caratteri, davanti alla cupola altrettanto cinerea del Museo dello spazio. L’altra metà era una tavola di legno, anch’essa grigia, grondante della stessa, inconfondibile calligrafia.
Tornai alla galleria più volte, per ammirare l’opera e sognare a occhi aperti di acquistarla. Il prezzo di listino era sui 1200 euro (10.000 hk$): quasi un mese di stipendio, ben al di là delle mie tasche. Il gallerista lo capì immediatamente, trattandomi con un mix di sdegno, snobismo e insofferenza per il quale mi sarei dovuta risentire. Non riuscì però a impedirmi di tornare ancora e ancora, per sostare adorante davanti all’opera. A ogni visita, il proprietario mi forniva un nuovo dato volto a scoraggiarmi. Il pezzo avrebbe potuto non durare, mi rivelò con aria confidenziale: nessuno sapeva come preservare un’asse di legno, e l’inchiostro rischiava quindi di sbiadire, vanificando l’investimento. In più, non era davvero opera del Re: a scattare la foto e ad assemblare il tutto era stato il curatore Lau Kin-wai, perciò era tecnicamente lui l’autore; insomma, non era detto che il pezzo avrebbe mantenuto il proprio valore. Avrei potuto chiedere la somma necessaria ai miei genitori, accumulatori seriali a dir poco eccentrici le cui collezioni spaziavano dal totalmente inutile (tessere d’albergo, lacci di scarpe, pacchetti di fiammiferi di ristoranti) al sorprendentemente pregiato (francobolli della Rivoluzione culturale, servizi da tè in argilla viola Yixing, prime edizioni di volumi d’arte). Il desiderio di possesso era un sentimento che capivano benissimo, ma per qualche ragione non chiesi mai quel prestito, e me ne pento tuttora.
In puri termini economici si rivelò una decisione atroce: benché il Re non fosse riuscito a vendere una sola opera tra quelle esposte alla sua prima mostra, il loro valore lievitò negli anni, in parte a causa della loro rarità. Nel 2009, un pezzo analogo appartenente alla stessa serie – e per nulla sbiadito dal passare del tempo – fu battuto da Sotheby’s per la cifra di 25.700 euro (212.500 hk$), sette volte l’originaria base d’asta. Oggigiorno si venderebbe a prezzo ancora maggiore.
La sensazione di rimpianto non era così facile da articolare. Le opere del Re smuovevano in me emozioni che nemmeno sapevo di covare: erano un legame con un’età passata in cui la mia vita era routinaria e prevedibile, un’epoca di speranza e ottimismo in cui il futuro era carico di promesse. La nostra città era sempre stata un’opera in divenire, che si protendeva in fuori strappando vasti lembi di terreno al mare e si allungava verso il cielo con il proliferare di distese di grattacieli sfolgoranti, come bastoncini da shanghai atterrati chissà come tutti in verticale. Era un atto di fede, un’effigie in calcestruzzo e acciaio dell’ingegno umano contro qualsiasi avversità. Guardandola dall’alto, era come se la città fosse strisciata giù dalla montagna per espandersi sia in larghezza che in altezza, un ambizioso panorama urbano che le appropriazioni calligrafiche del Re di Kowloon rispecchiavano e trasformavano allo stesso tempo.
Nei decenni successivi al ritorno alla sovranità cinese, la città aveva iniziato a farsi sempre meno familiare. La più evidente fra le piccole e grandi intrusioni di quegli anni fu il crescente numero di turisti giunti dal continente ad affollare le strade hongkonghesi. Targhe e stendardi rossi di stampo comunista comparvero a un tratto per marcare nuove festività pubbliche, come la Giornata nazionale cinese. Con lo scoppio delle proteste nel giugno 2019 la città si trasformò di nuovo in modo radicale, stavolta in una zona di guerra pattugliata da unità antisommossa munite di scudi e scarponi come i cattivi di un anime distopico. Si poteva essere gasati o arrestati mentre si prendeva un panino in pausa pranzo. A quel punto le opere del Re erano quasi del tutto scomparse dalle strade, e il confortante ricordo di più speranzosi tempi andati era svanito con esse.
Negli anni in cui facevo la corrispondente dalla Cina a tempo pieno, peraltro con due figli piccoli di cui occuparmi, non avevo tempo per altro che l’immediato. Durante una trasferta di lavoro a Hong Kong nel 2011, però, seduta nel piccolo appartamento dei miei sorseggiando caffè e sfogliando giornali, il mio sguardo si posò sull’annuncio di una retrospettiva dal titolo sgrammaticato Memories of King Kowloon. Mi ritagliai del tempo tra un’intervista e l’altra e andai a vederla.
Mi aspettavo un’esperienza mistica, invece fui assalita da una strana sensazione d’assenza. Le sale della mostra erano buie, retroilluminate in modo teatrale. La prima conteneva mappe con piccoli pilastri di luce arancione a segnalare i luoghi in cui i lavori del Re erano apparsi: 80 location per 55.845 opere, realizzate con 1170 litri d’inchiostro in ben 51 anni di attività. Una sala intitolata I tesori del Re ne conservava i pochi averi in teche di vetro a temperatura controllata: pennelli incrostati e pennarelli scarichi cui era tributato lo sterile rispetto riservato alle reliquie religiose. C’erano un orologio a muro arrugginito, un asciugamano cencioso, barattoli d’inchiostro semivuoti, lattine di Coca-Cola accartocciate. Le macerie della vita di un vecchio, elevate a feticci di lusso.
I muri della terza sala grondavano dei lavori della sua tarda età, appesi in cornici bianche. Nella casa per anziani l’inchiostro gli era stato confiscato perché troppo sporco e maleodorante, ragion per cui aveva trascorso i suoi ultimi giorni ricoprendo fogli di carta con scritte a pennarello. La stanza successiva era intitolata Opere originali di Sua Maestà benché, all’esatto contrario, paresse trattarsi di oggetti – stivali in pelle, barattoli di vetro, magliette, giocattoli di plastica – che qualcun altro gli aveva portato per farseli firmare, gente qualsiasi o curatori consapevoli che i muri, che costituivano la sua tela d’elezione, non potevano essere traslati nelle gallerie d’arte per essere venduti.
Seguiva una stanza di obelischi in vetro su cui erano affissi ritagli di giornale risalenti alla sua morte d’infarto nel 2007, e da ultimo una galleria di opere in suo onore, realizzate da giovani artisti e studenti d’arte locali: una serie di piccole, tozze, carnose statuine in terracotta che ricordavano Jabba the Hutt, ma con gote così cadenti da diventare seni; un dipinto a inchiostro dall’aspetto spermatico; un quadro a olio in cui una specie di cane piangeva un’enorme lacrima; la fotografia di un artista a torso nudo, intento a realizzare una brutta copia dei graffiti del Re appeso a testa in giù da un soffitto. Aggirandomi fra le installazioni mi sentii dapprima perplessa, poi confusa, poi ingannata. In qualche modo, in mezzo a tanti «ricordi di Re Kowloon», l’essenza dell’artista era del tutto scomparsa. Senza le opere monumentali che toglievano il fiato per la loro folle audacia, la maestosità della sua missione si perdeva nel nulla.
Non solo: la missione aveva presagito il movimento politico, nella forma e nei contenuti. Il Re aveva portato la politica nelle strade, alla gente comune, decenni prima di chiunque altro. «È il capostipite degli occupanti!» mi disse con fervore un giovane designer sul finire del Movimento degli ombrelli, nel corso della quale gli hongkonghesi avevano occupato per settantanove giorni alcune fra le principali vie della città chiedendo a gran voce più democrazia. Poco per volta, di anno in anno, le idee del Re erano penetrate nella linfa vitale della metropoli tramite il medium artistico della calligrafia, infiltrandosi nelle sue arterie, irrorandone le estremità.
Malgrado la loro stazza, pochi dei suoi lavori su suolo pubblico gli sopravvissero, dato che quasi tutti erano stati cancellati appena ultimati. Dopo la sua morte vi furono petizioni affinché le opere restanti fossero protette, ma il governo dubitava del loro valore artistico, premurandosi di non chiamarle «calligrafia», bensì «scritture a inchiostro», e accettando inizialmente di preservare un singolo pilastro presso lo Star Ferry Pier di Tsim Sha Tsui con un semplice pannello in plexiglas. Tempo dopo fu ingabbiato allo stesso modo anche un lampione nei pressi di un parco giochi per bambini, ma tutte le richieste di un vero e proprio censimento delle opere superstiti furono ignorate. Nel 2017 uno degli ultimi pezzi esistenti, scritto su una centralina ferroviaria, fu imbiancato da un appaltatore pubblico troppo zelante. Infine, solo una manciata di scritte sempre più sbiadite rimase in buone condizioni negli spazi pubblici: quattro all’ultimo conteggio, con un paio d’altre rese ormai illeggibili dalle intemperie.
Eppure il Re fu emblematico perfino nella sua scomparsa, incubo atavico di tutti gli hongkonghesi. L’isola, undici chilometri da capo a capo, è destinata a essere fagocitata dalla Grande Cina. Cataste di letteratura accademica sono state scritte sulla provvisorietà di Hong Kong, la sua evanescenza, la sua fugacità: terra presa in prestito per un periodo preso in prestito. Non sorprende che tra i passaggi più famosi scritti sul tema compaia quello in cui, nel fatidico 1997, il critico culturale Ackbar Abbas definì quella di Hong Kong «una cultura di sparizione, la cui comparsa racchiude in sé l’immanenza della sua scomparsa».
Svanire era il destino delle fatiche del Re, e anche dei muri di post-it. All’inizio dei moti di protesta, m’imbattei in un muro di John Lennon recante una citazione accuratamente riportata dal film V per Vendetta: «Benché il manganello possa sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il proprio potere». E così fu: squadre antisommossa furono sguinzagliate contro i manifestanti, prima con spray al peperoncino, poi con lacrimogeni, proiettili di gomma e granate di spugna, poi cannoni ad acqua, poi idranti caricati con una nuova tintura blu indelebile mista ad agenti chimici che bruciavano e urticavano, poi un’arma sonica che induceva disorientamento e vomito, e infine, inevitabilmente, munizioni vere. I manifestanti iniziarono a controbattere prima con mattoni, poi con fionde, poi con arco e frecce, poi con bottiglie molotov e bombe fatte in casa.
Non ci volle molto perché i muri di John Lennon diventassero bersagli. Poco dopo l’inizio delle proteste, manifestanti filo-polizia smantellarono il muro originario allestito nei pressi del Consiglio legislativo, strappando e calpestando i manifesti. Poi decine di agenti in armatura e scudi anti- sommossa invasero il dedalo di sottopassi pedonali battezzati «tunnel di John Lennon» a Tai Po, nei Nuovi Territori, per rimuovere pareti di post-it che, dissero, divulgavano dati personali di alcuni poliziotti. Poi un muro su un ponte pedonale a Fanling, vicino al confine con la Cina vera e pro-pria, fu incendiato da un piromane alle quattro del mattino. Poi quattrocento presunti membri di cartelli criminali, tutti con indosso una maglietta bianca, presero d’assalto il tunnel nel cuore della notte, dedicando ore a coprire i bigliettini con adesivi di bandiere di altri Paesi, a suggerire che dietro le proteste si celasse la regia di forze straniere ostili. A opera ultimata lasciarono dietro di sé corone funebri con le foto di noti parlamentari pro-democrazia, un’intimidazione tutt’altro che velata. Infine i muri divennero siti di scontro aperto, con sostenitori del governo che accostavano i dimostranti per impedire loro di attaccare i post-it. A tre mesi dall’inizio delle proteste, un cittadino cinese assalì tre persone davanti a un muro di John Lennon a Tseung Kwan O, nei Nuovi Territori: dopo aver chiesto quali fossero le loro idee politiche, le pugnalò gridando «Non ne posso più».
Nel difendere i propri ideali, gli hongkonghesi si stavano schierando in prima linea in una lotta globale tra i valori democratici e un regime comunista sempre più totalitario. Lo stesso scontro prese a consumarsi nelle strade e sui muri di tutto il mondo, con il proliferare dei muri di John Lennon all’estero. Le installazioni divennero teatro di violenti scontri in Australia, Stati Uniti e Canada, dove cittadini cinesi, spesso muniti di altoparlanti che diffondevano a tutto volume l’inno nazionale, giunsero ad affrontare i dimostranti pro-Hong Kong. Quel minuscolo puntino su una mappa era riuscito a mettere in crisi la nuova superpotenza globale con la sola forza delle proprie convinzioni. I suoi muri erano divenuti un fiume di orgoglio nazionale per un luogo che non si era mai immaginato come una nazione, ma quel dibattito era stato inaugurato ormai decenni addietro, da un Re prima ostracizzato e poi accolto dai suoi sudditi. Di quel nazionalismo il popolo si faceva ora bandiera, esibendolo con le parole e con le armi, e la posta in gioco non sarebbe potuta essere più alta.
Salve, vorrei segnalarvi, se già non lo conoscete, che nel film
“Where Are You Going” di Zhengfan Yang, nel penultimo viaggio in taxi, il personaggio a bordo (probabilmente visto l’anno del film è una fiction) è Tsang Tsou-choi “Re di Kowloon”