I viaggi di Mandeville, I protocolli di Sion, Il trattato dei tre impostori… una storia del falso attraverso cinque casi celebri.
di Erik Boni
(Questo articolo fa parte di “Antologia del Fake”)
1. I Viaggi di Mandeville
Quando Cristoforo Colombo arriva in America con le sue tre caravelle immagina di essere arrivato in un’Asia che gli è nota soprattutto attraverso i resoconti dei viaggiatori medievali, alcuni dei quali si era portato con sé: come il Milione di Marco Polo, ma anche e soprattutto i Viaggi di Sir John Mandeville. Si tratta di un testo che cominciò a circolare nella seconda metà del XIV secolo, conoscendo grande fortuna. Certo, non tutto quel che viene raccontato in quel libro era molto verosimile ma questo in realtà valeva per molte altre relazioni di viaggiatori, come quella di Marco Polo, che venne soprannominato Milione proprio perché i contemporanei ritenevano (non sempre a torto) che le sparasse grosse. Certo, non tutto è originale, ma il fatto che un libro confermasse quanto scritto da altri (magari nell’antichità) era considerato un segno di attendibilità (e infatti le parti del Milione più contestate erano proprio quelle inedite, basate sulla sua personale esperienza).
La particolarità di questo libro a differenza degli altri non è che il suo contenuto venga, a un certo punto, giudicato sempre più inattendibile. Non si tratta di un libro autentico ma pieno di falsità, ma di un libro con molte falsità del quale, a un certo punto, si scopre che manca persino l’autore. Non è nemmeno possibile dare a Mandeville del bugiardo come si poteva fare con Marco Polo, perché nessuno sa chi o che cosa sia Mandeville. Si tratta di un testo che si libra nell’aria, non attaccato a nulla, cosa a un tempo stesso inquietante ma che gli consente anche di sperimentare nuove forme di evasione letteraria.
La fortuna del libro è infatti legata a questa sensazione di fuga dalle convenzioni della realtà quotidiana che è in grado di comunicare: all’assenza di un soggetto scrivente corrisponde l’assenza di un vero “soggetto” della narrazione, e anche l’assenza di una meta del peregrinare. Il pellegrino Mandeville parte per riprendere simbolicamente possesso del centro del mondo e della cristianità (Gerusalemme) ma una volta arrivato invece di tornare semplicemente indietro comincia a vagabondare, accumulando esperienze che hanno l’effetto di negare l’esistenza di qualsiasi centro. Non vengono descritte solo meraviglie naturali come gli esseri senza testa o gli alberi dai cui rami nascono agnelli, ma soprattutto meraviglie “morali”, le strane e alternative usanze e credenze che hanno gli abitanti dell’altra parte del mondo.
La pericolosità dell’opera dal punto di vista della religione cristiana può essere esemplificata anche dalla sua presenza nella libreria di Domenico Menocchio, il mugnaio bruciato dall’Inquisizione protagonista de Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg (“quello che ho ditto l’ho ditto per quel libro del Mandavilla che ho letto”). Mandeville pratica una esegesi rivoluzionaria e straniante per cui anche i costumi più assurdi e impensabili al primo sguardo non solo vengono razionalizzati, ma anche comparati con le nostre pratiche delle quali si rivelano delle varianti, o le controparti in un sistema di corrispondenze segniche, e che ne rivelano quindi l’arbitrarietà e futilità. Questa apertura mentale e questa tolleranza trovano, ahimè, dei limiti nel fatto che sono tanto più praticate quanto è più lontano (e puramente immaginato) il popolo verso il quale si applica. Si apprezza la diversità di un popolo inesistente che vive agli antipodi, ma non dell’ebreo.
Il popolo ebraico è infatti al centro di una singolarissima ipotesi di complotto per “fare strage di cristiani”, da compiersi comunque alla fine dei tempi, con la venuta dell’Anticristo. Per adesso infatti gran parte di questo popolo, le Dieci Tribù perdute d’Israele, è stata confinata da Alessandro in una regione fra le montagne dalla quale non può uscire. Ma “al tempo dell’Anticristo” una volpe scaverà una tana proprio in quelle montagne, sbucando fra quella gente, che si metterà a seguirla scoprendo così una via d’uscita e seminando il terrore nel resto del mondo. Per quanto come complotto ebraico appaia piuttosto improbabile, è un tema che come sappiamo conoscerà grandissima fortuna nell’ambito della falsificazione. I Viaggi di Mandeville nella loro sgangheratezza costituiscono in effetti una specie di canovaccio dal quale attingeranno molti dei falsari posteriori. In particolare troviamo qui uniti i due principali moventi delle mistificazioni: l’amore per il più lontano e l’odio per il prossimo.
2. Il Trattato dei tre impostori
Nell’enciclica Ascendit de mari del 1239 Gregorio IX, fra i tanti misfatti di cui accusava l’Anticristo stupor mundi imperatore del Sacro Romano Impero Federico II, inseriva anche quello secondo il quale Federico avrebbe dichiarato che i fondatori delle tre principali religioni monoteiste allora conosciute, la giudaica, la cristiana, e la musulmana, erano tutti quanti impostori che ingannarono il mondo. Parte da qui la leggenda del Trattato dei tre impostori o De tribus impostoribus, che si supponeva composto dal letterato Pier della Vigna su ordine dell’imperatore.
-->Un libro blasfemo, un compendio di empietà e un viatico per l’ateismo la cui idea doveva disgustare, spaventare, e allo stesso tempo fatalmente affascinare le generazioni di intellettuali dei secoli successivi, che attribuirono la composizione dell’opera ai più svariati personaggi controversi loro contemporanei, non preoccupandosi molto, a quanto pare, dell’incoerenza per la quale un libro che si supponeva circolare dal XIII secolo veniva di volta in volta attribuito a Jean Bodin, Pietro Aretino, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Pietro Pomponazzi, Tommaso Campanella, Baruch Spinoza e altri.
Se appare in questo elenco è perché il Trattato a un certo punto smette di essere un’opera solo immaginata, della quale tutti parlano senza averla letta, e diventa un libro vero, anzi, un vero libro falso, proprio come il Necronomicon. La circolazione del testo avviene inizialmente tramite vari livelli di dissimulazione: qualcuno afferma di aver visto l’esecrabile trattato nella libreria di un amico del cugino del barbiere; ne giudica orribile il contenuto, sostiene che i suoi autori sono persone nemiche dell’umanità che andrebbero perseguite, e il libro sarebbe da condannare all’oblio. E per dimostrare l’assunto, ovviamente, passa a riassumerlo, con tutte le sue argomentazioni contro la religione e in favore dell’ateismo.
Ma infine il libro diventa troppo ricercato da curiosi e bibliofili perché alcuni editori senza scrupoli non decidano di cogliere l’occasione che si presenta: parafrasando Voltaire (che scrisse il famoso aforisma proprio in una lettera sui Tre impostori), se il Trattato non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Il libro esce quindi dalla leggenda per entrare nel mondo reale fra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, addirittura in due diverse versioni. Il probabile autore della prima è un certo Johan Joachim Muller mentre la seconda, di maggior fortuna editoriale e inizialmente pubblicata col titolo La vita e lo spirito di Spinoza, (contenente appunto una biografia del filosofo olandese al quale è aggiunto un testo che ricalca i contenuti dei Tre impostori) potrebbe essere di un certo Jan Vrose.

La cosa divertente è che si tratta di un’impostura avente lo scopo, probabilmente sincero, di denunciare un’altra impostura, cioè quella delle religioni rivelate. Ne avevamo già accennato: se un libro è falso quando non è quello che dice di essere, questo non rende falsi tutti i libri sacri, almeno dal punto di vista di un ateo? Il fatto che i profeti Mosè, Gesù, e Maometto vengano chiamati senza mezzi termini “impostori” fornisce una chiara risposta positiva al quesito. Qual è lo scopo dell’impostura? Con una sensibilità che nasce proprio in quel giro di anni, questo scopo viene identificato come eminentemente politico (non necessariamente negativo): la religione è necessaria per costruire una nazione e condurla vittoriosamente contro altri popoli, secondo un tema presente anche negli scritti di Machiavelli e Hobbes. La religione, insomma, come arma di distrazione di massa, inganno salutare o nefasto, ma pur sempre inganno. Al di là della volontà denigratoria rispetto ai fondatori di religioni e verso i loro seguaci emerge insomma un discorso interpretativo tutt’altro che banale, precursore della critica marxiana alla religione come sovrastruttura.
Come nel caso precedente, se pure la critica alle religioni ha degli aspetti interessanti che anticipano il discorso dell’Illuminismo e può anche essere vista come un invito alla tolleranza universale, ci sono anche delle ombre. Nonostante la condanna sia comune a tutte le religioni rivelate infatti vengono presi in prestito, e talvolta vengono prestati, alcuni dei motivi antisemiti più tradizionali: come quello degli ebrei fanatici, intolleranti, guerrafondai e assetati di sangue. Inoltre tutto questo lavoro di svelamento intorno all’autenticità dei testi sacri viene svolto per il tramite di un falso. Si fa uso di una cospirazione per denunciare una cospirazione, con metodi da cospiratori. Nel caso dei Tre impostori questo sotterfugio è reso necessario, e giustificato, dalla paura dell’Inquisizione. In fondo è possibile che nessun lettore accorto credesse davvero di trovarsi di fronte a una copia del Trattato originale piuttosto che a un libello ateo contemporaneo. Ma anche quello del cospiratore complottista è un tema che tornerà come stiamo per vedere.
3. I protocolli dei Savi di Sion
Questo classico della letteratura antisemita ha ottenuto un successo particolare, rispetto ad altre opere di simile contenuto, proprio grazie al suo presentarsi come documento segreto attribuito a un gruppo di potentissimi cospiratori ebrei, nel quale sono contenute le istruzioni degli “anziani” delle Dodici Tribù di Israele (a quanto pare le altre Dieci hanno ritrovato la strada grazie alla volpe) ai nuovi membri e vengono descritti i metodi da usare per ottenere il dominio del mondo.
Se lo consideriamo un’opera letteraria – e non un falso documentario – è proprio per il suo attingere abbondantemente a fonti letterarie: gran parte del materiale proviene da un pamphlet di Maurice Joly del 1864, Dialogo all’inferno fra Machiavelli e Montesquieu, che a sua volta era in parte un plagio di un romanzo di Eugène Sue, I misteri del popolo (nessuna di queste opere menzionava gli ebrei). Altra ispirazione era un romanzo antisemita del 1868 del falsario Hermann Goedsche, Biarritz, somigliante a un romanzo di Alexandre Dumas padre, Giuseppe Balsamo (1848). Infine il testo appare come un tentativo di mettere in cattiva luce – facendo una parodia dei contenuti – il libro Lo Stato ebraico, di Theodore Herzl, padre del sionismo moderno.
Oggi sappiamo anche chi, con molta probabilità, lo ha scritto e perché: si tratterebbe di un certo Mathieu Golovinskij, un agente dei servizi segreti russi che lavorava a Parigi, e che redasse il documento nel 1898 per contrastare le correnti “modernizzatrici” negli ambienti zaristi attribuendone l’ispirazione nascosta al complotto demo-pluto-giudaico descritto nei Protocolli. In fin dei conti era sufficiente presentare il programma – pubblicamente dichiarato – di Theodore Herzl come una congiura attribuendogli di sana pianta dei contenuti provenienti da un libello, quello di Joly, che intendeva in realtà denunciare la politica di Napoleone III.
Essendo i metodi descritti (controllo della finanza, dei media, stravolgimento dell’ordine sociale) argomenti che cominciavano a preoccupare l’opinione pubblica i Protocolli ottengono la propria credibilità con l’alimentare le paranoie già esistenti del lettore al contempo fornendo una spiegazione elementare di quei fenomeni: “avete notato anche voi che il mondo sta cambiando? ne siete preoccupati? complimenti per la vostra sagacia, siete pronti alla rivelazione del grande complotto sionista”. Posteriormente il lettore si meraviglia per come la sua percezione della realtà sembri adattarsi a quel testo, e non si accorge che è stato costruito proprio per confermarne i pregiudizi. Come scrisse Henry Ford nel 1921: “l’unica affermazione che mi interessa fare […] è che i piani descritti nel documento per la conquista del mondo da parte degli ebrei sono in sintonia con quello che sta succedendo”.
È curioso – ma non troppo – che il testo continui a circolare, e ad essere considerato da molti come autentico, nonostante la sua falsità sia già stata dimostrata nel 1921. Alcuni tentano in modo improbabile di salvarne l’originalità sostenendo che i Protocolli sono stati scritti anteriormente ai Dialoghi di Jolie i quali sarebbero allora il vero plagio. Più frequentemente adottata è una strategia diversa: in fin dei conti, si dice, non importa quando e come il testo sia stato scritto, conta la sua aderenza alla realtà, il documento è “vero” perché è vero quel che vi viene denunciato. Ma se fosse così, allora perché fabbricare un falso? La realtà è che i Protocolli potrebbero avere un qualche interesse, anche per il più fervido antisemita, solo se considerati autentici, altrimenti starebbero esattamente sullo stesso piano delle farneticazioni dell’antisemita medesimo e non potrebbero costituire una conferma delle sue idee.
Potremmo segnalare una certa somiglianza fra la cospirazione in atto (il falso dei Protocolli) e la cospirazione descritta. L’autore dei Protocolli sembra affascinato dai meccanismi economici descritti per mettere in ginocchio le nazioni, meccanismi che richiamano le tesi dei più odierni teorici del complotto del signoraggio. Si sostiene cioè che le banche e i grandi capitalisti (ebrei) fanno in modo di limitare la quantità di denaro in circolazione costringendo gli Stati a indebitarsi sempre di più e così riducendoli in schiavitù. Secondo i teorici della teoria del signoraggio bancario, infatti, se gli Stati avessero il pieno controllo delle Banche Centrali potrebbero risolvere ogni loro problema economico… stampando più banconote.
Vi è dunque una fascinazione dei falsari di libri per la stampa di denaro. In Mandeville (che riprende Marco Polo):
“questo imperatore [della Cina] può spendere quanto vuole e senza limitazioni, e non fa moneta se non di cuoio, carta, e corteccia d’albero. E quando questa moneta invecchia, e la stampa è consumata dall’uso, essa viene portata al tesoro reale, e il tesoriere dà la moneta nuova per quella vecchia. [Perciò] può spendere quanto vuole, oltre ogni stima”.
Si può formulare l’ipotesi che il valore nominale della carta-moneta corrisponda – nella mente del falsario – alla verità auto-istituente del testo.
4. Papalagi (e gli altri)
Nel 1721 Montesquieu pubblica le Lettere persiane, romanzo epistolare ove si immagina che due dignitari persiani (Usbek, grande signore di Ispahan, e il suo amico Rica), desiderosi di conoscere il mondo, si mettano in viaggio verso l’Occidente, soggiornando per un lungo periodo nella capitale francese. Da Parigi, scrivono lettere ai propri amici e familiari in patria per descrivere ciò che vedono. È il pretesto di cui Montesquieu si serve per fare della satira e prendere in giro i costumi e le istituzioni del suo tempo: la società francese del XVIII secolo viene sottoposta al vaglio dello sguardo critico e disincantato dello straniero, il quale proprio in virtù della sua estraneità è ritenuto in grado di giudicare più lucidamente quel che osserva.
Naturalmente Le lettere persiane non sono nient’altro che un romanzo, un’opera di finzione. Sarebbe assurdo pensare di leggerlo allo scopo di scoprire cosa un abitante del lontano Oriente potrebbe pensare di noi e della nostra società, e sarebbe anche assurda una critica al nostro modo di vivere basata sul suo contenuto letterale. In quel libro si esprime una critica alla società francese, naturalmente, ma è una critica dall’interno, svolta da un cittadino francese che di quella società fa parte e nella quale non si sente “estraneo”: infatti Montesquieu è un riformista, vuole migliorare le istituzioni del proprio paese, non ripudiarle.
Papalagi è invece un libro pubblicato per la prima volta nel 1920. Raccoglie i discorsi di Tuiavii, capo polinesiano che agli inizi del secolo compì un viaggio in Europa. A quanto pare, Tuiavii rimase così disgustato dal modo di vivere del “papalagi” (che nella lingua samoana significa “uomo bianco”), da voler mettere in guardia il suo popolo contro il fascino pericoloso che l’Occidente avrebbe potuto esercitare. Tuiavii critica ad esempio il modo di vestire dei bianchi e la loro abitudine di coprirsi, si meraviglia del fatto che vivono in quelli che chiama “cassoni di pietra”, si indigna per l’attaccamento mostrato dai bianchi nei confronti del “tondo metallo” e della “carta pesante”, e in generale per la loro brama di possesso.

Il libro, semi-dimenticato per decenni, ha conosciuto una sorta di revival negli anni Settanta e Ottanta, soprattutto nel contesto delle culture giovanili e alternative. In Italia ebbe una larga diffusione negli anni Novanta l’edizione di Stampa Alternativa nella celebre collana “Millelire” (oggi invece è nella collana “Eretica”). Nella quarta di copertina di questa edizione è scritto che “dietro l’apparente leggerezza e bonarietà, Papalagi è un trattato etnologico esilarante e atroce sulla perversione e i falsi miti della tribù dei bianchi”, e come tale sembra venga interpretato anche dalla stragrande maggioranza di chi lo legge.
Il problema è appunto che mentre le Lettere persiane sono un’opera di finzione da tutti considerata come tale, Papalagi è invece letto come un autentico scritto del capo Tuiavii, invece che l’opera di fantasia del suo presunto traduttore e curatore, Erich Scheurmann. Peraltro non particolarmente originale visto che piuttosto che a Montesquieu sembra ispirarsi direttamente a un romanzo di Hans Paasche del 1912, Lukanga Mukara. Viaggio di studio nella Germania profonda. Abbiamo a che fare stavolta con un tipo di contraffazione particolarmente diffuso, che anche stavolta era presente, in nuce, già in Mandeville: il falso antropologico e la rappresentazione tutta ideale dello straniero come “buon selvaggio”.
Lo scopo di un libro come Papalagi non è tanto la critica alle istituzioni del paese in cui vive l’autore. Una critica sociale presuppone uno sguardo critico (come era quello di Montesquieu) dove oltre a indicare i mali della società si cerca di analizzarli, individuarne le cause (e magari anche le soluzioni). Il libro di Scheurmann, invece, non propone niente ma è un esempio di puro “escapismo” letterario, di fuga dalla realtà in un mondo immaginato e ideale, un tentativo di fuga anche comprensibile, considerando la realtà della Germania degli anni Venti. Ma il prezzo per la perdita di contatto con la realtà non è solo personale, viene pagato dalle persone che scegliamo di rappresentare in maniera distorta.
Per usare un termine in voga oggi, quella di Scheurmann può essere considerata un’operazione di “appropriazione culturale”. I samoani –come del resto i persiani del XVIII secolo, ma in maniera più evidente – sono persone reali, in carne e ossa, che Scheurmann aveva incontrato nel corso di un suo viaggio in Polinesia, allora colonia tedesca. Persone che forse non avrebbero apprezzato la loro rappresentazione come dei perfetti idioti dalla mentalità fanciullesca e incapaci di comprendere istituzioni (con le quali a dire il vero erano già entrati in contatto) quali il vestirsi, l’abitare in case di mattoni, o il denaro. E ovviamente si tratta anche di una rappresentazione funzionale proprio alla conquista coloniale e allo sfruttamento dei popoli esotici: i samoani sono tanto carini e simpatici, ma è chiaro che necessitano della protezione di una civiltà evoluta. Che Erich Scheurmann sarebbe diventato, negli anni seguenti, un sostenitore del nazismo è cosa che merita appena un fugace accenno.
In ogni caso Papalagi non è l’unico esempio di tale appropriazione: fra i casi più famosi possiamo menzionare la Lettera del capo indiano Seattle al Presidente degli Stati Uniti del 1855, in realtà una rielaborazione comparsa negli anni Settanta, e in chiave ecologista, di uno speech di attribuzione già molto dubbia che sarebbe stato pronunciato in quel periodo dal capo indiano di fronte ad alcuni rappresentanti governativi, trascritto una trentina d’anni più tardi. E venne chiamata due cuori è il libro di Marlo Morgan nel quale l’autrice racconta le sue avventure in mezzo agli aborigeni australiani, che le consegnano un messaggio da recapitare al resto dell’umanità: messaggio che consiste, ancora una volta, in una stucchevole lezioncina ambientalista. Ovviamente tutto inventato, come si accorsero subito i conoscitori della cultura dei nativi australiani, e come forse poteva sospettare anche il lettore più ingenuo nel leggere dei poteri soprannaturali (come la telepatia) attribuiti agli aborigeni. Carlos Castaneda ha preferito invece ambientare le sue avventure altrettanto fittizie fra gli sciamani del Messico.
5. Mi chiamo Rigoberta Menchù
All’inizio degli anni Ottanta l’antropologa ed attivista politica Elizabeth Burgos incontra una giovane contadina semi-analfabeta, Rigoberta Menchù Tum, esponente del movimento di liberazione degli indios del Guatemala. Le sue conversazioni e interviste con la giovane, che narrano le persecuzioni subite dalle popolazioni indigene da parte dei grandi proprietari terrieri di origine europea col supporto dell’esercito e delle forze governative, diventeranno un libro dal successo mondiale: Mi chiamo Rigoberta Menchù, che nel 1992 avrebbe fruttato un premio Nobel per la pace alla protagonista. La potenza evocatrice del racconto della Menchù, in grado per una volta di dare voce alle popolazioni culturalmente subalterne, è tale che all’inizio degli anni Novanta scatenò un feroce dibattito sul multiculturalismo, quando si diffuse la notizia (in parte gonfiata) per cui in omaggio al nuovo clima di correttezza politica questo libro insieme ad altri era stato introdotto nei corsi di letteratura della Stanford University in sostituzione dei grandi classici del canone occidentale, formato in prevalenza dai proverbiali “maschi bianchi europei morti” (Dante, Shakespeare, eccetera).
Nel 1999, comunque, l’antropologo David Stoll pubblicò il libro Rigoberta Menchù and the Story of All Poor Guatemalans, dove molti degli episodi contenuti nel libro della Burgos venivano denunciati come non veritieri o perlomeno fortemente distorti. In qualche caso, come nel racconto della morte del fratello, lei non sarebbe stata presente al tragico evento nonostante questo venga narrato in prima persona. Per quanto riguarda il tema del falso in letteratura quello di Rigoberta Menchù è un caso particolarmente complesso e delicato. Stoll (diversamente da alcuni recensori di destra) è attento a non squalificare come menzognero tutto ciò che viene raccontato dalla Menchù, e anzi ne conferma i contenuti essenziali: “non ci sono dubbi sui punti più importanti, cioè che una dittatura ha massacrato migliaia di contadini indigeni, che fra le vittime c’è la metà dei più stretti familiari di Rigoberta, che lei è fuggita in Messico per salvarsi la vita, e che si è unita a un movimento rivoluzionario per liberare il suo paese”. E dal momento che quella della Menchù, si potrebbe aggiungere, è sicuramente una buona causa, per quale motivo dovremmo farle le pulci in cerca di incongruenze minori?
Si deve anche aggiungere che la contro-narrazione offerta da David Stoll non è in realtà un fact-checking del tutto obiettivo, né vuol presentarsi come tale. Il libro di Stoll ha lo scopo dichiarato di fornire un’interpretazione politica diversa degli stessi fatti narrati nel libro della Burgos, ovvero vorrebbe denunciare l’effetto dirompente e tragico della guerriglia anti-imperialista importata da Cuba nei conflitti guatemaltechi rispondenti a una logica tutta diversa. In che senso dovremmo considerare “falsa” l’interpretazione della Menchù e veritiera quella di Stoll, dal momento che concordano sui fatti essenziali? Forse nel senso che Stoll ha almeno il merito di introdurre un po’ di complessità in quella che, a posteriori, appare in tutta evidenza come una storia troppo lineare e troppo adatta a suscitare interesse e indignazione, una favola politica marxista, insomma.
Potremmo considerare il libro della Burgos come una variazione sul tema dell’appropriazione culturale che abbiamo già visto con Erich Scheurmann e con Marlo Morgan, una rappresentazione caricaturale del buon selvaggio qui nelle vesti multicolore della discendente maya, se non ci fossero ulteriori elementi che vanno a complicare il quadro. Tipo che uno degli elementi del racconto contestati è proprio il livello di competenza culturale della Menchù, a quanto pare nient’affatto analfabeta e anzi fornita di una certa istruzione per gli standard della sua gente, né proveniente da una famiglia in estrema miseria. In definitiva sarebbe proprio la “subalternità” ad essere costruita e finta, allo scopo di ottenere un maggiore effetto di veridicità. Nel dibattito sulla letteratura “testimoniale” uno dei punti più delicati riguarda proprio la questione dei rapporti fra il narratore “subalterno” e il necessario ma sospetto rapporto con l’interprete occidentale che gli presta la voce, ma che deve anche essere “decostruito” nelle sue implicazioni coloniali al fine di comprendere la vera storia del testimone. Ma i rapporti fra la Burgos e la Menchù, che negli anni seguenti alla pubblicazione si sono deteriorati, fanno intravedere una vicenda dove non è affatto chiaro chi ha manipolato chi.
In un’introduzione al libro di Stoll la Burgos non nasconde affatto che la raccolta della testimonianza della Menchù aveva uno scopo immediatamente politico di sostegno alla guerriglia comunista: fra l’altro Elizabeth Burgos all’epoca era sposata con Régis Debray, uno dei più importanti artefici della strategia cubana di esportazione della rivoluzione negli altri paesi dell’America Latina per ottenere la sollevazione del continente. Debray era stato al fianco di Che Guevara in Colombia in un altro tentativo di sollevazione guidato dalle brigate internazionali e finito tragicamente (è anche fortemente sospettato di essere stato colui che tradì il Che rivelandone la presenza in Colombia all’esercito). Quando però la Burgos cominciò a prendere le distanze da Cuba e divenne invisa ai comunisti più intransigenti si trovò ad essere scaricata anche dalla Menchù, che in occasione dell’inchiesta di Stoll la accusò proprio di aver modificato la sua storia (cosa che secondo Stoll non appare dai nastri registrati, nonostante un inevitabile montaggio per rispettare l’ordine cronologico degli eventi).
Il punto è che mentre il contenuto politico della storia è divenuto presto obsoleto, una volta rivelatosi il carattere fallimentare della strategia della guerriglia, e una volta riappacificatosi il paese, personaggi come la Burgos e Stoll se ne sono distaccati andando alla ricerca di un contesto politico e antropologico più profondo, che invece viene risolutamente rifiutato dalla stessa protagonista, Rigoberta, fedele alla sua ideologia marxista e al regime cubano.
Più che una vicenda di appropriazione culturale è allora inquadrabile come il consapevole sfruttamento, da parte di una per niente ingenua attivista politica guatemalteca, delle debolezze e della credulità degli intellettuali di sinistra dell’Occidente, fin troppi pronti a prestare fede a una storia che confermava tutte le loro parole d’ordine: il terzomondismo, la lotta di classe come origine di ogni conflitto, la perniciosa influenza dell’imperialismo statunitense, eccetera. Il problema di ogni ideologia troppo rigorosamente seguita è il suo far passare in secondo piano la verità.
La Menchù all’inizio del racconto afferma: “la cosa importante è che ciò che è accaduto a me è accaduto a molte altre persone; la mia storia è la storia di tutti i poveri guatemaltechi”. Si tratta da un lato di una professione di umiltà: non è importante la storia della singola persona, ma ciò che rappresenta. Ma possiamo anche considerarla come una giustificazione per certe inesattezze: se Rigoberta ha narrato in prima persona cose in realtà vissute da altri è proprio perché investita della missione di raccontare, non la sua personale storia, ma quella di un intero popolo. D’altra parte, proprio perché è della storia di tutti i guatemaltechi che stiamo parlando, la mancanza di sincerità in sottomissione a un’agenda politica non è del tutto perdonabile. I guatemaltechi devono poter essere raccontati in molte altre maniere, cosa che un’operazione di trasparenza come la ricerca di Stoll rende di nuovo possibile.
Conclusioni
La lezione che potremmo trarre dalla descrizione di questi cinque casi è come, in primo luogo, sia probabilmente vano intraprendere una classificazione sistematica delle tipologie di “falso”, cosa che era stata abbozzata nella prima parte. Questo per il semplice fatto che ogni storia è un caso a sé, con problematiche specifiche, da affrontare separatamente.
Tuttavia, abbiamo mostrato che esistono dei nessi fra un caso e l’altro; a volte delle somiglianze, altre delle variazioni su un medesimo tema. Nessi che ci permettono di comprenderli meglio il che potrebbe giustificare la loro riunione sotto un’unica etichetta – il falso letterario, appunto – e l’esistenza di uno studio (ben più approfondito di questo) dedicato all’argomento.
Nel condurre questo studio, il filo conduttore dovrebbe essere l’atteggiamento dell’opera nei confronti della verità e del lettore. Qual è lo scopo del testo? Fornire nuove conoscenze, dare una nuova prospettiva sul mondo, far divertire? Oppure lo scopo del testo è, proporre una rappresentazione distorta del mondo, più angusta, più vicina ai pregiudizi del lettore – in breve: diffondere menzogne?
Da questo punto di vista i Protocolli sono chiaramente il testo più falso (o più cattivo) fra tutti quelli esaminati, e proprio per questo possono costituire un buon punto di riferimento. Sarebbe però un errore applicare a tutti i falsi, esistenti o potenziali, lo stesso grado d’infamia dei Protocolli. Molto spesso l’inganno convive con intenzioni più bonarie. All’altro estremo potremmo collocare Rigoberta Menchù, la cui testimonianza aveva lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica su una tragedia reale. Anche in quel caso, tuttavia, abbiamo la sensazione che il fine non giustifichi i mezzi (o lo faccia solo in parte) e che le varie manipolazioni e distorsioni della verità compromettano la bontà della causa.
Se proprio dovessimo tentare una conclusione provvisoria, potremmo dire che qualsiasi opera letteraria, se non proprio di raccontare la verità, si assume almeno l’impegno di non ingannare il lettore, e può essere giudicata in base al raggiungimento di questo scopo.
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