Nell’opera di un gigante come W. G. Sebald c’è un’idea – quella delle “coincidenze apparentemente significative” – che ci dice molto non solo del nostro rapporto con la letteratura e la fiction, ma addirittura della percezione che abbiamo del mondo nella sua interezza.
IN COPERTINA e nel testo un’opera di justin mccarthy
Il prossimo 14 dicembre segnerà vent’anni dalla morte di W.G. Sebald. L’aneurisma che lo uccise a cinquantasette anni mentre guidava non lontano dalla sua casa di Norwich sembra un artificio letterario: un modo come un altro per concludere la grande divagazione di quel professore tedesco emigrato nella campagna inglese trentacinque anni prima e diventato contro ogni aspettativa tra le figure più influenti della letteratura mondiale. Quella morte brutale e improvvisa mi ha sempre ricordato quella di un altro esule tedesco, che a Sebald somigliava persino fisicamente, Walter Benjamin, che si tolse la vita quarantottenne in Catalogna mentre cercava di fuggire dai nazisti.
Sebald non fuggiva da nessuno, anzi quella sera si trovava in auto con la figlia Anna, che sopravvisse all’incidente, ma come il Benjamin degli anni Trenta si affacciava sul precipizio di un mondo sconvolto da un’improvvisa accelerazione tecnologica. Se nella sua allucinata visionarietà Benjamin aveva intuito meglio di ogni altro gli effetti della tecnica sull’arte, negli anni Novanta la scrittura vertiginosa di Sebald pose le basi per la letteratura dell’epoca di internet, un genere che oggi sta cominciando ad assumere contorni sempre più definiti.
È stato fatto notare spesso come la peculiare tecnica letteraria di Sebald abbia anticipato di un decennio la scrittura sul web, e specialmente sui blog, con la sua giustapposizione di testo e immagini e l’onnipresenza di una prima persona inaffidabile, sospesa tra l’artificio letterario e la confessione (pensiamo all’incipit degli Anelli di Saturno, in cui Sebald ci informa di un suo ricovero nell’ospedale di Norwich senza spiegarne però le cause). Altrettanto spesso si è insistito su come l’esperienza del lettore di fronte a un testo sebaldiano somigli a quella della navigazione in rete, una deriva infinita da link a link che ci porta sempre più lontani dal punto di partenza finché, come se fossimo caduti in un wormhole, ci ritroviamo di nuovo sul percorso principale.
Un aspetto meno sottolineato, invece, è come i libri di Sebald siano praticamente impossibili da ricordare in maniera chiara, il che è solo in apparenza un paradosso considerato che il tema principale dell’opera sebaldiana è proprio la memoria. Leggere Sebald è un’esperienza profondamente disorientante: la sensazione per il lettore è quella, talvolta ludica e talvolta angosciosa, di essersi perso, di trovarsi in un punto qualunque di un ipertesto dal quale potrebbe non essere possibile uscire. Sebald ha una dote preternaturale per sfumare le transizioni da un blocco narrativo all’altro, così la lettura ha qualcosa di onirico. Leggendolo si ha l’impressione di entrare e uscire da un sogno, o forse in molti sogni concatenati come succede in Inception. Come capita nei sogni, quando ci si sveglia (ma ci siamo veramente svegliati?) ciò che si ricorda sono immagini vivide strappate dal contesto, frammenti, e la sensazione di essere appena riemersi da un viaggio nel mondo ctonio.
La straordinaria influenza avuta da Sebald sulla narrativa degli ultimi vent’anni (l’unico autore che può essergli paragonato è Roberto Bolaño, per ragioni che come vedremo sono almeno parzialmente accomunabili) non è spiegabile soltanto con la indubbia qualità della sua opera. Partendo dalla prospettiva più marginale possibile, quella di un anonimo professore che scriveva in una lingua forbita di temi come la memoria e l’esilio, rifacendosi alla tradizione del saggio inglese secentesco di Thomas Browne, Sebald ha letteralmente inventato la letteratura del futuro, sfumando i generi (fiction e nonfiction) e i linguaggi (letterario e iconografico) e fornendo una dimensione letteraria a quelle vertiginose discese nei rabbit hole e a quelle divagazioni apparentemente infinite che caratterizzano la nostra esperienza del mondo in un’epoca segnata dall’ubiquità della rete.
Ma c’è un altro aspetto della scrittura dell’autore bavarese che più passa il tempo e più sembra una sorta di presagio. Un aspetto di cui ho dato un esempio nel primo paragrafo di questo saggio quando ho paragonato l’esperienza (e persino l’aspetto fisico) di Benjamin e Sebald, e che nel suo ultimo libro Daniel Mendelsohn ha definito le “coincidenze apparentemente significative” che costellano l’opera sebaldiana.
-->Tre anelli, in uscita a il 16 novembre per Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti, è un libro peculiare. I tre indefinibili testi che lo compongono raccontano le esperienze rispettivamente di Erich Auerbach in Turchia, del vescovo secentesco François Fénelon, autore di uno spin-off dell’Odissea, e appunto di Sebald. Intrecciate a questi tre racconti biografici troviamo la storia di Mendelsohn e della sua difficoltà nello scrivere due libri, una storia familiare dell’Olocausto e il memoir di un viaggio intrapreso con l’anziano padre sulle tracce di Ulisse. Eppure, Tre anelli non è né una biografia né un’autobiografia: più di tutto è un saggio di critica letteraria dedicato quella tecnica narrativa di cui Sebald, proprio come Omero, era un maestro: la divagazione appunto, o meglio quel tipo peculiare di divagazione di Mendelsohn chiama “composizione ad anello”, nella quale “la narrazione sembra andare alla deriva in una digressione […], anche se la digressione, il vagabondaggio, si rivela alla fine essere un cerchio, poiché la storia ritorna precisamente al punto dell’azione in cui è iniziata”.
Mendelsohn fa notare come l’Odissea sia il primo grande esempio di narrazione divagante, o “poliforme”, proprio come il suo eroe. Con un salto concettuale degno di Frank Kermode, poi, spiega come quelle basate sulla composizione ad anello siano narrazioni “ottimistiche”, che postulano la possibilità di “infinite digressioni all’interno di un’unica storia, di una serie potenzialmente infinita di cerchi concentrici sempre più piccoli all’interno di uno più grande”. E questa, sembra sostenere Mendelsohn, è un’idea di letteratura che ha strettamente a che vedere con il nomadismo, con l’essere cittadini del mondo e allo stesso tempo di nessun luogo, perché è una letteratura che ingloba tutte le letterature, in una visione della Weltliteratur in cui ogni narrazione individuale (o nazionale) non è che un cerchio concentrico nella grande storia della letteratura mondiale. Un’idea senza la quale Mimesis di Auerbach, a cui è dedicato il primo testo del libro, non esisterebbe.
Mendelsohn però sottolinea anche come ci siano differenze sostanziali tra la composizione ad anello di Omero e quella di Sebald: se nel primo la digressione era utilizzata “allo stesso tempo per illuminare e mettere in scena la segreta unità delle cose”, come capita nel caso di quelle serie TV che ci svelano elementi della trama principale attraverso flashback nella vita dei personaggi, nel caso di Sebald le digressioni “sembrano pensate per confondere, invischiare i personaggi in divagazioni dalle quali non sono in grado di districarsi e che non sembrano avere una chiara destinazione”. Nel fare ciò, continua Mendelsohn, esse ci mettono di fronte alla “angosciante possibilità che ci siano storie che non hanno fine, che semplicemente girano in tondo senza senso, e quindi vite […] senza speranza di chiusura, di soddisfazione narrativa”.
Questa possibilità kafkiana di storie senza finale, di narrazioni che come la stessa vita di Sebald si interrompono nel nulla in maniera apparentemente casuale, è tutt’altro che ottimistica. Ma è anche un segno dei tempi: solo qualche anno fa Vanni Santoni faceva notare, a proposito di Antonie Volodine nella sua incarnazione Lutz Bassmann, come le storie senza finale fossero una delle possibili incarnazioni della letteratura futura. D’altra parte non è un caso che anche i due grandi romanzi di Bolaño, con tutta l’influenza che hanno esercitato sulla letteratura degli ultimi vent’anni, seguano in maniera solo molto vaga l’idea di una “storia” e si interrompano più o meno arbitrariamente nel nulla.
Qui dobbiamo chiamare di nuovo in causa Frank Kermode, che nel Senso della fine sostiene una tesi fondamentale per la letteratura di internet: quella per cui quando la fine dei tempi viene procrastinata all’infinito, ciò che ne risulta è una “crisi” permanente. O per meglio dire, usando le parole del critico britannico, man mano che l’Apocalisse non si verifica nella realtà, la fine “imminente” si trasforma in una fine “immanente”, diffusa, onnipresente. Non è un caso che per Kermode la conseguenza di questa “immanentizzazione” della crisi sia la “peripezia”, un altro termine per indicare la digressione. Altrettanto significativo però è un altro aspetto, che l’idea di Mendelsohn di “vite […] senza speranza di soddisfazione narrativa” riassume bene: laddove non c’è più un finale a fornire un senso alla vita, o alla narrazione, la ricerca di senso si “immanentizza” a sua volta. Il senso, negato dalla grande narrazione (il cerchio esterno nella teoria di Mendelsohn), riappare ovunque nelle piccole narrazioni che essa contiene (i cerchi concentrici).
Ecco allora che entrano in gioco le “coincidenze apparentemente significative” della scrittura di Sebald, quel reticolato di connessioni che nei testi sebaldiani ci dà sempre l’impressione, mai del tutto confermata né smentita, che gli elementi di ogni narrazione siano collegati tra loro in un tutt’uno più grande: che vi sia una relazione tra l’ecatombe delle aringhe e la storia del Norfolk, tra il Dr. K e il villaggio di W., o tra Austerlitz e Sebald stesso. Sebald, che è un maestro della vertigine, insegue l’estasi anfetaminica tipica dell’esperienza del mondo nell’epoca di internet per cui tutto è connesso a tutto. Allo stesso tempo è troppo raffinato, o forse troppo disilluso, per credere davvero che queste somiglianze rimandino a un disegno unitario. Ciò che rimane al lettore è una sensazione potente, ma straniante, di somiglianza, come un dejà vu, o una parola che ci rimane sulla punta della lingua ma che non riusciamo a ricordare.
Le coincidenze apparentemente significative sono la pietra angolare su cui si basa un altro romanzo che uscirà tra non molto in Italia, Trilogia della guerra di Agustín Fernández Mallo (nel nostro paese per Utopia a marzo 2022, tradotto da Silvia Lavina). Già il termine “romanzo” per parlare del libro di Fernández Mallo è fuorviante, dato che i tre testi che lo compongono sono indipendenti l’uno dall’altro: tre racconti lunghi, una trilogia appunto. Allo stesso tempo, però, i tre testi sono tenuti insieme da una struttura reticolare di rimandi incrociati che non si limita al macro-tema esplicitato dal titolo (le guerre, da quella civile spagnola a quella del Vietnam), ma che si configura come una vera e propria esperienza apofenica in cui alcuni elementi continuano a tornare dando l’impressione di un senso generale che tuttavia inesorabilmente ci sfugge.
Il lavoro di Fernández Mallo è stato definito con una certa ragione il punto di intersezione tra Sebald e David Lynch. Ci sono altri riferimenti altrettanto evidenti (DeLillo, lo stesso Bolaño), ma la definizione coglie bene l’aspetto onirico della sua scrittura. I tre testi che compongono la Trilogia funzionano come Mulholland Drive, in cui l’apertura della misteriosa scatola blu mescola le carte in tavola, costruendo una storia alternativa a quella che abbiamo seguito fino a quel momento messa però in scena dagli stessi personaggi. Come in Lynch, l’atmosfera è numinosa e particolari apparentemente banali sembrano significare qualcosa che si trova al di là della nostra comprensione, ma allo stesso tempo è spezzata da momenti di ironia.
La derivazione sebaldiana invece va oltre l’aspetto contenutistico (il primo dei tre testi, ad esempio, è incentrato sull’isola di San Simòn in Galizia, usata durante gli anni del franchismo come prigione per i dissidenti politici) e anche a quello formale più immediatamente riconoscibile (l’utilizzo di fotografie a commento del testo). Ciò che veramente c’è di Sebald in Fernández Mallo è, ancora una volta, l’uso della divagazione, che nello scrittore galiziano raggiunge forme pienamente tipiche del mondo di internet quando, ad esempio, il narratore divaga sul nanismo insulare o sul fatto che i movimenti di rotazione e rivoluzione di Venere fanno sì che su quel pianeta un giorno duri più di un anno.
Ci troviamo ancora una volta di fronte ai cerchi concentrici di cui parla Mendelsohn e, allo stesso tempo, alla loro incapacità fondamentale di significare un tutt’uno coerente, di essere riassunti e contenuti nel grande cerchio che dovrebbe essere la narrazione unitaria e che invece esplode lungo mille rivoli eccentrici. Il senso negato dall’assenza della fine lascia il posto alla parvenza di senso, a un senso fantasmatico o spettrale. La letteratura si trasforma nel resoconto di una pareidolia diffusa, la sensazione sottilmente paranoica che il mondo sia costellato di somiglianze significative e la percezione, angosciosa, che queste non arrivino mai a strutturarsi in una più ampia e coerente narrativa.
Come nel caso di Sebald, e di Mendelsohn stesso, con Fernández Mallo ci troviamo in un mondo letterario che esperiamo come si esperisce un sogno: entrando e uscendo da uno stato onirico, in un susseguirsi di immagini e storie che attraversano la nostra mente come fantasmi. Fénelon alla corte di Luigi XIV, una vacca che va a partorire tra i marines che hanno appena visto il corpo di un vietnamita mangiato dagli uccelli; un personaggio che potrebbe o meno essere Dalì, che potrebbe o meno essere Kafka, o Stendhal; Cesárea Tinajero, che potrebbe esistere o meno, come il realismo viscerale e il post-esotismo; inseguiamo le storie dei morti dell’Olocausto come Ulisse nel suo ritorno a Itaca, per mezzo di tracce labili, lungo le tappe di una narrazione che siamo sul procinto di dimenticare.
È una letteratura influenzata dall’ADHD di cui in qualche modo soffriamo tutti, in un mondo costantemente connesso in rete, incapaci di rimanere concentrati su una narrazione per più di pochi minuti, ma anche qualcosa di più profondo: la definirei una “letteratura ipnagogica”, per parafrasare il termine che il critico musicale David Keenan ha utilizzato per parlare di James Ferraro nel 2009, in un momento fondamentale per il passaggio della musica dall’analogico al digitale. Una scrittura che dà conto di una nuova maniera di esperire il mondo e che assomiglia alle immagini, vividissime ma anche fuggevoli, che vediamo proiettate sulle palpebre nei momenti prima di addormentarci, e che quindi ha a che vedere con l’allucinazione.
D’altra parte c’è qualcosa di allucinatorio nella “serie potenzialmente infinita di cerchi concentrici sempre più piccoli all’interno di uno più grande” di cui parla Mendelsohn: siamo nel mondo di quella grande metafora della fiction contemporanea che è Inception, come abbiamo già ricordato, ma forse ancora di più in quello di Deep Dream, il sistema di visione artificiale sviluppato da Google nel 2015 che crea immagini dall’aspetto lisergico cercando somiglianze dove nella realtà ci sono solo ammassi asignificanti di pixel. Deep Dream che vede ovunque la faccia di un cane come Philip Dick, nel racconto di Carrère, vedeva la faccia di Palmer Eldritch, il demiurgo, nei cieli nuvolosi della California del Nord.
Anche la morte di Sebald, due mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, è una coincidenza apparentemente significativa: lo scrittore che più di tutti ha tracciato una linea di congiunzione tra la narrativa novecentesca e la letteratura di internet poteva solo andarsene pochi mesi dopo l’evento che ha segnato l’ingresso nel terzo millennio. Dove porti questo cerchio che si apre dove il precedente si è chiuso è ancora tutto da scoprire.
gianluca didino è nato nel 1985 in Piemonte. I suoi articoli sono stati pubblicati su IL, Studio, Nuovi Argomenti. Ha curato la rubrica VALIS sul Mucchio Selvaggio e attualmente collabora con minima&moralia e Doppiozero.
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