L’Homo sapiens gode di un’innata predisposizione biologica alla socialità positiva. Tuttavia, tende a empatizzare soltanto coi membri del proprio gruppo sociale. È possibile allargare i confini del gruppo fino a comprendere l’intera umanità, ma sovraestendere l’empatia verso specie non umane, e in generale verso la natura, sembra apparentemente impossibile. La ragione risiederebbe nel lungo processo storico-antropologico che porta dai culti animisti a quelli secolarizzati dell’umanesimo. Ma il processo non è irreversibile: possiamo ancora riscoprire l’umano nella natura e la natura nell’umano, empatizzando così con l’intero pianeta.
In copertina: opere di Karnen van de oceaan
di Enrico Papa
Nel corso degli ultimi decenni la parola empatia ha smesso di essere esclusivo appannaggio degli specialisti di scienze sociali e scienze umane, trasformandosi sempre più in un termine di uso quotidiano. Complice il lavoro divulgativo svolto da diversi studiosi – come l’economista e sociologo Jeremy Rifkin con il suo La civiltà dell’empatia, o come lo psicologo Daniel Goleman con il volume Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici – la parola empatia è diventata di dominio pubblico. Infatti, nonostante sia sempre stato e resti ancora un vocabolo equivoco (e molto spesso equivocato), tutti sappiamo che in qualche modo l’empatia concerne una specifica modalità del sentire: un sentire dentro di noi qualcosa che è al di fuori di noi.
Parte della confusione che regna sul termine è forse dovuta proprio alla grande popolarità del testo di Goleman. In qualche modo, nell’immaginario collettivo, forse dietro a specifiche logiche di business, si è finito per considerare i concetti di empatia e intelligenza emotiva quasi come sinonimi, quando in realtà la prima è soltanto una delle varie componenti della seconda. Seguendo Goleman, infatti, possiamo scomporre l’intelligenza emotiva in quattro dominii, due di carattere intrapersonale e due di carattere interpersonale. In primo luogo, a livello intrapersonale, troviamo il dominio dell’autoconsapevolezza, l’architrave di tutta l’intelligenza emozionale, una riproposizione in chiave metaemotiva del celebre motto socratico “conosci te stesso”. Il secondo dominio, sempre intrapersonale, è quello dell’autogestione emotiva – sapersi relazionare positivamente con le proprie emozioni senza divenirne ostaggio. Il terzo dominio, questa volta di carattere interpersonale, è quello della consapevolezza sociale, il saper leggere le emozioni altrui: è qui che risiede l’empatia. L’ultimo dominio, sempre interpersonale, concerne la gestione delle relazioni e dei rapporti con gli altri. Si noti, infine, come fra i quattro dominii viga un rapporto di necessità e subordinazione: non si possono gestire efficacemente le relazioni con gli altri se prima non si empatizza con loro; non si può empatizzare con gli altri se prima non si esce dal sequestro egocentrico delle proprie emozioni; non si possono gestire efficacemente le proprie emozioni, ritrovando lucidità ed equilibrio, se prima non si è pienamente consapevoli di queste e di sé stessi.
Chiarito in che punto si colloca l’empatia nel processo che, a partire da sé, porta a relazionarsi in maniera positiva con l’altro da sé, occorre definire cosa si intende con questo termine. In Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva la psicologa dello sviluppo e psicoterapeuta Silvia Bonino ci ricorda come «storicamente il termine empatia è stato coniato come traduzione del termine tedesco Einfühlung (“sentire dentro”), usato all’inizio in ambito filosofico per designare il godimento estetico, e poi passato alla psicologia, mantenendo la sottolineatura sul fatto che i sentimenti delle persone (al pari degli oggetti dell’esperienza estetica) sono non solo osservati, ma compartecipati e sentiti internamente come propri». Questa condivisione degli stati d’animo, questo immedesimarsi in ciò che gli altri provano, affonda sì le proprie radici in «una disposizione innata all’imitazione motoria dei propri simili, che riguarda in particolare la loro espressione emotiva e si traduce nella condivisione automatica e riflessa delle emozioni altrui», ma con una sostanziale differenza. Infatti, se è vero che «il contagio emotivo è la prima forma di condivisione emotiva, nella quale l’emozione di un’altra persona diventa automaticamente anche la propria», esso «non esaurisce però le possibilità di condivisione emotiva; con lo sviluppo cognitivo le capacità di comprendere ciò che gli altri provano si ampliano e la condivisione non è più automatica, ma cognitivamente mediata». Questa è l’empatia. Ed è fondamentale sottolineare che «la condivisione empatica è ben diversa da quella che si verifica nell’imitazione mimetica, o contagio: pur discendendo dal contagio emotivo, l’empatia non si identifica con esso, perché richiede una mediazione cognitiva e una precisa differenziazione fra sé e l’altro che nel contagio non ci sono». Ne consegue che «nell’empatia le emozioni di un’altra persona non suscitano più una risposta riflessa, ma una reazione vicaria, poiché vengono correttamente riconosciute e vissute come esterne a sé, cioè come appartenenti a un’altra persona».
L’enfasi sulla dimensione cognitiva che presiede all’empatia è indispensabile per comprendere la portata delle implicazioni sulla possibilità di empatizzare sia con altri membri della nostra specie, sia con la natura in senso lato. Infatti, è solo tramite quel processo cognitivo denominato categorizzazione che Homo sapiens circoscrive l’insieme di soggetti verso i quali è più probabile riserverà le proprie attenzioni empatiche. Certo, sempre Bonino ci ricorda che l’essere umano è biologicamente predisposto a stabilire coi propri simili rapporti positivi orientati al contatto, alla condivisione, alla compassione e al riconoscimento della comune umanità – tutti elementi presenti nel nostro bagaglio filogenetico sotto forma di moduli comportamentali universali, funzionali alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. Ma chi siano questi “simili”, chi appartenga a questa “umanità”, per gli esemplari di Homo sapiens non sembra essere sempre così scontato.
Nel corso della sua evoluzione, in un periodo che va dai 70.000 ai 30.000 anni fa, Homo sapiens ha attraversato quella che è stata forse la rivoluzione più importante della nostra specie: la rivoluzione cognitiva, che comportò l’emersione della capacità di creare e credere in finzioni; di parlare di cose che non esistono nella realtà, ma soltanto nella mente. Ben descritta dallo storico Yuval Noah Harari in Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, quest’abilità tutta umana di costruire realtà immaginate, su cui fondare miti e credenze collettive grazie alle quali mobilitare e coordinare intere masse di individui, ha costituito il nostro più grande successo evolutivo. Grazie a essa, per esempio, un certo numero di sapiens può riconoscere reciprocamente altri sapiens come propri simili, categorizzandoli come appartenenti a una comune umanità (ingroup), e con essi far fiorire un’intera civiltà reggendola su un ordine immaginario costituito. Ma al tempo stesso, dal momento che una delle più frequenti attività cognitive è quella di comparare il proprio stato sociale con quello degli altri – e dal momento che gli altri vengono da noi continuamente classificati, interpretati e valutati proprio in virtù di questa nostra capacità di creare categorie fittizie – ciò comporta, in maniera sostanzialmente inevitabile, l’esclusione dal consesso umano di tutti quegli esemplari di sapiens che vengono considerati estranei, in quanto non appartenenti allo stesso gruppo (outgroup).
Semplificando un po’, possiamo considerare questa tendenza all’etnocentrismo – tratto comune a tutte le società umane, osservabile in ogni tempo e luogo – come un’importante causa di conflittualità, e quindi come il motivo per cui gli umani riservano molto più difficilmente le loro attenzioni empatiche ai membri esterni ai loro gruppi di riferimento. Nonostante si condivida oggettivamente una comune condizione, l’intervento cognitivo che presiede i processi di categorizzazione è così potente da impedirci di riconoscere questa comunanza e di empatizzare indistintamente con ogni altro essere umano, in barba ai nostri driver biologici. Un possibile modo per fronteggiare questa tendenza, suggerisce la psicologa sociale Chiara Volpato in Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, «potrebbe riguarda la creazione di un’identità che abbracci l’intera comunità umana» dato che «il favoritismo per l’ingroup e i conflitti intergruppi possono essere ridotti mediante un processo di ricategorizzazione, che conduca membri di gruppi diversi a ritenersi appartenenti a una stessa categoria sovraordinata». Tuttavia, Volpato riconosce che «promuovere la percezione della comune appartenenza alla specie umana non è semplice», nonostante sarebbe terribilmente urgente rendere saliente tale idea, «un’idea che appare oggi sempre più necessaria alla sopravvivenza dell’uomo sulla Terra: solo una specie coesa e consapevole dei propri limiti può infatti sperare di confrontarsi con successo con i problemi sociali e ambientali da lei stessa creati».
-->Indirettamente, Volpato sembra quasi suggerire che la soluzione al problema risieda nella formulazione del problema stesso. È pensiero comune che gli esseri umani non riusciranno mai ad andare oltre alle loro differenze, riconoscendosi in una comune umanità, fin quando non si troveranno di fronte a una minaccia che bersaglierà non un singolo gruppo, ma l’intera specie umana. Senza scomodare un’improbabile invasione extraterrestre, il cataclisma ecologico già in atto sulla Terra dovrebbe essere più che sufficiente a riunire l’intera umanità sotto al vessillo della sopravvivenza della specie. Eppure, nonostante gli effetti di questa minaccia siano sotto gli occhi di tutti, questo non avviene. Perché?
Ritorniamo ai quattro dominii dell’intelligenza emotiva secondo Goleman, e fingiamo che il quarto, quello della gestione efficace delle relazioni e dei rapporti con gli altri, riguardi in maniera più estesa la gestione efficace, da parte degli umani, delle relazioni con l’ambiente e dei rapporti con le altre specie non umane – dove per “efficacia” intendiamo la capacità di ottenere l’effetto voluto, e per “effetto voluto” intendiamo la promozione della sostenibilità, la tutela della biodiversità e degli ecosistemi, la riduzione degli inquinamenti ecc. Affinché tutto questo sia possibile, per via del già menzionato rapporto di necessità e subordinazione che vige fra i quattro dominii, occorrere essere in grado di empatizzare con la natura e le sue manifestazioni in senso generalizzato. Tuttavia attualmente la nostra specie non sembra in grado di farlo. Anzi, qualche detrattore potrebbe addirittura notare che sarebbe improprio parlare di empatia in questo frangente, e che lo si potrebbe fare soltanto in senso metaforico.
Come vedremo, è proprio questo senso metaforico a rappresentare il punto di svolta, nonché la chiave di accesso, per provare empatia verso la natura. Prima, però, occorre comprendere da dove derivi questo senso di separatezza che Homo sapiens prova nei confronti del resto del mondo. È sempre Harari, ripercorrendo la storia della nostra specie, a offrirci una possibile risposta. Nel saggio già citato, lo studioso evidenzia le ragioni storico-antropologiche per cui col passaggio dai culti animisti a quelli politeisti gli esseri umani si sono disconnessi dalla natura, non considerandosi più parte di essa. «L’animismo è il credo secondo cui quasi ogni luogo, animale, pianta o fenomeno naturale possiede consapevolezza e sentimento, e può comunicare direttamente con gli umani». Per i sapiens animisti, per esempio, grazie alle già citate capacità cognitive di creare e credere in finzioni, anche un oggetto come una roccia, che da un punto di vista scientifico classificheremmo come inanimato, può provare emozioni, avere desideri e necessità, ammonire persone e chiedere favori. E in maniera reciproca gli umani possono relazionarsi alla roccia come se fosse viva, pensante e dotata di una coscienza propria, e lo stesso può valere per un albero, per un torrente, per una collina, per un bosco e per gli animali che lo abitano. «Gli animisti credono che non esista alcuna barriera tra gli umani e gli altri esseri. Possono tutti comunicare tra loro direttamente, attraverso il discorso, la canzone, la danza e la cerimonia» e «così come non esistono barriere tra gli umani e gli altri esseri, non vi è neppure una stretta gerarchia che regoli la comunicazione. Le entità non-umane non esistono solamente per provvedere ai bisogni dell’uomo. Né sono divinità onnipotenti che gestiscono il mondo a proprio piacimento. Il mondo non gira intorno agli umani né intorno ad alcun altro gruppo di esseri». Con l’avvento della rivoluzione agricola e la domesticazione di piante e animali, inizia il declino dei cacciatori-raccoglitori, e con essi il declino dell’animismo, soppiantato dal politeismo. All’epoca dei cacciatori-raccoglitori norme e valori dovevano prendere in considerazione i punti di vista e gli interessi del restante mondo naturale, «per capire l’ordine oltreumano che lo regolava, così da adattare il proprio comportamento di conseguenza». «Il fatto che l’uomo cacciasse le pecore selvatiche non rendeva queste ultime inferiori all’uomo, così come l’uomo non era inferiore alle tigri se queste ultime gli davano la caccia. Gli esseri comunicavano l’un l’altro direttamente e negoziavano le regole che governavano il loro habitat comune». Ma l’avvento della rivoluzione agricola ebbe l’effetto religioso di «trasformare piante e animali da membri paritari di una tavola rotonda spirituale a oggetti di proprietà» che i sapiens «possedevano e manipolavano», e «difficilmente si sarebbero degradati scendendo a patti con cose che erano già in loro possesso». Non potendo più interagire col mondo naturale da pari a pari, i sapiens ricorsero nuovamente alla loro capacità di creare e credere in finzioni. Quando le piante e gli animali “persero” la capacità di “parlare”, gli dèi avanzarono al centro della scena come mediatori fra l’uomo e la natura: «gran parte della mitologia antica è, a ben vedere, un contratto legale in cui gli umani promettono un’eterna devozione agli dèi in cambio di un dominio assoluto su piante e animali». «Per gli animisti, gli umani non erano altro che una delle tante creature che abitavano il mondo. I politeisti, invece, interpretarono sempre più marcatamente il mondo come un riflesso dei rapporti esistenti fra gli dèi e gli umani. Le nostre preghiere, sacrifici rituali, peccati e buone azioni determinavano il destino dell’intero ecosistema. […] Il politeismo, quindi, esaltava non soltanto lo status degli dèi, ma anche quello degli esseri umani», figure emergenti da una natura che i sapiens stessi iniziarono a pensare come sempre più distante, relegandola a fondale della loro storia, da sfruttare a piacimento per le proprie necessità.
Nel passaggio dai culti politeisti a quelli monoteisti, e più recentemente dai culti monoteisti a quelli secolarizzati, che Harari chiama “religioni umaniste”, ovvero religioni che venerano l’umanità – la setta dell’umanesimo liberale, quella dell’umanesimo socialista e quella dell’umanesimo evoluzionista – la tendenza all’antropocentrismo non ha fatto altro che aumentare, e con essa l’allontanamento concettuale dell’uomo dalla natura, verso la quale infatti fatichiamo a empatizzare.
In sintesi, sembriamo arrivati a un vicolo cieco. I sapiens non riescono a empatizzare in maniera globale gli uni con gli altri perché manca loro la percezione di un comune problema che, minacciando l’intera specie, li unisca; e gli manca la percezione di un comune problema – che però c’è, ed è pure grave – perché non riescono più a empatizzare con la natura come facevano quando erano animisti. Ed è un po’ comico (se non fosse tragico) notare come quel pensiero scientifico che si sbraccia quotidianamente invocando interventi per scongiurare la crisi ecologica e tutelare l’ambiente, sia lo stesso pensiero che liquiderebbe come irrazionali superstizioni le credenze animiste, le sole che abbiano postulato una parità fra i sapiens e il resto della natura in tutta la storia del genere umano.
L’effetto emergente, non previsto e non voluto, dei continui allarmi della scienza sul cataclisma in atto, è purtroppo quello di contribuire al fenomeno dell’ecoansia, che mina la tenuta del secondo dominio dell’intelligenza emotiva (autogestione emotiva), spingendo sempre più persone verso strategie politiche cognitivamente miopi e socialmente ignoranti (come l’ecoterrorismo), dettate sotto il sequestro della paura e della rabbia. Ma forse l’errore fondamentale è pensare che la questione ecologica sia una questione politica, quando invece, a ben vedere, come ci insegna Harari, parrebbe essere una questione primariamente religiosa, nella sua accezione etimologica di “legare assieme”.
Non si tratta di proporre un ritorno generalizzato all’animismo, né tantomeno di un abbandono della scienza e delle sue conquiste, bensì di riflettere sulla “capacità legatoria” che hanno le narrazioni religiose. Si tratta, in sostanza, di ricorrere nuovamente a ciò che i sapiens sanno fare meglio: creare e credere in finzioni. In termini pragmatici, se ai sapiens cacciatori-raccoglitori le finzioni animiste servivano per stipulare norme e valori con cui regolare il proprio comportamento per sopravvivere nell’ambiente, ai sapiens moderni le finzioni metaforiche possono servire per empatizzare con la natura, stipulando così nuove norme e valori con cui regolare il proprio comportamento per sopravvivere alla catastrofe ecologica.
Usare la metafora, in questo senso, significa individuare l’umano nella natura – personificandola – e la natura nell’umano – ecologizzandolo. Significa fondare, intorno al linguaggio poetico, una comunità di senso con cui ripristinare quella tavola rotonda spirituale che metta gli esseri umani e tutti gli altri esseri – viventi e non viventi – sullo stesso piano, ben sapendo che si tratta sempre e comunque di una finzione, di un mito condiviso – ma necessario – attraverso cui poter riuscire a provare empatia per la natura stessa. O meglio, riuscire a provare metaforicamente empatia per la natura, il che non cambia comunque il risultato: se, come già detto, l’intervento cognitivo che presiede i processi di categorizzazione è così potente da impedirci di vedere l’umanità in un altro essere umano, nonostante questo sia oggettivamente un essere umano, allora è altrettanto potente da permetterci di vedere l’umanità in un altro essere non-umano, nonostante questo sia oggettivamente non-umano. E, di conseguenza, è possibile empatizzare con quell’essere.
Per quanto tutto questo sarebbe già di per sé una gran conquista, non sarebbe che il primo passo verso un cambiamento globale di consapevolezza a cui un giorno, forse, arriveremo. A un livello superiore, potremo forse perfino trascendere la distinzione tra Ego e Alter, rendendoci conto che in realtà non c’è nessuna separazione fra la natura e l’uomo. A quel livello di consapevolezza, sarà perfino obsoleto parlare di empatia nel senso di “sentire dentro di noi qualcosa che è al di fuori di noi”, poiché ci si renderà conto – se non sotto forma di comprensione intellettuale, almeno sotto forma di intuizione esistenziale – che non c’è nessuna distinzione fra il dentro e il fuori. Allora sarà immediatamente chiaro, senza bisogno di scriverne, che tutto ciò che staremo facendo al pianeta Terra, lo staremo facendo a noi stessi.
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