Com’è che il corpo ricorda i traumi

Non abbiamo una sola memoria, ma più memorie che costituiscono lo strumento utile a qualsiasi altro dispositivo tecnologico. Il corpo, in questo senso, è il pilastro dei nostri ricordi. Soprattutto dei traumi.


IN COPERTINA e lungo il testo disegni di man ray

Di Greta Plaitano

 

Secondo la studiosa di letteratura Aleida Assmann esistono due tipi di memoria: la memoria-archivio e la memoria-funzionale. La prima è una sorta di mare magnum di informazioni, dati ed esperienze che fanno parte dell’individuo e della sua storia. Una massa confusa, amorfa, senza un senso logico, composta da elementi che giacciono sul fondale della mente ma che possono sottrarsi al suo libero arbitrio, restando spesso intrappolati in una forma latente e inconscia. Questa, come vuole lo stereotipo dietro a ogni archivio, rappresenta una sorta di deposito polveroso nel quale si accumulano materiali grigi poco frequentati: ricordi e reperti del passato, occasioni perdute, strade alternative e mondi del ‘cosa sarebbe potuto essere’.

La memoria-funzionale, invece, rappresenta insieme uno spazio e un’azione. È un repertorio di eventi realmente accaduti, che gravitano nel pensiero e dai quali l’uomo può attingere a suo piacimento. È un luogo in cui le cose non accadono per caso, seguendo un flusso, ma succedono secondo la volontà della persona. Una memoria attiva, “strutturata da un processo di scelta, di collegamento, di costruzione di senso”, che non si limita a essere un contenitore, un terreno di accumulo incondizionato di avanzi, ma si definisce come una superficie libera, in cui si esercita una possibilità concreta. È una memoria in cui il passato smette di essere un dogma, si trasforma e cambia nome. 

A quest’ultima memoria pare fare appello il libro Il corpo ricorda, pubblicato quest’anno da NNE nella nuova serie dal nome ‘Le fuggitive’. L’autrice Lacy M. Johnson, scrittrice e docente americana, esercita questo tipo di reminiscenza scrivendo memoir mordace in cui si susseguono stralci di fatti, testimonianze ‘oggettive’ e interpretazioni di cosa le accadde il 5 luglio del 2000. Quel giorno Johnson venne rapita e stuprata dal suo ex, che nel libro e nella realtà non ha e non merita nome – essendo ancora latitante – e passa dall’essere banalmente ‘Il Mio Docente di Spagnolo’, a un più vicino e amorevole ‘L’Uomo Con Cui Vivo’ diventando infine il mostro capace di sequestrarla, ‘L’Uomo Con Cui Vivevo’. La memoria-funzionale dell’autrice crea un doppio binario di analisi e risemantizzazione del passato non soltanto trasformando i nomi dei personaggi in appellativi legati ad azioni e professioni, ma ripercorrendo gli eventi da due punti di vista opposti. Da un lato leggendo i verbali che si presuppone imparziali della polizia, osservando i reperti che, ancora dopo anni, giacciono muti nelle buste di plastica. Dall’altro cercando di assemblare in una forma nuova – abbandonandosi al ricordo fisico, sensibile – i pezzi di quell’amore tossico nel quale ammette di aver giocato una parte importante, verso la quale nutre risentimento e con cui desidera fare pace:

“Nell’ultimo verbale […] io sono identificata come Lacy Johnson: VITTIMA. Lo leggo e sono certissima che sia vero. Mi vedo come mi vedevano gli agenti: una che chiama la polizia per denunciare un numero sospetto nel proprio registro delle chiamate. Sono un soggetto da interrogare, una versione da indagare, una serie di azioni illegali perpetrate da un indiziato che è scomparso.

Eppure, quando chiudo il file, mi torna in mente che la verità è più complicata di così. Mi torna in mente, per esempio, di aver fatto delle scelte. Lo guardo negli occhi mentre mi svesto. Quando è finita lui si scusa e mi porta qualcosa da mangiare. Io gli dico che è tutto a posto, tranquillo e gli accarezzo i capelli mentre lui mi piange in grembo. Mi implora di tornare con lui. Fuori, in corridoio, c’è il suo fucile appoggiato al muro. Da un momento all’altro lui potrebbe ammazzarmi oppure no. Dopo tutti questi anni, io sono ancora viva e morta contemporaneamente in qualunque stanza tranne questa”.

Il libro investe così la memoria fisiologica di un senso nuovo, recuperando e rileggendo gli avvenimenti secondo un crescendo di sensazioni in cui coesistono diffidenza, accondiscendenza, amore, dipendenza emotiva e paura. È in questo modo che il corpo acquisisce un ruolo centrale, quello di medium mnemonico, struttura materiale in prima linea davanti a un avvenimento capace di registrarne inevitabilmente i segni. Come una morbida tavoletta d’argilla, una lastra di pietra da incidere a fatica o una carta manoscritta a inchiostro, il corpo è un catalogo, un registro che conserva milioni di informazioni esplicite e implicite. Cicatrici, dolori e sensazioni investono non soltanto la sua superficie, ma anche l’interno celato all’occhio nudo come la carne e il DNA,  le sue strategie di sopravvivenza, movimenti psico-fisici stabilizzatisi nel tempo e messi in atto da generazioni: “ è strano, penso ora, il modo in cui se pure la mente dimentica, il corpo ricorda. Il modo in cui il corpo ricorda slegato dalla mente: il modo di stare-accanto o giacere-sotto o sedere-sopra o rialzarsi-da. Il corpo ricorda le preposizioni: la propria posizione in rapporto ad altri corpi. Le spalle sollevate, la voce abbassata. Il modo in cui ogni muscolo, lingua compresa, può irrigidirsi. O rabbrividire. Il modo in cui dopo che l’altro è scomparso, il corpo prosegue: accanto, sotto, sopra, da. L’ombra, il fantasma, la traccia”.

Il corpo rappresenta dunque una fucina per la memoria e per quella parte di essa che vuole redimersi, spingendo verso l’esterno sino a diventare parola e infine racconto. L’ambiente in cui i ricordi sembravano solo accatastarsi l’uno sull’altro è in questo senso uno spazio dinamico, creativo, che recupera pezzi del passato, li mescola e li rimette in fila secondo un ordine differente, in cui l’intento narrativo diventa il simbolo di una nuova vita. Omettere, cancellare, nascondere, sono stratagemmi che allontanano dalle verità passate ma il loro racconto, insieme falso e reale, attraverso la dimensione artistica può portare all’emergere inaspettato di frammenti inattesi, forgiando una memoria spontanea altrimenti impossibile.

Una memoria ‘corporale’ secondo il filosofo Paul Ricœur, di cui il canone in letteratura è rappresentato ovviamente dalla Recherche, in cui il protagonista si appella a questa per fare ritorno nel proprio passato e riascoltarlo, risentirlo, creando un momento in cui il ricordo diventa una nuova forma di riconoscimento di se stesso.

Un altro libro quest’anno ha avuto il coraggio di parlare, sebbene in forma diversa rispetto a quello di Johnson, di come si può manipolare e ridefinire il ricordo, in questo caso ancora di una relazione segnata dall’amore e dalla violenza. Servirsi, tradotto in Italia lo scorso giugno e da E/O, è il primo libro di Lilian Fishman – di cui è uscita anche un’intervista qui su Indiscreto – e che osserva il complesso rapporto a tre tra la giovane bisessuale Eve e la coppia adulta disfunzionale di Olivia e Nathan. Basato su elementi autobiografici, il romanzo di Fishman mette in evidenza seguendo il punto di vista personale della protagonista come seduzione e rapporti di forza siano intrinsecamente uniti, legati da un tiro alla fune che si gioca sulle diverse forme di manipolazione mentale e soprattutto di negoziazione fisica. Il godimento del corpo, il ricordo che soltanto lui mantiene in vita e la sua potenziale azione sugli eventi aprono così a un nuovo spazio di esperienza: “Era come se tutte le domande che mi stavano più a cuore, e dentro le quali mi sentivo sola come non mai – sesso, desiderio, genere, attenzione, intimità, vanità e potere – fossero disposte in bella mostra su un tavolo in mezzo a noi tre. Le potevo esaminare, rigirandole da ogni parte come frutti in una ciotola. Riuscivo a distinguere la forma, conoscevo la mia storia con ciascuno di loro, ma ogni volta che le avevo affrontate in passato ero stata troppo immersa in qualche illusione, speranza o lealtà, per poterle capire davvero. Adesso avevo la sensazione che quella comprensione fosse lì, a portata di mano. Se solo avessi potuto restare un po’ più a lungo in quella stanza, camminare intorno al tavolo osservando la ciotola da ogni angolazione, si sarebbe materializzata qualche nuova occasione di libertà”.

Il medium per eccellenza è il nostro corpo, grazie al quale si può riattivare e rimettere in circolo i dati raccolti lungo l’esperienza, in quella che l’archeologo e antropologo francese André Leroi-Gourhan definisce come una sorta di memoria pratica, ‘esteriorizzata’. Ed è sempre nel sapere dei corpi proposti dalla scrittrice trans Olivia Laing nel suo ultimo libro Everybody, pubblicato in Italia con Il Saggiatore, che vediamo levarsi un’agency di rivolta di fronte a un passato coercitivo e castrante. Ripercorrendo in maniera soggettiva la storia della liberazione sessuale e delle sue plurime identità, Laing dispiega la vita di Wilihelm Reich, psicoanalista ebreo-austriaco che teorizzava la libertà mentale e fisica da un punto di vista affettivo, avallando persino l’aborto. Il suo pensiero libertario, estremamente contemporaneo, si materializza qui in una forma narrativa che mutua dal saggio al diario personale, traducendo tasselli delle vite che gravitavano attorno al visionario studioso come Susan Sontag, Angela Carter, Andrea Dworkin e altri, senza dimenticare una conoscenza che si muove a partire dalla propria anatomia: “Nei due anni successivi disegnai ogni singolo osso, muscolo e organo del corpo, memorizzando nomi e funzioni fin dei più piccoli ossicini della mano: il lunato e il pisiforme, così chiamata per la rispettiva somiglianza alla luna e ai piselli. Su fogli di carta da macellaio tracciai le trasformazioni metaboliche che avvengono dentro la fabbrica in miniatura che è la cellula. All’inizio avevo solo una vaga idea del funzionamento del corpo, ma andai avanti coraggiosamente, affascinata e un po’ intimorita da quanta vita avvenisse sotto la linea di galleggiamento della coscienza. A poco a poco tutto si mise a fuoco. Il corpo era uno strumento per processare il mondo esterno; una macchina convertitrice che accumulava, trasformava, scartava e rimuoveva i pezzi”.

Strumento e macchina, il corpo rappresenta al pari di tutti gli altri medium tecnologici che usiamo quello che per lo storico dell’arte Hans Belting è il prototipo antropologico fondamentale per comprendere immagini e narrazioni. È attraverso di lui che impariamo a conoscere e rielaborare la nostra memoria, fondendo processi di oblio e rimozione a una nuova consapevolezza del passato e delle esperienze che provengono dal mondo esterno. E, in questo modo, si mostra come l’unico dispositivo “che ci permette di percepire, proiettare o ricordare immagini e […] alla nostra immaginazione di censurarle o trasformarle” piegandosi alla creazione artistica e a concederci di ricostruire una nuova narrazione del trauma.


Greta Plaitano è laureata in Storia dell’arte e conservazione dei beni storico-artistici e ha un dottorato di ricerca in Storia dell’arte, cinema e media audiovisivi in cotutela con Sorbonne Nouvelle-Paris 3. Si occupa di immaginari e iconografie del corpo tra XIX e XX secolo incrociando fonti artistiche e mediali – prestando particolare riguardo alla storia della fotografia e dei dispositivi pre-cinematografici – temi ai quali ha dedicato diversi saggi in volume e articoli su riviste scientifiche. Attualmente collabora con la scuola di restauro dell’Accademia di Belle Arti di Brera e insegna catalogazione e gestione degli archivi all’Accademia Albertina di Torino.

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