Un viaggio dentro una delle esposizioni d’arte contemporanea più importanti al mondo.
di Dario Forti e Pietro Consolandi
Concepita nel 1955 dal leggendario Arnold Bode come un “100-day museum” da allestire a Kassel, una cittadina dell’Assia settentrionale delle dimensioni di Brescia – documenta è la manifestazione periodica d’arte contemporanea più importante del mondo insieme alla Biennale di Venezia. Ogni cinque anni, in occasione della mostra giunta oggi alla quattordicesima edizione, Kassel viene animata da stuoli di artisti rampanti, galleristi speranzosi, collezionisti, curatori, giornalisti e critici.

In occasione della tredicesima edizione, la curatrice Carolyn Christov-Bakargiev aveva aperto una esposizione collaterale di documenta a Kabul. Dopo questo esperimento positivo, il polacco Adam Szymczyk, già direttore della Kunsthalle di Basilea dal 2003 al 2014, ha deciso di allargare la manifestazione a un’altra città e – memore dell’insegnamento di Arnold Bode, che concepì la prima documenta come una manifestazione di rinascita tedesca, ma soprattutto europea, dopo la seconda guerra mondiale – Szymczyk ha scelto come co-sede Atene, una città simbolica per la nascita della stessa cultura europea, adottando come slogan “Learning from Athens”. I temi intorno a cui la rassegna si evolve sono quindi fortemente sociali, di solidarietà e diversità, incomunicabilità e chiusura. Un tentativo di affrontare tramite l’arte una questione politica contemporanea che si radica nei macro-temi delle migrazioni e dei risorgenti nazionalismi europei e mondiali.

Partendo da questo concetto, il team di 17 curatori ha deciso di impegnarsi in una sfida dall’esito decisamente imprevedibile, investendo una fetta dei 38 milioni di budget in istituzioni ateniesi (l’EMST, i musei della famiglia Benaki, l’Accademia di Belle Arti…) e portando parte della mostra in una città difficile, per una manifestazione da molti indicata come “tedesca”. In particolare l’EMST (Museo Nazionale d’Arte Contemporanea) guidato da Katerina Koskina ha tratto vantaggio dall’occasione, offrendo a documenta i suoi vasti spazi – non definitivamente aperti al pubblico per problemi di fondi – per ospitare la sezione principale della mostra in Grecia, diventando la controparte ufficiale del Fridericianum, storica sede di documenta, che quest’anno ha eccezionalmente deciso di mostrare la collezione permanente dell’EMST, esponendola per la prima volta al pubblico. L’idea di dedicare l’intero Fridericianum per ospitare la collezione permanente di un museo nazionale è una scelta curatoriale estrema, che sconfina nell’operazione artistica. Ha in sé quegli elementi di dialogo e solidarietà al centro del discorso di documenta, ma anche di decontestualizzazione e messa in discussione del ruolo storico di questa istituzione.

La mostra a volte inciampa nel suo intento, di per sé nobile, rischiando di scivolare nel retorico. Suddividendo le opere con criteri eccessivamente didascalici e su base cronologica, induce il sospetto che la mostra sia stata realizzata per dare visibilità ad artisti greci poco noti, con intento quasi paternalistico. Ciononostante, la collezione dell’EMST riesce a emanciparsi da questi limiti presentando diverse opere di primissimo piano, molte delle quali di artisti relativamente sconosciuti, che mostrano in modo convincente come la Grecia abbia seguito le principali correnti artistiche contemporanee proponendo notevoli variazioni sul tema, dal minimalismo e l’arte povera negli anni ’60 e ’70 fino a opere odierne.
L’opera di Janine Antoni Slumber – oltre a essere tra le migliori viste a Kassel – può essere un perfetto esempio di questo approccio: un lavoro di grande personalità, impatto visivo e valore concettuale, che trae ispirazione dalla tradizione classica Greca (in questo caso il mito di Penelope) per parlare in maniera efficace di elementi della contemporaneità. Il tutto arricchito da un’azione performativa svolta tra il 1992 e 1994. Un’opera tuttora attuale, a 23 anni dalla sua realizzazione, e perfettamente integrata nel percorso espositivo della collezione EMST.
Intorno ai musei principali le due città offrono numerose esposizioni secondarie: 46 per Atene e 35 per Kassel, non solo musei e edifici storici ma anche gallerie, parchi, ex spazi industriali e università. Questo per sottolineare il tentativo di entrare in contatto profondo con il territorio e offrire al visitatore un’esperienza da “mostra-città”.
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Il risultato di questo approccio, purtroppo, è deludente. In entrambe le città, ma soprattutto a Kassel, alcune location sono riempite in maniera approssimativa e discontinua, senza riuscire a offrire una linea guida. L’impressione è che i curatori abbiano parlato e collaborato poco fra di loro, finendo per allestire mostre poco entusiasmanti in quello che dovrebbe essere uno dei palcoscenici più importanti all’interno del mondo dell’arte contemporanea, in cui il pubblico ha aspettative altissime. Fanno le spese di questo anche un’istituzione importante come la Neue Galerie e uno spazio altamente suggestivo come la stazione abbandonata chiamata Kulturbahnhof – nei piani di Szymczyk la prima tappa del percorso espositivo di Kassel – la quale ospita al piano di sopra una performance abbastanza riuscita (Monday del collettivo iQhiya) ma nello spazio principale sotterraneo delude con opere non all’altezza del contesto.

Le esposizioni più riuscite sono invece quelle del conservatorio di Atene e degli ex spazi delle poste a Kassel, entrambe largamente collegate al tema dell’edificio: il linguaggio e il suono nel primo caso e il viaggio nel secondo. Se l’approccio curatoriale potrebbe definirsi didascalico, il livello delle opere e alcune scelte espositive innovative riescono a compensare ampiamente questa colpa, soprattutto pensando a un pubblico di non specialisti.

L’effetto che fanno queste mostre – soprattutto nel caso di Kassel – è però l’opposto di quello che dovrebbe essere in una manifestazione di tale importanza: non sono ciliegine sulla torta ma oasi nel deserto.
Se aggiungiamo questa attitudine curatoriale spesso priva di idee di livello a una certa naturale difficoltà nel trovare i luoghi espositivi, l’effetto complessivo di questa documenta è altamente dispersivo e a tratti frustrante, come nel caso delle due deludenti mostre attigue alla Neue Galerie e al Palais Bellevue.

Anche dal punto di vista degli eventi collaterali le cose non sono andate meglio. L’opening party sembra seguire lo stesso copione di buona parte delle varie mostre ed esibizioni sparse per la città: una location da sogno – in questo caso la stazione dei treni di Kassel, con la banchina dell’ultimo binario trasformata in lungo dancefloor post-industriale – accompagnata da un evento quantomeno deludente. Con una mossa molto simile ai vostri genitori che anacronisticamente ancora citano Claudia Schiffer per parlare della donna più bella del mondo, gli organizzatori hanno visto nell’ormai totalmente irrilevante Ricardo Villalobos il DJ edgy adatto per infiammare la serata alla Hauptbahnhof e provare a dare filo da torcere ai party di Art Basel Miami, dove può capitare che al dj-set congiunto di Jamie XX e A$ap Rocky si presenti Paris Hilton a braccetto di Kanye West e Vanessa Beecroft. Non che facesse probabilmente qualche differenza per il pubblico accorso in massa: Kassel è una città morta, raccontano con gli occhi spenti dai troppi pomeriggi passati a guardare nel fondo fangoso della Fulda quasi tutti gli autoctoni con cui parliamo, e ogni 5 anni, nel bene o nel male, documenta porta qualcosa da fare che non sia farsi le canne sulle panchine sulla riva del fiume. Il dancefloor è così animato da tedeschi vestiti male
in vacanza per una sera a Sognolandia e da operatori del settore dell’arte contemporanea – galleristi, giornalisti, collezionisti, qualche artista minore in cerca di gloria – zelanti come mai nel seguire i comandi dell’hype man sul palco (una specie di Fiorello nero incantatosi sulla frase SU LE MANI CHI ARRIVA DA FRANCOFORTE), fuori luogo come sempre quando si tratta di divertirsi come persone normali. L’inizio del set di Villalobos è previsto per le due, ma la sala principale è troppo affollata e ci sono problemi per far arrivare in console Ricardo, che viene quindi dirottato in una stanza più piccola, lasciando campo libero sul palco principale fino alle cinque del mattino al regno di terrore e canzoni di DJ Antoine instaurato da tale Mista Wallizz, un sosia di Seydou Keita il cui pessimo gusto in fatto di selecta musicale è rivaleggiato soltanto da un altrettanto pessimo gusto in fatto di cappelli.
Camminando per la città capita di imbattersi in performance improvvisate, artisti che approfittano del grande palcoscenico offerto da documenta e i suoi visitatori per trovare un pubblico. Un uomo giapponese di mezz’età vestito con un kimono rosso, completamente pelato e con la faccia dipinta di bianco come un attore del teatro kabuki, inscena il cha no yu, la cerimonia del tè giapponese. Finita la performance, si siede a riposare sui gradini del Fridericianum, riparandosi dal sole con un ombrellino rosso coordinato all’abito. Ci avviciniamo e proviamo a fargli qualche domanda, chiedendo spiegazioni sui significati della sua performance, ma un misto di diffidenza e il suo pessimo (inesistente) inglese ci impediscono qualunque dialogo. Proviamo allora a chiedere qualcosa all’assistente, ma anche il suo inglese non è dei migliori, e le uniche notizie che portiamo a casa sono che vengono da Osaka, l’artista è suo padre, stanno girando il mondo inscenando questa performance e nella settimana successiva sarebbero andati a Glastonbury, a mettere su una cerimonia del tè per una sicuramente interessatissima audience formata da inglesi ubriachi e sporchi di fango. Li incontriamo ancora due settimane dopo a Venezia per caso, fuori dalla Biennale: il figlio-assistente ci rivela di essere rimasto fuori da Glastonbury perché il padre-artista non ha voluto pagare i soldi del biglietto d’entrata anche per lui.
Va un po’ meglio con un altro performer, un musicista vestito a metà strada fra un cosplayer di un personaggio del Signore degli Anelli e un contadino della Bassa Padana dell’800. Lo adocchiamo per la prima volta nella giornata di apertura, nel giardino dello Staatstheater, mentre suona la chitarra e canta in un linguaggio incomprensibile, circondato dalla calda indifferenza delle persone sedute ai tavolini per l’aperitivo. Alla sera, lo incontriamo di nuovo in fila per il bagno all’opening party, in evidente stato d’ebbrezza. Ne approfittiamo per chiedergli qualcosa sulla sua arte e fra un biascicamento e l’altro ci spiega che la sua performance rimette in scena la musica tradizionale dei Sami, a cui appartiene anche il suo bizzarro outfit. Ci rivela che quella è la sua quarta e ultima sera a documenta e che gli organizzatori l’hanno pagato 700 euro a giornata per le sue performance. “Non è molto, ma almeno ci pago le bollette” ci dice un po’ abbacchiato prima di andarsene via barcollando.

Per i visitatori più hardcore, quelli che vedranno prima Atene e poi Kassel, un motivo di sollievo viene dagli artisti davvero capaci di creare una connessione tra le due città, salvando il lavoro di Szymczyk e colleghi. Alcuni lavori, come quello di Piotr Uklanski sul nazismo e i suoi personaggi chiave, risultano incompleti se visitati in solo una delle due città, altri come le maschere di Beau Dick sembrano seguire una naturale evoluzione. La selezione di lavori di Maria Lai offre un interessante sguardo d’insieme sull’opera di un’artista molto prolifica e longeva e ancora relativamente poco esposta. Cecilia Vicuña porta a Kassel una versione limitata della sua installazione ateniese, corredata anche da una performance, sottolineando così le analogie e i sincretismi che esistono fra la cultura mitteleuropea e quella greca, mentre i due video di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor, Somniloquies ad Atene e Commensal a Kassel – forse l’unica opera davvero esposta in un contesto perfetto alla Tofufabrik – sembrano in qualche modo completarsi a vicenda, parlando di diverse ossessioni e pieghe della psiche umana, oltre a nobilitare la manifestazione con due opere di altissima qualità. Infine menzione d’onore per l’artista iracheno Hiwa K, che presenta un meraviglioso video incentrato sulla sua storia di migrante nel conservatorio di Atene e lo complementa con una grande installazione a Friedrichsplatz offrendo due punti di vista differenti ma egualmente riusciti sullo stesso tema.

Non tutti gli artisti molto rappresentati tuttavia sono efficaci nella presentazione della propria opera,l caso di Marie Cool e Fabio Balducci, che propongono due installazioni di mobili e luce solare praticamente uguali all’EMST e a documenta Halle, in entrambi i casi disorientando i visitatori che hanno l’impressione di essere entrati per sbaglio in uno spazio curato da IKEA.
Nonostante le eccezioni, si può dire che in documenta 14 si trovi in nuce nell’opera principale, il grigio Partenone costruito coi libri banditi e bruciati nel corso della storia che accoglie i visitatori a Friedrichsplatz, un ponte mal progettato fra Grecia e Germania, fra Atene e Kassel. Concepita dall’argentina Marta Minujín, l’opera risulta banale e facilotta quanto basta per farsi definire dal Corriere della Sera “un altare per celebrare il culto della dea Democrazia”, un’installazione voluminosa ma priva di qualsivoglia imponenza e maestosità, proprio come l’intera documenta, preoccupata di nascondere la propria incapacità di emettere un giudizio sul momento artistico e dialogare col pubblico dietro a pomposi statement di impegno civile, sociale e politico (la crisi dei migranti, l’Europa unita) disattesi, ignorati o interpretati svogliatamente dalla maggior parte dei curatori e degli artisti esposti.
La colpa forse più grave per una macro-esposizione che si propone di parlare di temi di attualità che coinvolgono praticamente ogni cittadino europeo è proprio quella di parlarne quasi sempre in maniera o semplicistica e banale o volutamente criptica e vaga, utilizzando il linguaggio degli specialisti dell’arte contemporanea. In questo modo documenta si aliena dal tentato dialogo che essa stessa vorrebbe intavolare con un pubblico numeroso, quello delle centinaia di migliaia di persone attese nei cento giorni di esposizione se non per quei pochi addetti ai lavori che hanno assistito ai giorni dell’inaugurazione e al party con Ricardo Villalobos.
Ironicamente, l’opera in mostra che più di tutte entra in dialogo con il pubblico si trova ad Atene, ma è esterna a documenta (si potrebbe definire una sorta di contro-documenta): la mostra Breaking Athens di Michael Landy, indubbiamente il meglio invecchiato fra gli ex-Young British Artist. Nella scuola Diplarios, Landy invita ateniesi e visitatori a portare settimanalmente opere incentrate sulla situazione attuale e recente della città, allestendo di volta in volta in maniera diversa lo spazio per creare una mostra collaborativa. Un dialogo lungo mesi pensato per permettere all’artista di comprendere in profondità il tessuto sociale ateniese e al tempo stesso alla città di parlare direttamente ai visitatori di documenta che in un modo o nell’altro finiranno per vedere la mostra di Landy.
In generale la sensazione è di assistere a una mostra partita da ottimi propositi ma realizzata in maniera deludente, alcune location potenzialmente meravigliose sembrano essere state riempite quasi per dovere, in maniera approssimativa e senza una reale cura alle spalle e spesso le opere riuscite non sono abbastanza per riscattare documenta da queste colpe. L’opera che dovrebbe rappresentare il centro di questa edizione diventa così emblema di una grande sfida affrontata senza un’adeguata preparazione, finendo per trattare il delicato tema centrale in maniera semplicistica e sfigurando nel confronto con il passato. Fa riflettere infatti che in Friedrichsplatz, che da sempre è l’epicentro geografico e concettuale di documenta, l’ingombrante Parthenon of Books sia installato – ancora in costruzione – proprio di fianco a The Vertical Kilometer, opera di Walter De Maria realizzata per Documenta 6 nel 1977. I due lavori risultano antitetici per pulizia formale e profondità concettuale – a favore di De Maria – sottolineando come l’eccessiva retorica che fa da pietra fondante del discorso sviluppato da Adam Szymczyk e il suo team siano andati a ledere l’incisività del risultato finale che finisce per essere dispersiva e ridondante, non riuscendo a entrare in dialogo col pubblico in generale e con il popolo ateniese in particolare.
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