Nel 2010 Franco La Cecla scriveva in Modi bruschi che le identità sessuali non sono mai “naturali” ma sempre apprese, e mai individuali ma sempre collettive: una specie di gioco relazionale che decidiamo di giocare, definendoci in relazione al nostro ruolo nella società. Essere maschio, scriveva La Cecla, non era qualcosa di dato, ma un’arte appresa attraverso insegnamenti, modelli e riti di passaggio. Gianluca Didino ne riparla con l’autore in occasione della riedizione del libro.
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C’è un elefante nella stanza ogni volta che si parla di rapporti tra generi (e ultimamente se ne parla parecchio): quello dell’identità maschile. Le donne sono abituate a riflettere su cosa significhi essere donne, i queer studies esistono dagli anni Trenta e da qualche tempo a questa parte proliferano le riflessioni sulla fluidità di genere. I maschi invece non riflettono sulla loro identità. Per millenni l’hanno data per scontata, una condizione “naturale” rispetto alla quale le donne e “gli altri” rappresentavano una differenza, per lo più in senso negativo.
Da quando hanno visto questa identità messa in discussione, gli uomini hanno reagito lungo una progressione che va dalla chiusura reazionaria a un blando progressismo. C’è chi ha scelto un irrigidimento fascistoide sul modello di mascolinità tradizionali di tipo tossico (“I’ll grab her by the pussy”, come diceva Trump). Poi c’è la grande marea degli indifferenti (“Io? Che c’entro io?”). E infine chi si apre perlopiù passivamente verso istanze di cambiamento percepite come genericamente giuste (“non ho problemi a usare la schwa se serve a far felice qualcuno”).
Nessuno, o quasi nessuno, si chiede cosa voglia dire essere maschio oggi, il che equivale a dire che nessun maschio o quasi, mette consapevolmente in discussione la propria identità di genere. O se anche lo fa a livello individuale, questa riflessione non diventa mai collettiva. “Femminismo” è una parola che associamo a qualcosa di buono, “maschilismo” è un insulto.
Il problema non è solo dei maschi, anche se naturalmente sono i principali responsabili: è il dibattito stesso a considerare l’identità maschile come qualcosa di cui non si dovrebbe parlare, persino qualcosa di cui è sbagliato o reazionario parlare. Dici “questione maschile” e ti vengono in mente degli hipster con baffi a manubrio da pornodivo e canottiera bianca che recuperano la propria sensibilità repressa attraverso sessioni di male bonding. Non proprio un’immagine esaltante.
Eppure la questione è semplice, tanto semplice che il fatto stesso che non sia autoevidente è sospetto: come possono cambiare veramente i rapporti di genere se una metà della popolazione, che tra l’altro detiene la maggior fetta di potere, non fa niente per contribuire al cambiamento? L’aspetto paradossale è che di identità maschile si è parlato sempre meno man mano che il dibattito sui rapporti tra generi occupava le prime pagine dei giornali. Tanto il movimento #MeToo che la riflessione sui generi fluidi hanno ottenuto l’effetto di spostare il focus dell’attenzione sulle donne e sulle minoranze di genere. Giusto, perché donne e minoranze di genere avevano bisogno di prendersi uno spazio che era sempre stato loro sottratto. Ma anche stranamente rassicurante per i maschi, che hanno potuto ancora una volta illudersi del fatto che il dibattito sul genere non riguardasse loro.
Come altri, anch’io mi sono accostato alla questione maschile nel breve momento d’oro che ha vissuto all’inizio degli anni Dieci. E come altri ho assistito con crescente delusione alla sua totale scomparsa dai radar nell’ultimo decennio.
Uno dei primi libri che ho letto sull’argomento era stato pubblicato (anzi, ripubblicato, come avrei scoperto in seguito) proprio nel 2010 da un antropologo di cui avevo già letto e apprezzato diversi lavori: si intitolava Modi bruschi e l’autore e Franco La Cecla. All’epoca lo trovai un libro illuminante. Sosteneva un punto per me allora non scontato, e cioè il fatto che le identità sessuali non sono mai “naturali” ma sempre apprese, e mai individuali ma sempre collettive: una specie di gioco relazionale che decidiamo di giocare, definendoci in relazione al nostro ruolo nella società. Essere maschio, scriveva La Cecla, non era qualcosa di dato, ma un’arte appresa attraverso insegnamenti, modelli e riti di passaggio.
-->In quanto tale, mi era parso, la mascolinità poteva e doveva essere oggetto di una riflessione: era possibile interrogarsi sugli aspetti che formano la propria identità sessuale, accoglierne e perfezionarne alcuni e metterne in discussione o rifiutarne altri. Non temo di esagerare se dico che il libro di La Cecla, e il suo sequel Il punto G dell’uomo, sono stati importanti per la mia formazione non solo culturale ma anche umana.
Oggi Modi bruschi esce in una terza edizione aggiornata per Eléuthera. Ho colto l’occasione per parlare con La Cecla dello stato dell’arte della questione maschile oggi, di cosa è cambiato nell’ultimo decennio, di riti di passaggio, di #MeToo e di come il progresso possa a volte portare alla stagnazione, mentre posizioni apparentemente discutibili possono rivelarsi promotrici di un cambiamento più profondo.
Gianluca Didino: La prima edizione di Modi bruschi risale addirittura a vent’anni fa, per Bruno Mondadori. Poi nel 2010 è uscita la prima edizione Eléuthera e oggi questa edizione aggiornata. In un ventennio il dibattito sui rapporti di genere ha attraversato diverse fasi, eppure paradossalmente di identità maschile si è parlato sempre meno. Che senso ha oggi secondo lei interrogarsi sulla mascolinità?
Franco La Cecla: Quando aggiornai l’edizione dodici anni fa mi resi conto che davvero poco di nuovo era uscito sul tema e oggi mi rammarico di nuovo della povertà di produzioni e ricerche sull’argomento. Fa eccezione l’antropologia che, come sempre, è meno ideologica sulle questioni di genere. La rivista più antica e illustre di antropologia in Francia, “L’homme”, ha dedicato l’intero numero di juillet-decembre 2021 a “Experiences initiatiques du genre”, ribadendo una pista di ricerca fondamentale. In antropologia quando si parla di genere si parla immediatamente di “iniziazione”, di rituali di iniziazione in cui maschi e femmine vengono “installati” nel genere a cui la comunità ritiene che appartengano. Ad esempio nel numero c’è un testo di Marie Daugey che si intitola Devenir “lion” ou “biche”. Construction du genre et rapport au territoire dans les initiations kabbyè (Togo). Diventare, dunque, “leone” o “gazella” con una iniziazione. Io credo che questa sia una chiave fondamentale. Non si può parlare di “genere” dimenticando che diventare uomo o donna o qualcos’altro è una sorta di iniziazione. Prima di una iniziazione non si è nulla di tutto ciò. E questo apre anche per noi una chiave fondamentale.
GD: Certamente la morte dei riti di passaggio ci ha resi tutti molto confusi. Cosa perdiamo se nessuno ci insegna più a “diventare” maschi o femmine?
FLC: Non è detto che noi non abbiamo i nostri, nascosti dietro a passaggi che anche i nostri adolescenti devono transitare. L’adolescenza rimane un’età molto misteriosa, difficile, l’iniziazione è sospesa tra il rifiuto del mondo degli adulti e la ricerca di una adesione. L’alcool, il fumo, le droghe, la depressione, il bipolarismo sono tutte forme di iniziazione. Nei passaggi c’è il dolore, il rischio, il restare a metà del guado. Sicuramente il mondo degli adulti se ne lava sempre di più le mani. Dietro l’idea di “lasciare” ai figli la totale libertà di essere quello che vogliono c’è una terribile dimissione di responsabilità intergenerazionale.
GD: Parlando di adolescenza e giovinezza, per i ragazzi di oggi movimenti come #MeToo svolgono un ruolo importante nell’iniziazione di cui parlava. Anche questo fa parte di un “rito di passaggio” generazionale?
FLC: La mia impressione è che #MeToo sia stata solo una faccenda ideologica e di moda che ha percorso il mondo americano e anglosassone come un fuoco di paglia, esauritosi nelle beghe tra le autoproclamatesi rappresentanti del movimento. Un modo di dare una scalata al potere nei media. Da questo punto di vista la biografia più illuminante è quella della Rebecca Solnit, che da ottima e profonda conoscitrice del mondo dell’arte e ottima scrittrice di storia del paesaggio e delle immagini improvvisamente si è messa a capo di un movimento “reinventando” persino la propria autobiografia. Se si leggono i suoi primi libri si ritrovano storie sofferte e profonde di relazioni eterosessuali, ma poi attraverso il successo di mansplaining (un’idea che ha molti connotati di razzismo e odio inter-gender) è diventata sul “Guardian” la paladina di #MeToo fino ad approdare alla auto-epica vittimista nel testo Storia della mia inesistenza. Una storia che nell’insieme sa più di guerre interparrocchiali tra compagini femministe che di ricerca o di discorso di analisi di una particolare società. E poi tutto, come si è visto recentemente, si perde nelle lotte intestine tra queer e femministe, tra trans e femministe, tra gender fluid e femministe. Un amico che anni fa era stato criticato per avere raccontato la vita della Carla Accardi dicendo “ la Accardi” oggi viene criticato da alcune persone per dire “Accardi”, perché ignorerebbe la differenza sessuale dell’artista. Le lotte sulla “schwa”, sul diritto o meno di rimarcare la differenza, sull’obbligo di cancellarla sono grottesche e denunciano un grado di “odio” intersessuale e intergender che ricorda solo quello dei gruppuscoli extraparlamentari degli anni ’70. Tutto questo ha ben poco a che fare con la vita della maggioranza delle persone, ma racconta in maniera interessante la lotta per il potere bio-sessuale nella società occidentale.
GD: Al netto degli eccessi del movimento, che sono sotto gli occhi di tutti, mi sembra però evidente che le idee tradizionali di femminilità e mascolinità richiedano una nuova definizione. Non pensa che dibattiti come quello sul mansplaining o sulla schwa siano comunque tentativi importanti di ripensare i rapporti tra generi?
FLC: Probabilmente sono tentativi, ma rimangono alla superficie, partono dall’idea che i generi siano definiti da regole esterne, da “norme”, siano esse grammaticali o morali. Ma i fatti culturali come i generi sono processi collettivi, hanno ben poco a che fare con le norme morali come ho raccontato con Piero Zanini in un libro di qualche anno fa appena tradotto in Francia, Una morale per la vita di tutti i giorni. Il mansplaining sta al cambiamento di mentalità come le barzellette sulle donne al volante, è una caricatura razzista, e lo schwa l’idea balzana che con la grammatica si cambia il mondo, un’idea dei dittatori.
GD: Nell’introduzione al libro del 2010 scrive che “quello che manca è un’esplorazione della dialettica dei sessi (…), un’esplorazione delle morfologie, della maniera di disporsi della mascolinità per far fronte alla forza sostanziale delle maniere femminili”. Da allora una “esplorazione delle morfologie” c’è sicuramente stata, soprattutto in relazione alle identità ibride, ai generi non-binari o alla fluidità di genere. La “dialettica” invece sembra essersi persa. È ancora un concetto utile?
FLC: Il punto è che non ci sono le identità sessuali come qualcosa di distinto e a parte, ci sono relazioni tra identità. Le società hanno sempre costruito “polarizzazioni” sessuali, non omogeneizzazioni sessuali (lo racconta una guru del pensiero femminista, Françoise Heritier). Non si diventa uomini o donne o terzo sesso, o bardache, o “femminiello”, o omosessuale se non in una relazione con altre identità. L’omosessualità è proprio la dimostrazione di un tentativo di rapportarsi in maniera differente a una differenza. È per un uomo scegliere sessualmente altri uomini per allargare lo spettro dell’idea di mascolinità (era quello che sosteneva anche Foucault, un attivo omosessuale S/M), e altrettanto per una donna. Nelle società tradizionali e indigene ci sono altrettante varietà che nella nostra occidentale. Però non hanno bisogno di una “sindacalizzazione” della identità ma di concepire lo spettro che sta tra due polarità come fatto di gradazioni.
GD: Quindi la sclerotizzazione identitaria degli ultimi anni, l’erigere barriere a difesa della propria identità (di genere, ma non solo) ci sta allontando da una comprensione di come funzionano le identità sessuali? O è una fase necessaria alla dialettica di cui parlava sopra?
FLC: Come tutte le pratiche identitarie ha due facce. Ci si può scoprire hindu come ricchezza della propria storia o come odio per i musulmani. Quello che si perde è una generale idea di appartenenza che vada al di là degli steccati, diciamo una forma di universalismo. Il “comunalismo”, il settarismo di oggi serve solo a illuderci che possiamo salvarci da soli e mandare gli altri a picco. È un’idea vecchia e sbagliata di come risolvere i conflitti, ed è l’idea cullata non solo dagli imperialismi ma anche da una certa sinistra che, guarda caso, ha molto soffiato sui nazionalismi e settarismi fin dalla sua origine. L’idea che per fare la rivoluzione bisogna eliminarne i nemici pervade tutta la compagine che si autodefinisce progressista senza esserlo.
GD: Questo discorso su cosa sia progressista o meno mi interessa. Oggi è considerato progressista pensare che possiamo cambiare identità come si cambia un vestito, in relazione ai desideri e alle esigenze. Non mi pare però che questo comporti necessariamente una maggiore “libertà”: a volte poter essere tutto ciò che vogliamo ci rende paradossalmente meno liberi e leggeri, più oppressi.
FLC: Io non credo che possiamo cambiare identità così facilmente, proprio perché è una costruzione culturale. E le costruzioni culturali non si fanno da soli. Come non posso cambiare la lingua italiana che parlo perché lo decido io – o meglio lo posso fare, ma poi nessuno mi capirà – nello stesso mondo non posso “inventarmi” una identità di genere da solo. Il fatto che la cultura non sia un fatto “naturale” non la rende meno complessa dei funzionamenti naturali. Alla base del ragionamento queer c’è un’ignoranza tipicamente americana di cosa è la cultura. Cambiare identità, e lo sanno bene i transgender, può essere qualcosa di dolorosissimo e può fare soffrire tutta la vita e condurre a continui ripensamenti. Solo i chirurghi possono pensare che l’identità sessuale sia risolvibile tagliando o aggiungendo. Noi siamo una società che condanna i transgender a soffrire perché non accetta che il loro sia un passaggio culturale molto più che fisico, direi quasi spirituale più che fisico.
GD: Come facciamo a promuovere un dialogo migliore su questi temi, che aiuti a costruire una società più rispettosa invece che frantumarla in una miriade di lotte particolariste? A me sembra un punto cruciale: una vera ridefinizione dei rapporti di genere potrebbe essere la più grande rivoluzione che la storia dell’umanità abbia mai attraversato. Spesso il livello del dibattito non mi sembra all’altezza del compito.
FLC: Non sono sicuro che quella a cui stiamo assistendo sia una grande rivoluzione. Forse si tratta più di una resa dei conti tra sessi, di una vera e propria guerra politica tra sessi, ma anche tra generazioni. Le società si danneggiano molto quando per risolvere le trasformazioni di un’epoca pensano che la soluzione sia la guerra civile. La possibilità di una rivoluzione viene da una nuova negoziazione, da un un “agreement” tra le sue componenti. Io credo ancora che si tratti di costruire una nuova società di rapporti tra generi che sia basata sulla complementarità e sulla polarizzazione. Ma le società si costituiscono per legami, non per rotture. I generi hanno sempre elaborato la sessualità come una pratica di legami tra persone – ovviamente una pratica dove è in gioco anche il potere, la dominazione e via dicendo, ma dove la chiave fondamentale è il tessuto con cui si costruisce la società che non è fatto di individui isolati, ma di generazioni che generano perché sono state generate. La stessa parola “generare” dice “installare” qualcuno in un genere e questa forma di installazione è quello che costituisce il legame tra madri e figlie, padri e figli, madri e figli, padri e figlie, nonni, antenati e via dicendo.
GD: Nel clima di oggi però un discorso del genere può suonare reazionario, e non solo nel clima di oggi. In un capitolo di Modi bruschi parla di Gender di Ivan Illich, un testo che quando uscì nel 1982 generò scandalo soprattutto tra le femministe, che non vedevano di buon grado posizione sostenuta nel libro per cui la divisione dei ruoli aveva lati positivi. La vera rivoluzione sta nell’avere il coraggio di prendere posizioni apparentemente poco progressiste?
FLC: Dieci anni dopo l’uscita di Gender quelle stesse femministe scrissero un libro insieme dichiarando che si erano sbagliate ad attaccare Ivan Illich e che le sue tesi apparivano anni dopo come assolutamente plausibili. Il problema con Illich è che lui stesso aveva lanciato le sue tesi in un modo talmente provocatorio da suscitare una reazione analoga. Oggi però le questioni che lui sollevava rimangono attualissime, tra tutte la sua lettura della “distruzione dei generi” come processo che ha reso possibile il capitalismo. La modernità ha avuto bisogno di eliminare i domini diversi del mondo femminile e di quello maschile, diversi cultura per cultura e geografia per geografia ma gelosi dei propri ambiti, una contrapposizione che creava anche un’idea di lavoro e di uso delle risorse che non era neutra. Solo la fabbrica aveva bisogno di lavoratori neutri. Oggi con la riscoperta della relazione con la natura e le risorse ci si rende conto che anche il rapporto con queste due dimensioni è stato sempre vissuto in maniera diversa dal mondo femminile e da quello maschile.
GD: Questo “mondo maschile” però oggi sembra in crisi, confuso e poco consapevole di sé stesso. Pensa che oggi gli uomini abbiano il dovere di riflettere sulla propria identità di genere? Da dove dovrebbero partire per farlo?
FLC: Io penso che non sia un dovere, perché come ho detto prima le questioni di genere non sono questioni morali. Sarebbe come dire agli adolescenti “dovete diventare grandi” o come comandare a un artista concettuale “devi diventare un pittore di vedute”. Qui abbiamo a che fare con un processo che sicuramente è già in atto. Ed è un processo dialogico o collettivo. Non credo che fare gruppi di autocoscienza maschile serva a qualcosa. Piuttosto serve riflettere sul desiderio, sul senso oggi del desiderio, dell’attrazione, sulle passioni. Ho cercato di farlo nella continuazione di Modi Bruschi, Il punto G dell’uomo che è stato ripubblicato un anno fa da Milieu. È il desiderio, maschile e femminile, che oggi è il grande sconosciuto e il grande mistificato. Le varie identità sessuali o di genere che oggi ci vengono proposte nascondono una ignoranza totale delle profondità del desiderio, delle sue differenze, non solo di genere, ma di età, di geografia, di paesaggi, di erotismo. Oggi bisogna andare a cercare nelle mitologie indigene o nei romanzi per trovare qualcosa che ci parli ancora di desiderio.
Leggo prima di questo mio commento che si apprezza l’intervista ma si considera il linguaggio troppo complicato. Oltre al contenuto dell’intervista, credo invece che il linguaggio usato dall’autore spinga molto il lettore a ragionare. Non si è più abituati a leggere scritti che ci obbligano a pensare. La normalità è l’immediatezza, che non sempre è amica della trattazione in temi così vasti. È un bene leggere di identità di genere e non trovarsi invischiati nelle ideologie solite dei social, e purtroppo pure del giornalismo, permeate nei movimenti femministi.
Molto interessante il contenuto dell’intervista, ma il linguaggio usato è molto complicato.
Tu hai scritto:
Femminismo” è una parola che associamo a qualcosa di buono, “maschilismo” è un insulto.
Io dico che oggi è il contrario. Il Femminismo non ha nessuna credibilità. Ha perso ogni logica. È diventato un movimento misandrico che calpesta ogni santo giorno i diritti maschili, calpestati i diritti procreativi dell’uomo, calpestati i diritti maschili genitoriale, affidamento dei figli, leggi separative tutte schifosamente pro donna (figli a lei, casa di lui a lei, assegni ai figli non redicontati, persino l’assegno di mantenimento). Opzione donna si, Opzione uomo non pervenuta. Gli uomini vivono 5 anni meno delle donne ma devono lavorare più delle donne per andare in pensione.
Il 97% dei morti sul lavoro sono uomini. Gli uomini e i ragazzi su suicidano con un tasso di ben 5 volte superiore alle donne. Quote rosa si, quote azzurre no, nemmeno quando le insegnanti di sesso femminile nelle Scuole italiane ha raggiunto l’87%.
Incentivi per le iscrizioni universitarie nelle materie STEM per le donne si, per i ragazzi nelle materie umanistiche No.
E potrei continuare per ore a scrivere.
Mi fermo qui.
Il femminismo per gli uomini oggi non ha nessuna credibilità.