Come finiscono le pandemie



Quando finiscono, davvero, le pandemie? Possono durare secoli. Ce lo insegnano quelle del passato, da quella del trecento a quella di cui parla Manzoni, del 1630. Per liberarci servono eventi, cause, e poi decisioni collettive simboliche, lavacri collettivi.  


In copertina e lungo il testo opere di GILLES BARTHEL

di Dario De Marco

La vignetta del New Yorker di David Sipress (del 12 maggio 2020) è fulminante: “Si è scoperto che non fu l’asteroide a uccidere i dinosauri. Fu lo stress per l’asteroide a uccidere i dinosauri”.

Negli ultimi mesi, molti di noi si sono sentiti così: sul punto di essere distrutti, non dal virus, ma dalla paura del virus, e da tutta una serie di ansie che ci girano attorno, e che hanno a che fare con la salute, sì, ma anche con il lavoro, con l’economia, con la socialità, con lo svago, con il clima – insomma, con la vita.

Quando tutto questo sarà finito è la frase che abbiamo detto o sentito dire più volte, da quando tutto questo è iniziato. Ma per l’esattezza, quando è che tutto questo sarà finito? La scienza è categorica: vaccino, o immunità di gregge. Il primo, un giorno sembra tutto sommato a portata di mano, quello dopo, una prospettiva utopica il cui orizzonte è da valutarsi in decenni. La seconda, beh, per arrivarci in tempi brevi, dovremmo passare prima per un’ecatombe. 

In realtà altre possibilità esistono, meno drastiche: la mutazione del virus in senso meno aggressivo, per esempio, come nel caso della Spagnola; o la messa a punto di farmaci molto efficaci per curare, se prevenire resta impossibile, com’è successo per l’Hiv. Ma c’è anche qualcosa di completamente diverso. Per scoprirlo però, facciamo qualche passo indietro. Perché se questa è la prima pandemia del millennio, non è certo la prima della storia. Come sono finite, le altre?  

 

Tutte le pesti la peste 

Peste. Un termine generico, vago. Anche scherzoso, oggi: piccola peste, si dice di un bambino, senza pensare a che terribile sostrato. È così anche in altre lingue: plague, in inglese, che viene da piaga, dalle piaghe d’Egitto, forse più che dai sintomatici bubboni. Vago, tanto che molte epidemie di peste del mondo antico, probabilmente peste non erano. Per esempio la peste di Atene del V sec a.C. – quella che si portò via Pericle e che addirittura fece scappare dalla paura gli spartani, lì lì sul punto di far strame dell’odiata rivale – era quasi certamente un’altra cosa. Le cause di quell’epidemia, che stando a Tucidide in quel periodo colpì un po’ tutta l’area orientale del Mediterraneo, sono ricostruibili: avanzando l’esercito di Sparta, tutta la popolazione rurale si rifugiò dentro le mura della città, centuplicandone l’affollamento; contemporaneamente, l’unico canale di approvvigionamento era il porto del Pireo, e da lì probabilmente arrivò un carico di batteri. O virus? In celebri pagine lo storico greco descrive gli atroci sintomi della malattia: a partire da questi, gli studiosi di storia della medicina hanno ipotizzato che potesse trattarsi di vaiolo, morbillo, antrace, addirittura ebola o altra febbre emorragica. Attualmente le ipotesi più accreditate sono il tifo detto esantematico o petecchiale, e la febbre tifoide dovuta al batterio Salmonella enterica: sono stati anche analizzati frammenti di DNA antico, ma senza arrivare a certezze.

Anche quella che è passata alla storia come peste Antonina (165-180 d.C.) era probabilmente vaiolo o morbillo. Portata dai soldati romani di ritorno dalle campagne in Asia minore, si diffuse lentamente – non c’era la rapidità di mezzi di comunicazione di oggi – ma inesorabilmente in tutto l’Impero, ovvero nella maggior parte del mondo conosciuto, tanto che si può parlare senz’altro di pandemia. Fu una delle più terribili, se non la peggiore di tutte: le stime vanno dai 5 ai 30 milioni di morti, numeri pazzeschi se rapportati al totale della popolazione, all’epoca molto minore. Fonti parlano di 2000 vittime al giorno nella sola Roma, e di interi villaggi e cittadine in cui non sopravvisse neanche un abitante. 

Come finì? Forse per consunzione: il morbo fu talmente devastante che semplicemente infettò tutti quelli che poteva, uccidendone certi e immunizzandone altri. Quel che è certo è che ebbe enormi conseguenze politiche e sociali: l’Impero si trovò ad affrontare un problema opposto a quello che abbiamo noi oggi – la scarsità e non l’eccesso di popolazione – risolvendolo in maniera inclusiva, dando cioè la cittadinanza a molti popoli barbari che premevano alle frontiere (lo ha ricordato da ultimo Barbero al Salone virtuale del libro 2020).  

Yersinia superstar

Allora, quanto avanti dobbiamo andare per trovare la vera peste? In realtà, dobbiamo andare all’indietro. Yersinia pestis – è lui il protagonista di questa storia – è un batterio patogeno in circolazione da tempo immemore; animale ospite: il ratto; animale veicolo: la pulce. L’uomo se lo becca dalle bestie, ma se poi la forma sintomatica non è bubbonica ma polmonare, allora la trasmissione da persona a persona è più facile, ed è una strage. La prima pandemia della storia – almeno la prima che si può ricostruire – è avvenuta nella preistoria: 7000 anni fa, la peste si portò via un terzo degli abitanti di Cina, India, Europa. Lo ricorda il genetista David Reich nel suo interessantissimo libro Chi siamo e come siamo arrivati fin qui (pubblicato da Raffaello Cortina), che parla del DNA antico e di come ci sta costringendo a riscrivere il nostro passato. 

Reich usa degli studi che hanno trovato tracce di Yersinia nel 7% degli scheletri europei risalenti a 5000 anni fa, per spiegare l’invasione degli Yamnaya: questi erano un popolo proveniente dalle steppe dell’Asia centrale, dediti alla pastorizia e alla violenza, costruttori di solidi carri trainati da cavalli con i quali coprivano vaste distanze. Le analisi genetiche mostrano una forte presenza di DNA Yamnaya, come se queste popolazioni si fossero sostituite a – o comunque pesantemente mescolate con – gli agricoltori già presenti in Europa: il che è quantomeno strano perché all’epoca la regione era già densamente popolata, densamente per gli standard del periodo. Com’è possibile che abbiano trovato così tanto spazio? L’ipotesi di Reich è che se lo siano fatto: non solo e non tanto con le armi, di cui pure erano esperti, ma con le malattie. Con la peste.

In epoca storica, la prima epidemia di peste-peste documentata fu quella di Giustiniano: 541 d.C., anche questa colpì il cuore dell’Impero romano, ma d’oriente stavolta. A Costantinopoli 5-10 mila morti al giorno, e cadaveri per strada che non si sapeva dove metterli, mentre a Roma restava qualche centinaio di abitanti, stando a fonti un po’ impressionabili, o addirittura nessuno: ma fu davvero pandemia, che si espanse dall’Asia all’Africa, dall’Europa centrale all’Arabia. Stima delle vittime: da 30 a 50 milioni di persone; stima della mortalità sulla popolazione totale, dal 25% al 40%. Dati questi numeri, anche se non ci sono evidenze scientifiche o storiche sul modo in cui finì, è possibile fare una deduzione: “la maggioranza delle persone in qualche modo sopravvive alla pandemia, e i sopravvissuti hanno l’immunità”, ha detto lo storico Thomas Mockaitis.   

 

Orto non era, ma lebbrosario

Che poi, nel mondo antico e nell’età di mezzo, finita un’epidemia ne cominciava un’altra. Anzi, il peggio era quando un morbo diventava endemico: magari ne falciava di meno alla volta, ma lo faceva in maniera costante, prolungata. A partire dal II millennio a.C. la lebbra, o malattia di Hansen, fu endemica in Eurasia, con un picco europeo nel 1200. I sintomi, orribilmente sfiguranti e soprattutto palesi, facevano del lebbroso un reietto: anche se la scoperta dei microbi, della vita invisibile, era molto di là da venire, oramai la dinamica elementare del contagio era entrata nel campo delle idee condivise. Nei romanzi storici sono rimaste vivide descrizioni di queste lente processioni di umani – sub umani, quasi zombi, per figura e movenze e status giuridico-sanitario – coperti di stracci e con le carni a brandelli, preceduti dal suono di una campanella così che i paesani potessero scansarsi. Il filosofo Paul B. Preciado ha recentemente ricordato:   

“Foucault ha analizzato il passaggio dalla gestione della lebbra alla gestione della peste come il processo attraverso il quale le tecniche disciplinari di spazializzazione del potere sono state impiegate nella modernità. Se la lebbra veniva trattata con misure strettamente necropolitiche che escludevano il lebbroso e lo condannavano se non alla morte quantomeno alla vita al di fuori della comunità, la reazione all’epidemia di peste inventò la gestione disciplinare e le sue forme di “inclusione esclusiva”: la rigorosa segmentazione della città e il confinamento di ogni corpo in ogni casa.
Le diverse strategie che i paesi hanno adottato per gestire la diffusione del covid-19 mostrano due tipi completamente differenti di tecnologie biopolitiche. Il primo, che opera principalmente in Italia, in Spagna e in Francia, applica rigide misure disciplinari che per molti aspetti non sono così diverse da quelle usate contro la peste. Si tratta del chiudere in casa tutta la popolazione. È utile rileggere il capitolo di Sorvegliare e punire sulla gestione della peste in Europa per rendersi conto che da allora le politiche francesi di gestione delle epidemie non sono molto cambiate”.

Già, perché nel XIV secolo una nuova ondata di peste era dietro l’angolo: 1347, la Morte Nera, quella di Boccaccio, 200 milioni di morti in 4 anni. Anche questa, gravida di conseguenze socio-politiche di lunga gittata: come la peste antonina, portò un notevole spopolamento, per cui la forza lavoro divenne merce rara. E pertanto, pagata di più: il che causò un brusco cambiamento nella produzione di beni, per esempio i tessuti, prima riservati ai clienti di lusso, ora più popolari e accessibili, e in generale un fiorire dei commerci, la nascita della borghesia, il ceto medio, il diritto di voto, la 500, Postal Market, twitter, la classe disagiata.  

Who by fire

Come venne combattuta, la peste del 300? La vulgata vuole che qui siano state inventate le misure in voga ancora adesso: la quarantena – periodo di fermo e osservazione per le merci e i marinai delle navi – e il social distancing. E certo c’è del vero, anche se recenti studi archeologici hanno portato alla luce interessanti e analoghi comportamenti, in Africa nello stesso periodo: ci sono segni di insediamenti abbandonati in maniera repentina, ci sono tracce di costruzioni vicine ma non troppo, e si pensa siano tutte strategie per affrontare le varie epidemie. Come finì, la peste del 300? Bad news: non finì. Andò avanti per tre, quattro secoli; spostandosi a macchia di leopardo, colpendo più qua e meno là, andando in sonno per dieci o vent’anni e poi tornando a infuriare. Insomma, la peste si può dire che diventò endemica in Europa per almeno trecento anni: simbolicamente a volte la cessazione delle ostilità viene fissata con la peste di Marsiglia del 1720, che lasciò sottoterra mezza città, anche se quello fu un episodio isolato nel tempo e nello spazio. Diciamo che la pandemia estesa a livello continentale durò almeno fino a metà del 600, tra la peste in Italia di cui parla Manzoni (1630) e la grande peste di Londra (1665-66). 

Good news: la gente imparò a conviverci, o perlomeno a sopportare, a girarci attorno. Sul New Yorker leggiamo ad esempio che Shakespeare ebbe a che fare con la peste per tutta la vita: il lockdown di certi locali pubblici, il divieto di assembramento, che ci sembrano la novità del giorno, erano all’epoca pane quotidiano. Così come lo era il temuto effetto yo-yo: le cose miglioravano, si riapriva; scoppiavano nuovi focolai, si chiudeva. Si chiudevano i teatri, come oggi i cinema, e il povero Shakespeare, che non viveva di sola scrittura, si trovava col culo per terra come tutti gli altri, impresari attori maestranze.  

Curiosa cosa: della peste di Londra da qualche parte si legge questo, che all’epidemia pose definitivamente temine il grande incendio di Londra (2-6 settembre 1666). Il che è quantomeno strano, perché da un lato a fine ’66, dopo due anni terribili, il morbo stava perdendo forza; dall’altro era stata proprio la peste, in un certo senso, a causare l’incendio. La città infatti era semivuota: chi non era morto, era scappato in campagna; la maggior parte delle case erano abbandonate, e questo causò ritardi nell’allarme e penuria di braccia utili a circoscrivere le fiamme. Tali circostanze – insieme all’indecisione delle autorità e alle case costruite in legno e paglia – favorirono il propagarsi dell’incendio che in quattro giorni si mangiò l’80% degli edifici dentro le mura. E la peste? Più che altro, la botta finale gliela diede la ricostruzione: niente più case fatiscenti, niente più costruzioni addossate l’una all’altra. L’Europa salutava la peste ed entrava nella modernità, Londra si apprestava a diventare capitale del mondo.  

 

Il terrore dei due mondi

E ora, passiamo a qualcosa di allegro: il vaiolo. Malattia virale, come abbiamo visto alcune “pesti” del passato potrebbero essere state in realtà epidemie di vaiolo. Endemico in Europa da millenni, con l’affievolirsi di altri morbi come lebbra e peste, diventa dal 1700 la prima causa di morte: 400mila vittime all’anno, anche a causa dell’elevatissima letalità (il 30% degli infetti).

Ma queste è niente rispetto a quello che ha combinato nel Nuovo Mondo, dove prima di Colombo non era mai arrivato: le popolazioni indigene non avevano alcuna immunità e furono letteralmente sterminate da questa e da altre malattie nel giro di pochi decenni. Ne uccise molti di più il virus che la spada: alcune civiltà del nord America furono distrutte decenni prima che arrivassero i primi coloni.

Allegri però, perché il vaiolo può dirsi oggi definitivamente sconfitto; anzi per lunghi anni è stata non solo la prima ma anche l’unica malattia a essere dichiarata ufficialmente eradicata. Come? Il principio che infettando una persone con una quantità minima si facessero sviluppare gli anticorpi – anche senza comprendere il meccanismo biologico alla base – era noto in Cina e India da secoli. Questa pratica, detta variolizzazione, era effettuata con delle croste di malati umani non gravi; era comunque pericoloso dato che se la maggior parte delle persone si immunizzava senza infettarsi, alcuni invece contraevano la malattia.

Ma nel 1796 il medico inglese Edward Jenner scoprì che una maggiore efficacia e un minor rischio si ottenevano usando un inoculo derivato da vaiolo bovino, un cugino di quello che attacca l’uomo. Dalla vacca, era nato il vaccino. Da allora partì una grande e lunga campagna di vaccinazione a livello mondiale, che si sarebbe conclusa nel 1979 con la dichiarazione dell’OMS. Abbiamo anche una data per l’ultimo contagio, il 1977, e un nome, il cittadino somalo Ali Maow Maalin. La sua è una vicenda che merita un capitolo a sé nella storia delle malattie: guarito dal vaiolo, passò la vita a fare campagne per la vaccinazione contro la poliomielite, e morì nel 2013 di malaria.  

Chi mi piglia per spagnola

L’ultima pandemia è stata la cosiddetta influenza spagnola. Un secolo fa; e anche se i numeri come sappiamo bene ballano sempre, 50 milioni di morti, 500 milioni di contagiati, su una popolazione di 2 miliardi, uno su quattro in pratica. Sappiamo varie cose, della spagnola: che si chiama così perché la Spagna non era in guerra e quindi i giornali spagnoli erano tra i pochi a darne notizia perché non sottoposti a censura; che in una società per la prima volta globalizzata, fu la prima epidemia davvero globale, per diffusione e rapidità; che nella memoria collettiva e nella percezione attuale la sua portata è sfumata, al limite dell’oblio.

Ma altrettante, o più, sono le cose che non sappiamo: oltre come al solito ai numeri, non sappiamo com’è nata (la consueta zoonosi? Una mutazione maligna?), non sappiamo dov’è nata (negli Usa o in Cina? Una battaglia eterna), non sappiamo perché era così contagiosa e letale. Sappiamo la cosa più importante, però, almeno per quello che c’interessa qui: com’è finita. Non è finita, e probabilmente l’abbiamo presa tutti. Cediamo la parola all’Agenzia del farmaco, che usa i termini giusti:  

Il virus della Spagnola continuò a circolare, inducendo una immunità specifica in crescenti porzioni della popolazione, fino al 1957, quando fu soppiantato dalla pressione selettiva esercitata da un nuovo virus, suo discendente, frutto del riassortimento con un virus aviario donatore di 3 segmenti genetici: PB1, HA (sottotipo H2) e NA (sottotipo N2). Questo virus H2N2 fu causa della pandemia “Asiatica”. L’estinzione naturale del virus H1N1 del 1918 non fu però definitiva. Nel 1977 emerse nuovamente, probabilmente in conseguenza di un incidente di laboratorio, colpendo soprattutto i soggetti più giovani, nati successivamente alla sua scomparsa15. Da allora ha continuato a circolare ininterrottamente fino ad oggi, ed è uno dei due tipi di virus A che provocano le normali epidemie stagionali.”

 

It’s not over (until it’s over)

Torniamo a noi. Quando è che tutto questo potrà dirsi finito? Un suggerimento ce lo dà proprio il mito dell’incendio di Londra che mette fine alla peste. Come anche, il mito dei temporali che lavano via il morbo alla fine dei Promessi Sposi. Miti che non sono invenzioni letterarie, ma percezioni collettive: a un certo punto, abbiamo bisogno dell’evento, di un singolo giorno o fatto in cui poter mettere un punto, dire stop. Meglio ancora se l’evento è potente, simbolico: un lavacro, un fuoco sacrificale. 

Perché? Perché a un certo punto, abbiamo bisogno di dirci che è finita. Chiaramente, non parliamo di un’allucinazione collettiva, un far finta di niente che si tradurrebbe in un suicidio di massa. Ma quando il profilo sanitario inizia a scemare, comincia a salire la voglia di riprendersi la vita. Gli storici concordano; per esempio Franco Cardini in quest’intervista ricorda le fasi di un’epidemia: “All’inizio c’è sempre la negazione del problema, a volte anche la rabbia verso chi invece cerca di dare l’allarme, poi il panico e la ricerca di un colpevole. Alla fine un improvviso senso di sollievo quando l’epidemia si percepisce come passata. Il che non coincide con la fine, in senso strettamente sanitario, del morbo”.

E poi Allan Brandt, storico di Harvard, che dice:

Come abbiamo visto nel dibattito sulla riapertura, molte questioni sulla cosiddetta fine sono risolte non dai dati clinici e di salute pubblica, ma attraverso processi sociopolitici.

In sostanza, la fine di una pandemia non è data dalla scomparsa dell’agente patogeno, ma dalla messa a OFF del panic mode, dello stato di emergenza. C’è una fine sanitaria, e una fine percepita. Ma percezione non vuol dire illusione. Come insegnano le pandemie del passato, il termine biologico di una malattia è evanescente, spesso impossibile. L’unica strada è l’altra; ma è ancora lunga.


Dario de marco Si occupa principalmente di letteratura fantastica e pizze fritte. Giornalista, ha co-fondato il mensile Giudizio Universale e collaborato con testate troppo numerose per poter stare in questo margine. Ha pubblicato due autobiografie, una travestita da romanzo (Non siamo mai abbastanza, 66thand2nd) e una da saggio (Mia figlia spiegata a mia figlia, LiberAria); la terza sarà in forma di racconti.

6 comments on “Come finiscono le pandemie

  1. Antonietta mignini .

    In una sola parola ,
    Non ho mai avuto paura .
    Credo che esagerare nella paura è peggio che ammalarsi .
    Epoca di troppe informazioni
    Vere ? False ?
    Boh nel frattempo vivo .

  2. Veramente interessante. Ho avuto l’Asiatica nel 1958, 15 giorni di delirio, avevo 7 anni, ma ne sono uscita. Da allora pochissime influenze, nel 1984, nel 2000, nel 2015 e l’ultima all’inizio di quest’anno. Sarà stata Covid? Se prende me, vuol dire che è un virus bastardo, perché l’Asiatica mi aveva immunizzato da tutto il resto.

  3. Molto interessante. Conoscere un po’ di storia è importante per capire dove siamo e che cosa ci aspetta

  4. Raffaele

    Ben fatto, attinente a fatti storici documentati, equilibrato nella forma e nel contenuto. Quindi attendibile e piacevole da leggere. C’è ne vorrebbero di più di questi articoli, più pacati e più seri, scevri da contenuti sensazionalistici e francamente ad impostazione paranoicale. Grazie

  5. Angelina De Matthaeis

    Ottimo excursus :mi ha fatto molto piacere ripercorrere attraverso le tue parole le varie pandemie e sono convinta che dobbiamo uscire da quest’ultima ,,prima che il vaccino venga trovato e messo in commercio,allontanando la paura e vivendo con precauzione,altrimenti moriremo senza aver vissuto questi ultimi anni.Complimenti

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