Chi immagina la cultura indigena come chiusa e concentrata solo sul passato sbaglia di grosso. Contano la natura e le tradizioni, certo, ma anche elementi della contemporaneità.
IN COPERTINA Alberto Sughi, Parco (Anni ‘ 80) – Olio su tela – Asta Pananti in corso
di Filippo Rosso
La mattina gli uomini, quasi tutti mestizos, uscirono dal campo alla ricerca di gomma. Tra di loro c’era un nativo asháninka, che rimaneva tutto il giorno di guardia. Sbrigò le solite faccende e al tramonto fece trovare pronta la cena. Quel giorno, però, sul sentiero si presentò un uomo che non conosceva. Aveva la pelle bianca e era vestito di nero. Fammi mangiare, gli disse. Il guardiano fece no con la testa. Fammi mangiare, gli ripeté in modo duro. Allora l’asháninka capì le sue cattive intenzioni e acconsentì.
L’uomo non aveva molta fame. Si limitò a assaggiare un boccone da ogni pietanza e andò via come era venuto. Quando tornarono gli uomini, videro il loro compagno che si dava il tormento. Cosa è successo? gli chiesero. È venuto il giaguaro nero, lo yanapuma. Ha mangiato dal vostro cibo. Non lo toccate. Ma gli uomini erano stanchi e affamati dal duro lavoro tra gli alberi. Non prestarono ascolto a quelle parole, mangiarono e si ritirarono per dormire.
Quella notte, il guardiano non riuscì a prendere sonno. Poco prima dell’alba, sentì il rumore delle fronde che si scuotevano nonostante non ci fosse un alito di vento. Poi sentì un lamento avvicinarsi sempre di più: “Rique, rique, rique, rique…”. Corse dai suoi compagni, provò a svegliarli, ma non ci riuscì. Lo yanapuma li aveva avvelenati. Allora pensò solo a fuggire. Vide l’ombra del giaguaro che si avventava nelle tende per sbranare i suoi compagni.
Riuscì a mettersi in salvo nel villaggio, e qui raccontò agli altri asháninka l’accaduto. Solo il più anziano gli credette. Questi comandò che un gruppo di uomini andasse nella tana del giaguaro per ucciderlo. Gli uomini, arrivati, videro l’enorme bestia addormentata. La uccisero immediatamente a colpi di pistola. Dopo si accorsero che la tana era piena di cadaveri umani. Ne portarono fuori una parte per seppellirli, molti altri rimasero lì.
La storia dell’asháninka (popolazione indigena che vive nella selva a cavallo tra Perù e Brasile) e dello yanapuma è un esempio di racconto orale che nel corso del tempo si è arricchito di nuove vicende e nuovi costumi. Come in un presepe cristiano dove convivono elementi antichi, barocchi e addirittura della contemporaneità, qui sono presenti tratti che attingono a miti ancestrali (la foresta, il giaguaro, la sua tana) integrati con episodi del passato coloniale (l’uomo bianco, il commercio della gomma) e della modernità (la pistola).
Questo è il primo assunto che è importante fare, che così come la cultura indigena sudamericana non è cristallizzata in un passato idealizzato, ma piuttosto si forma nella continuità che unisce tempi precedenti e successivi alla colonizzazione, la stessa letteratura indigena non può essere compresa al di fuori delle dinamiche che si sono stabilite nel territorio ispano-americano dall’arrivo degli spagnoli ad oggi.
Continuità che rende più labile la definizione di cosa può essere, a ragione, denominato “letteratura indigena”, se non invece letteratura di un continente multiculturale in senso lato. Qui e nei testi utilizzati nel reperire le fonti si adotta un criterio volutamente vago e arbitrario per cui “la letteratura indigena può essere concepita come quella in cui è stata determinante la partecipazione della comunità indigena alla sua produzione”, e cioè dei portatori viventi di una cultura con un’origine e uno sviluppo peculiari.
-->Vi è poi una questione ugualmente importante che riguarda la testualizzazione, e cioè di come la letteratura indigena sia stata registrata e trascritta. L’esempio riportato, come altri, è un racconto tramandato in forma orale e trascritto solo in tempi recenti, prima ancora che da studiosi, per opera di missionari e viaggiatori. Non è un caso, perciò, che le antologie di questi racconti alleghino dizionari di parole indigene che non hanno reali corrispondenti in spagnolo, parole come yacuruma (“gente dell’acqua” o “abitanti del fiume”), chachiyacu (“acqua mischiata con il sale”), brujo (“persona che può agire secondo il potere che le è attribuito”), mangañahui (“persona dagli occhi scavati”) e così via. In moltissimi casi la prosodia del testo ha una funzione strutturale, il “rique rique rique…” appena visto o il canto dell’ayayamama che vedremo più avanti, che non può venire realmente trasposta.
Tuttavia, le questioni finora esaminate non rappresentano un ostacolo così ingombrante da impedirci di entrare nel mondo indigeno attraverso i suoi racconti. Questi restano documenti imprescindibili per avvicinarsi alla dimensione del cosmo e alla mentalità delle popolazioni amazzoniche.
Dentro e fuori la selva
La prima caratteristica che emerge è una grande promiscuità, data dalla capacità di trasformazione che non hanno solo i corpi animali, ma anche i pensieri, le sensazioni, i luoghi e le fortune dei protagonisti, al punto da mostrarsi spesso come volutamente insondabili e piene di mistero. Alcuni etnologi, probabilmente a ragione, riconoscono un’assonanza simbolica tra questa capacità trasformativa e lo spazio del bosco, sia trattando il tema della circolarità, sia analizzando la presenza di una dimensione bassa (acqua, terra) e alta (cielo). Eppure, è proprio questo il tratto che rende spinosa l’analisi della cosmologia indigena, che ha mostrato la propria refrattarietà a essere incasellata dentro griglie di caratteri oppositivi ma anche nei meccanismi più fluidi e articolati degli studi recenti.
A differenza degli europei, gli abitanti dell’Amazzonia non hanno creato civiltà pienamente urbane e, in tale mancanza, viene meno il contrasto tra intra e extra moenia, fuori e dentro la città. Il bosco, pur restando enigmatico e pericoloso, entra con le sue diramazioni dentro il villaggio, che a sua volta ne rappresenta una parte nevralgica, il luogo in cui le informazioni sul suo conto vengono conservate e aggiornate dai membri delle comunità umane. Analizzando le storie, il motivo dell’ingresso nella selva non è preponderante come nel folklore europeo, in quanto i movimenti, i viaggi, le avanscoperte possono fluire attraverso le diramazioni del bosco in modo poroso, e essendo il bosco il luogo in cui si nasce, si vive e si muore.
Anche in questo caso, però, non bisogna fare l’errore di considerare il bosco come uno spazio senza confini: primo, perché questa porosità diminuisce quanto più il racconto diventa moderno e quanto più è forte l’influsso della civiltà dei colonizzatori (e agli stili di vita arcaici si sovrappone la presenza di città, istituzioni politiche, spostamenti in posti lontani, ecc.); secondo, perché la selva ha sempre delle delimitazioni e dei vincoli territoriali che sono fondamentali per la coabitazione dei diversi gruppi e delle popolazioni.
In modo analogo, sarebbe sbagliato pensare che la mancanza di un passaggio netto tra civiltà indigena e spazio naturale faccia venire meno l’importanza di tale passaggio. L’ingresso nella selva costituisce un momento fondamentale perché “la selva, le lagune puntiformi, le rocce, le grotte, lo spazio aperto delle radure, rappresentano altrettante aperture” verso “il sogno, la visione (indotta o meno dagli allucinogeni), il mito e molteplici percorsi d’iniziazione”.

Trasgressioni e visioni: gli estremi della storia
Alcuni degli abitanti di Caballococha (città della regione di Loreto, Perù), gente che veniva da lontano e aveva fatto ricchezza maltrattando gli indigeni e commerciando gomma, legni pregiati e pelli, incontrarono un giorno un vecchio che passava di lì: “Se non cambiate il vostro modo di vivere, vi accadrà qualcosa di orribile”.
Gli abitanti ignorano e deridono il vecchio. Il giorno dopo assistono terrorizzati all’apparizione prodigiosa di una mandria di cavalli bianchi e il loro paese viene spazzato dall’acqua di un lago.
La letteratura amazzonica è piena di racconti che seguono questo canovaccio. In modo analogo a quanto avviene in altre regioni del mondo, Occidente compreso, è spesso proprio la contravvenzione a un precetto morale o una tradizione a creare i presupposti per l’avvio della narrazione. Come nel racconto appena riportato e nella vicenda dell’asháninka e dello yanapuma, ciò si traduce nel non prestare ascolto al consiglio di una persona anziana o di un compagno. Ma è ancora più grave ignorare l’ammonimento di un essere divino. Si guardi a tutte leggende che hanno come protagonista un essere umano messo di fronte al Chullachaqui, una creatura divina che, tra i tanti poteri e compiti di cui dispone, ha quello di proteggere gli animali della foresta e disporre le regole per la loro caccia:
Mentre Don Doroteo entrava in una nuova zona di caccia, incontrò un minuscolo bambino dalla pelle nera. Questi gli sbarrava il sentiero come se stesse giocando. Poi, quando Don Doroteo provò a scansarlo, lo bloccò con una grande forza e gli disse: “Per passare devi batterti con me. Se vincerai, diventerai mio amico e potrai cacciare quanto vorrai”. Don Doroteo vinse facilmente e il bambino divenne suo amico. Per celebrare l’amicizia quello gli diede in dono una pietruzza che battuta sui tronchi degli alberi poteva far apparire qualunque animale, “a patto che la nostra amicizia rimanga tra noi”. Non appena fu di nuovo solo, per prima cosa Don Doroteo provò la pietra. Fu talmente stupefatto del suo potere che tornato al villaggio disse tutto a sua moglie. In quell’istante la pietra smise di funzionare e lui e la sua famiglia morirono di fame.
Spesso, per mettersi nei guai, è sufficiente contravvenire a consuetudini e tradizioni: pescatori che si spingono in zone interdette, cacciatori di animali sacri, persone che sfidano la disposizione di un capovillaggio. È il caso del pescatore che “sa di essere arrivato per primo in un punto del fiume dimenticato da tutti”, “felice di poter compiere una pesca miracolosa”, tirato all’improvviso da una corrente che lo porta davanti a un enorme serpente acquatico, e poi, risputato sulla riva senza più un vestito addosso, ringrazia il cielo di essere stato risparmiato dalla yacumama.”
Accostandosi a storie come queste, ci si è forse accorti di un’ulteriore differenza sostanziale con le fiabe della nostra cultura popolare, differenza sulla quale è necessario spendere qualche parola. E cioè che dei prodigi, dei sogni, degli incantesimi che appaiono e si smascherano a mano a mano che la storia va avanti, non si esaurisce mai fino in fondo la dote di mistero, ma piuttosto è compito del racconto doverlo accrescere e sviluppare.
In altre parole, a fronte di un impianto morale univoco e decifrabile, corrisponde una grande apertura verso l’offerta di scenari ambigui che lasciano spaesati personaggi e ascoltatori:
Durante la festa di San Juan, un giovane contadino andò in città per vendere le sue galline. Quando al tramonto iniziò a sentire la musica, andò a sciacquarsi al fiume per poter partecipare alla festa dove sperava di trovare moglie. Al fiume incontrò una lavandaia vestita con una casacca bianca. Le gli disse il suo nome e lo invitò a trascorrere insieme la serata. Aveva ancora molti panni da lavare, ma gli lasciò un bigliettino con le indicazioni su dove si sarebbero potuti rivedere. Il ragazzo vagò solo per la città, bevve qualche bicchiere di troppo e all’ora stabilita si presentò all’appuntamento. Era di fronte a un cimitero. Visto che la ragazza si attardava, fece un giro tra le tombe. Una di queste attirò la sua attenzione. Avvicinandosi, riconobbe la casacca bianca della ragazza che pendeva da una croce. Scostandolo, lesse il suo nome scritto sulla pietra della lapide. Corse a gambe levate dal dottore del suo paese.
Questo svolgimento fornisce la base per una serie praticamente interminabile di narrazioni, in cui la parte conclusiva contiene da una parte il ritorno alla realtà a seguito della visione, dall’altra un elemento della visione che vi si è trasferito (un abito, un pesce, una pietra e così via).
Il passaggio in questi mondi è reso possibile da una riproduzione simbolica del viatico sciamanico, può essere l’eccitazione data dall’alcool, ma anche l’attrazione amorosa e erotica, a volte la semplice stanchezza. Il ritorno non è necessariamente traumatico. In molti casi l’esperienza consente al protagonista di acquisire una nuova consapevolezza su di sé e sul mondo.
Metamorfosi
Risulterà più comprensibile, adesso, la ragione per cui queste storie facciano un grande ricorso all’idea della metamorfosi. Si è oltre la dimensione del mito greco in cui personaggi come Zeus possono trasformarsi in toro o cigno, o far diventare Dafne un albero di alloro: tornando alla Yacumama, divinità associata con l’acqua, questa “appare come un anaconda antropomorfo o divino, in veste di compagno o autorità morale che decide sulla vita o sulla morte”, o circa le sembianze dal Mapinguari, si parla di una “bestia bipede coperta da un pelo folto e con i piedi al rovescio” ma anche “con un occhio solo sulla fronte e una seconda bocca in mezzo all’addome”. Queste caratteristiche possono mutare all’interno della stessa narrazione in modi improvvisi e non calcolabili, e trasferendosi da corpo a corpo, rendere il Chullachaqui-bambino la creatura “dal piede sinistro più piccolo e con le unghie come artigli di tigre”.
Del resto, come ricordano diversi etnologi, questa capacità non è appannaggio esclusivo delle creature soprannaturali, poiché anche gli animali possono manifestare in modo innato una forma originaria che riallaccia la loro genealogia a quella umana: “la forma esteriore degli animali non è che un travestimento. Quando tornano nelle loro case, si spogliano del loro aspetto, rivestono l’abbigliamento di piume e ornamenti cerimoniali, visibilmente ritornano ad essere le ‘persone’ che non avevano smesso di essere quando ondeggiavano nei fiumi e rovistavano nella foresta.”
E gli umani, a loro volta, possono trasformarsi in animali. Una leggenda (che ricorre al topos dei bambini smarriti nel bosco in modo analogo a fiabe europee come Hensel e Gretel, Pollicino e Babes in the wood) spiega così l’origine del nittibio comune, un uccello amazzonico conosciuto come ayaymama (poor-me-one nel mondo anglofono) per il suo richiamo lamentoso:
Due fratellini avevano seguito di nascosto la madre che andava a far legna nella foresta. Si persero e iniziarono a piangere. Il bosco sentì i loro lamenti e si prese cura di loro. Li coprì di foglie, fece trovare loro del cibo. Non erano pesce e riso, ma formiche. Quello spirito li aveva trasformati in uccelli. La mattina, quando tornarono al villaggio e si appollaiarono sugli alberi davanti alla casa, si resero conto che la madre era morta per il dolore di averli persi. Da allora gridano ‘ayaymama, ayamama!’, che significa appunto “madre morta, ci hai abbandonato”.
Ma di tutte queste metamorfosi, probabilmente la più conosciuta e raccontata è quella del delfino rosa (bufeo rosado in spagnolo). Il delfino si ricongiunge a tutti i tratti finora esaminati, la sovrapposizione della storia indigena e quella dei colonizzatori, il pericolo di contravvenire a leggi non scritte, l’ambiguità e la seduzione: una sintesi resa possibile in prima battuta dalla capacità di trasformazione che gli vengono attribuite.
A differenza del delfino grigio, normalmente amico e collaboratore degli esseri umani, il delfino rosa presenta affinità con la sirena greca: è un essere ingannatore e quasi sempre negativo che seduce chi incautamente si avvicina alle sponde di un fiume. Le sue vittime sono principalmente le donne, a cui viene consigliato di non farsi il bagno durante le mestruazioni: “il principale fattore che scatena la comparsa del delfino in forma umana è l’odore del sangue femminile”.
Nel mito amazzonico, il delfino appare sotto le sembianze di un ragazzo dalla carnagione chiara, metamorfosi che avviene nelle notti di luna piena. Corteggia le donne e le porta con sé nel fondale, dove c’è una città. In questa città le vittime si sposano con i delfini o, nei casi in cui tornano sulla terra, ne restano ingravidate.
Oltre a disposizioni di tipo sanitario, da cui probabilmente nasce questa leggenda, la storia compie un altro collegamento con la vita reale, mettendo in guardia le giovani ragazze dai pericoli derivanti dal commercio sessuale e i rapporti coercitivi, problemi esplosi al tempo del boom della gomma e protrattisi fino ai giorni nostri. In queste regioni esiste un modo di dire per indicare un figlio di padre sconosciuto, hijo del boto, figlio del delfino. Qui si ricorda che l’acqua, che procura inondazioni e spazza via villaggi, è la stessa forza che feconda e dà la vita.
L’eredità del mito
Come si è detto, la letteratura indigena è un continuum vitale in evoluzione ancora oggi, una pianta con un tronco che affonda nel mito ancestrale, con i suoi rami e le sue fioriture stagionali. Attualmente esistono decine di popolazioni indigene isolate nella sola regione amazzonica. Accettando la definizione per la quale “i popoli isolati sono gruppi che sono fuggiti dopo aver avuto un contatto con la cultura occidentale, che vivono grazie al proprio lavoro e mantengono completa autonomia culturale”, si può immaginare che la letteratura orale di queste popolazioni integri al suo interno elementi della dominazione, e sia dotata di alcuni motivi derivati dall’esperienza coloniale, delle violenze legate al narcotraffico, fino alla guerriglia di organizzazioni come le FARC e Sendero Luminoso e al ciclo produttivo del legno e del petrolio.
Di riflesso, questo bagaglio culturale ha fecondato la produzione letteraria di autori e autrici di lingua spagnola e portoghese da almeno un secolo. In questo insieme di intellettuali e artisti si fanno rientrare “indigenisti” come Róger Rumrrill, Mario Vargas Llosa, César Calvo, Francisco Izquierdo Ríos, Fernando Romero, Stefano Vares e altri che usano in modo più o meno marcato stili e motivi della letteratura amazzonica.
Allo stesso tempo, la produzione scritta di rappresentanti indigeni, nonostante faticosi riconoscimenti a livello politico, rimane del tutto sommersa. Su questo aspetto pesano la scarsa scolarizzazione, le risorse limitate degli autori e il mancato supporto economico dei governi che si traduce in una carenza di centri editoriali vicini alle popolazioni. In altre parole, la letteratura amazzonica contemporanea è ancora prodotta e fruita oralmente, e i nomi dei suoi autori, come Luis Márquez Pinedo (Shipibo-Conibo), Never Allui Piuk (Awajún), Andrés Salazar Rossi (Ashaninka), Pablo Cabanillas Díaz e Josue Pacaya (Matsigenka), praticamente sconosciuti al grande pubblico dei lettori.
Il futuro di questa letteratura si lega in prima istanza alla conservazione dell’ambiente ecologico e sociale dell’Amazzonia, e quindi alla sua stessa esistenza. In altre parole, non potrà darsi una nuova produzione non solo senza il rispetto per le comunità indigene, ma anche se verranno meno specie attualmente minacciate come tigri, tapiri, giaguari e delfini, animali che formano l’immaginario alla base di questa letteratura. Così il racconto di un pescatore:
Don Nectali non tornò mai a cercare la sua lancia per pescare i paiche, per paura che i delfini neri e rossi portassero il suo corpo e la sua anima in fondo alla laguna. Più tardi si seppe che alcuni cacciatori avevano rinvenuto un immenso delfino nero che si era arenato lungo il fiume. Era morto e putrefatto. Grandi rapaci lo stavano divorando.
Ho ascoltato stamane il colloquio in Radio Svizzera di Lingua Italiana, così sono venuto qui per leggere l’articolo. Grazie mille, Signor Rosso, per aver dato degli ottimi elementi di riflessione su culture che non conosciamo e che speriamo lascino traccia!
Un gran bell’articolo. Non conoscevo nulla di questo mondo!