Come il linguaggio vincola il pensiero



Usando il linguaggio il pensiero si radica inevitabilmente in una realtà linguistica in cui l’immobilità-immutabilità (storico-culturale) del linguaggio condiziona sempre la stessa possibilità di espressione (storica) del pensiero. Bisogna pertanto tener sempre ben presente il piano linguistico entro il quale il pensiero si struttura, per non cadere vittima dei suoi abbagli e dei suoi sofismi.

 

In copertina un’opera di MAiorano, in mostra presso la galleria Pananti dal 2 al 26 novembre

Questo testo è tratto da Epistemologia storico-evolutiva e neorealismo logico, di Fabio Minazzi Ringraziamo Olschki editore per la gentile concessione.


di Fabio Minazzi

Allo stesso modo come, per il solo fatto di vivere in una data società o in un dato tempo, ci troviamo coinvolti, indipendentemente da ogni nostra espressa accettazione e da qualunque forma di “contratto sociale”, in una rete di obblighi, di responsabilità, di impegni reciproci, di cui non siamo ordinariamente in grado di assegnare alcuna speciale giustificazione, così anche, per il solo fatto di parlare una data lingua, ci troviamo indotti, o costretti, ad accettare una quantità di classificazioni e di distinzioni che nessuno di noi ha contribuito a creare, e di cui saremmo bene imbarazzati se ci si chiedesse di indicare la ragione o il “fondamento”. 

Così osservava, assai persuasivamente, Giovanni Vailati, in apertura del suo saggio Il linguaggio come ostacolo alla eliminazione di contrasti illusori del 1908 (cfr. Vailati 1911, pp. 895-899; Vailati 1987, vol. I, pp. 111-115 e Vailati 2010, pp. 227-232). Subito dopo Vailati avverte anche come «un gran numero di queste distinzioni e classificazioni», presenti e operanti oggettivamente entro il linguaggio che utilizziamo normalmente, siano sempre frutto di circostanze ed esigenze affatto diverse da quelle cui ci si potrebbe eventualmente appellare per stabilire, ex novo, «un inventario ordinato delle nostre cognizioni ed esperienze»: 

la posizione nella quale viene a trovarsi, per questo riguardo, ogni persona che aspiri, sia pure in grado minimo, a sentire e pensare in modo originale, e a dare espressione a quello che sente e pensa, si potrebbe paragonare a quello di un artista davanti a un blocco di marmo che egli sappia essere solcato internamente da numerose e profonde venature, non aventi alcun rapporto colla forma che egli intende di fare assumere ad esso, e atte anzi a far seguire ai suoi colpi di scalpello degli effetti impreveduti, e non sempre compatibili con quelli che egli ha in vista di ottenere. 

Da questo punto di vista il rapporto che allora si instaura tra il nostro stesso pensiero e il linguaggio in cui lo esprimiamo (e lo pensiamo!) è un rapporto assai complesso, in cui sono presenti, al contempo, vincoli e momenti di libertà: vincoli e momenti di libertà che sembrano quasi mettere capo alla “fuga” (analoga a quelle delle composizioni musicali, in cui un certo tema o un determinato soggetto viene, in più modi, ripreso, variato e anche rimodulato dai singoli strumenti orchestrali). Una complessa “fuga” in cui la nostra stessa, eventuale, originalità di pensiero si deve strutturare proprio grazie a quegli stessi vincoli che possono essere forzati, ma solo fino a un determinato punto di tensione, oltre il quale si rischia di distruggere lo stesso strumento linguistico. Da questo punto di vista, allora, il rapporto oggettivo del nostro pensiero con il linguaggio in cui lo plasmiamo e lo esprimiamo può forse essere configurato come il rapporto dialettico che sempre si instaura con la stessa tradizione culturale cui si appartiene. Meglio ancora: col vario e sempre mobile intreccio di molteplici tradizioni culturali (al plurale!) cui sempre si appartiene. Tradizione (sia al singolare, sia anche al plurale) da intendersi, poi, non tanto come un patrimonio, fisso, stabile e fossilizzato, di “oggetti”, che verrebbero appunto trasmessi passivamente in quanto tali, bensì, e al contrario, come un patrimonio estremamente mobile, sempre vivo, mutante e cangiante, il quale, a ogni singolo passaggio, si plasma e si riconfigura, continuamente e nuovamente. Un patrimonio, insomma, che possiamo fare nostro solo nella misura in cui siamo effettivamente in grado di ripensarlo, di riviverlo, di smontarlo, di scomporlo criticamente per poi riconfigurarlo e riplasmarlo secondo una nostra nuova, e, eventualmente, originale, modalità critica di connessione tra i suoi vari e molteplici elementi. In questa prospettiva dialettica si deve allora pensare, necessariamente, alla tradizione cui ci si riferisce come a un “corpo vivo”, entro il quale ci possiamo situare per ripensarla criticamente e variamente contaminarla, onde dar appunto luogo a una sua nuova e inedita configurazione. Nuova ed inedita configurazione che, tuttavia, si basa ancora su antichissimi elementi che sono stati ripensati e ricollocati in diversa guisa e secondo una nuova organizzazione concettuale. Da questo punto di vista lo stesso linguaggio alfabetico può allora essere pensato come l’emblema paradigmatico di questo nostro complesso e pur libero rapporto critico con la tradizione entro la quale siamo stati forgiati e partendo dalla quale costruiamo, possibilmente, il nostro stesso autonomo e originale percorso di pensiero e di vita. In questo senso la piena consapevolezza critica dell’intrinseca complessità del nostro rapporto con la tradizione e con le stesse conoscenze oggettive che l’uomo ha via via elaborato nel corso della sua storia, rappresenta un elemento di cui era già consapevole un autore della modernità come Galileo Galilei. Il quale ultimo, proprio nelle famose pagine conclusive della prima giornata del suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Galilei 1968, vol. VII) là dove introduce la distinzione tra sapere intensive e sapere extensive, ha anche modo di riflettere sulla natura intrinseca e peculiare della nostra conoscenza e per questa ragione, tramite l’intervento di Sagredo, esprime questa sua interessante riflessione: 

Io son molte volte andato meco medesimo considerando, in proposito di questo che di presente dite [si riferisce appunto alle riflessioni di Salviati concernenti il rapporto tra «l’intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese» in rapporto all’intendere divino, intuitivo ed assoluto, ndr.], quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto meravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sì nelle arti come nelle lettere, e poi fo riflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: “E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e scoprire sì bella figura che vi era nascosta? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?”. S’io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compatir gl’intervalli musici, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile dell’udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sì diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion de’ concetti e la spiegatura loro? Che diremo dell’architettura? Che dell’arte navigatoria? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane […].

Si osservi come in questa mirabile pagina galileiana «l’invenzion de’ concetti e la spiegatura loro» propria dei poeti sia messa sullo stesso piano culturale delle opere degli architetti, dei navigatori, dei musici, dei pittori, degli scultori, dei tecnici e degli scienziati, proprio perché Galileo mostra di possedere un’idea unitaria della conoscenza umana, che non crea alcun artificioso steccato insormontabile tra le “due culture”, proprio perché il sapere umano si può dilatare e configurare in ogni ambito conoscitivo entro il quale l’uomo riesce, appunto, a pensare, in modo innovativo, la realtà, mettendo sempre capo a nuove e originali conoscenze. E, ancora, si noti come, parlando della scultura, emerga proprio l’esempio presente anche alla riflessione vailatiana, ovvero quel rapporto tra la libertà dell’artista e i vincoli che la stessa materia, con la sua struttura oggettiva della pietra, con le sue venature, pone sempre alla realizzazione delle varie opere. In questo preciso contesto non è allora affatto un caso che Galileo consideri proprio l’invenzione dell’alfabeto come «il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane», proprio perché l’alfabeto sembra indicare, nella sua stessa struttura e nella sua stessa natura intrinseca – quella basata su «venti caratteruzzi», fissi e sempre uguali – la possibilità di comporre sempre nuovi pensieri e riflessioni, mettendoci nella possibilità di comunicare «con quelli che son nell’Indie» e di parlare, addirittura, anche con «quelli che non sono ancora nati». In questo senso l’invenzione dell’alfabeto può allora essere indicata come il simbolo e l’emblema della stessa plasticità critica delle tradizioni entro le quali ci si forma: se il vincolo è infatti rappresentato dai «venti caratteruzzi» immodificabili, tuttavia la nostra stessa capacità creativa si radica proprio nella possibilità di saper eventualmente intrecciare, collegare e variare, continuamente, il legame che può instaurarsi tra questi «venti caratteruzzi» onde esprimere nuovi pensieri e nuovi rilievi. Il che, appunto, costituisce una bella e assai significativa espressione della complessità intrinseca e plastica della tradizione, entro la quale e mediante la quale, possiamo costruire dialetticamente una nuova riflessione pur facendo leva, criticamente, su quanto ci è stato trasmesso da quelle stesse tradizioni entro le quali siamo stati formati. 

Queste considerazioni possono e devono allora essere tenute presenti per ripensare, per dirla ancora con un pensatore come Vailati, il ruolo, l’importanza e il significato che può e deve essere associato alle cosiddette «questioni di parole» nell’ambito della storia del pensiero umano e dello stesso incremento della nostra conoscenza concettuale del mondo. Da questo specifico punto di vista la tradizione occidentale ha del resto individuato due diversi tipi di proposizioni e, quindi, di possibili definizioni, perché ha in genere distinto tra le proposizioni che designano proprietà degli oggetti di cui si parla e le proporzioni che, invece, definiscono, di per sé, delle proprietà. Su questa distinzione si radica, del resto, lo scarto esistente tra il linguaggio di un bambino e quello di un uomo adulto, oppure anche quello che sussiste tra il linguaggio di un uomo ignorante e quello di un uomo competente di un determinato settore disciplinare. Storicamente la distinzione concettuale tra queste due differenti proposizioni ha naturalmente assunto varie connotazioni – anche axiologiche. Connotazioni profondamente diverse, proprio a seconda della differente valutazione che, di volta in volta, ne veniva proposta. Così, per esempio, se gli scolastici medievali parlavano, da un lato, di proposizioni «essenziali» e, dall’altro lato, di proposizioni «accidentali»; gli empiristi, à la Locke, distinguono, invece, tra proposizioni «futili [trifling]» e proposioni «reali», mentre i razionalisti, à la Leibniz, distinguevano tra «verità di ragione» e «verità di fatto»; ancora: gli empiristi, à la Hume, distinguevano tra proposizioni riducibili a «relations of ideas» e proposizioni vertenti, invece, su «matter of fact»; anche Kant, che pure intreccia e in parte scompagina criticamente queste opposte tradizioni concettuali dei razionalisti e degli empiristi, distingue, a sua volta, tra proposizioni «analitiche» e proposizioni «sintetiche» (cui affiancherà, successivamente, le proposizioni formate da «giudizi sintetici a priori», i quali ultimi, a suo avviso, in aperto contrasto con gran parte della precedente tradizione, costituiscono, la tipica espressione delle conoscenze scientifiche per la cui adeguata comprensione critica-epistemologica il pensatore di Königsberg introdurrà, infine, la sua innovativa prospettiva trascendentalistica e meta-critica, strettamente connessa con la sua celebre «rivoluzione copernicana»). In questo preciso contesto tradizionale, specificatamente occidentale, la distinzione tra proposizioni che hanno lo scopo precipuo di chiarire il significato dei termini adoperati e proposizioni che presentano, invece, asserzioni relative agli oggetti reali di cui parlano era del resto già presente nel mondo greco. Come ha giustamente rilevato Vailati 

ciò che dà ai dialoghi di Platone l’importanza d’un documento unico nella storia del pensiero umano è il fatto che in essi abbiamo il primo esempio d’una serie di tentativi metodici diretti ad analizzare e precisare il significato dei termini generali di uso corrente. Come quelli che si riferiscono alle azioni umane e ai rapporti sociali e politici e che servono di base all’enunciazione di apprezzamenti morali o di principi relativi alla condotta.

Il metodo basato sull’ironia socratica, come anche il successivo sforzo costruttivo dialogico che Socrate mette sempre in campo con i suoi vari interlocutori, stando perlomeno alla straordinaria testimonianza platonica, costituiscono un ottimo e preclaro modello dialogico di riferimento per quella procedura riflessiva e logica con la quale si cerca, appunto attraverso lo sviluppo di una complessa discussione critica, di sempre meglio determinare il significato di alcune precise parole. Da questo punto di vista i differenti dialoghi platonici costituiscono dei modelli emblematici di riferimento, espressamente consacrati alla discussione analitica e critico-dialogica di alcuni concetti e alcuni precisi significati. Conseguentemente nel Menone si cerca di definire la virtù, nel Critone il dovere, nel Fedone la natura dell’anima, nel Parmenide l’essere, nella Repubblica la giustizia, nel Lisi l’amicizia, nel Fedro la bellezza, nel Gorgia la retorica, nello Jone la poesia, nel Simposio l’amore, nell’Eutifrone la santità, nel Lachete il coraggio, nel Cratilo il linguaggio, nel Carmide il dominio di sé, nel Politico l’uomo di stato, nel Timeo la natura. Come giustamente, rileva Vailati 

non è fuor di luogo notare come a tali dialoghi, alcuni dei quali si annoverano ben a ragione tra i capolavori più sublimi della letteratura d’ogni tempo e d’ogni paese, sia per eccellenza applicabile l’osservazione del Sidgwick: che il vantaggio delle ricerche di questo genere, sul senso delle parole, non consiste tanto nelle definizioni che si trovano quanto nelle operazioni che bisogna fare per trovarle, e che il frutto di tali discussioni non sta nelle conclusioni alle quali esse portano, ma nelle ragioni che occorre scoprire e addurre per giustificarle. 

In altre parole l’importanza e il significato di questa ricca testimonianza platonica si radica proprio nella natura stessa delle molteplici discussioni critiche che vengono presentate e sviluppate nei singoli dialoghi. Il plastico e critico dispiegarsi dialettico dell’ironia socratica consente infatti al maestro di Platone di mostrare al suo interlocutore come alle definizioni sfugga sempre qualche proprietà particolare, per nulla secondaria, oppure anche come la definizione si applichi certamente ad alcuni casi specifici in cui, tuttavia, non figurano proprio alcune specifiche proprietà pure presenti nella stessa definizione iniziale da cui il dialogo aveva preso le mosse. In ogni caso – e più in generale – l’incapacità di saper distinguere, con la precisione e il dovuto rigore, tra le proposizioni che affermano che gli oggetti di una determinata classe godono di alcune proprietà specifiche e le proposizioni con le quali, invece, si stabiliscono, per definizione, gli oggetti che godono di una determinata proprietà, costituisce, come ancora rilevava Vailati, «una fecondissima sorgente di ambiguità e di argomentazioni illusorie». Una fonte di ambiguità e di argomentazioni illusorie contro le quali ha peraltro subito messo in guardia anche lo stesso fondatore e scopritore della logica occidentale, ovvero Aristotele, il quale ha dedicato alla logica l’Organon (in particolare si pensi agli Analitici primi, agli Analitici posteriori, ai Topici, agli Elenchi sofisti e anche al De interpretazione, cfr, Aristotele 1938), nonché il quarto libro della Metafisica (Aristotele 1989 e 1993). Nelle pagine dello stagirita si trovano vari riferimenti alla necessità di prestare sempre un’attenta considerazione a tutti i molteplici possibili errori logici (e anche ai vari abbagli logici, ingeneranti autentici fraintendimenti concettuali), cui si può senz’altro cadere sul piano dei discorsi quando non si tenga presente, con il dovuto rigore, la distinzione tra i due differenti tipi di proposizioni precedentemente menzionati. Il che, come ancora rilevava Vailati nella sua celebre prolusione, testimonia, ulteriormente, quell’«inconscia schiavitù del pensiero alla parola nei vari campi di attività intellettuale». O, per dirla con la non meno acuta e sofisticata tradizione orientale (e indiana) della riflessione brahaminica: «la parola è misurata in quattro parti e i brahmani sapienti la conoscono. Tre di essi son nascosti e non si muovono. Gli uomini parlano la quarta parte della parola». Per i brahmini, infatti, tutti gli esseri sono solo un quarto del sé (ovvero del principio supremo del sé, coincidente con la pura coscienza), mentre «gli altri tre quarti sono ambrosia in cielo». Insomma: usando il linguaggio il pensiero si radica, sempre, inevitabilmente, in una realtà linguistica in cui l’immobilità-immutabilità (storico-culturale!) del linguaggio condiziona sempre la stessa possibilità di espressione (storica!) del pensiero. Bisogna pertanto tener sempre ben presente il piano linguistico entro il quale il pensiero si struttura oggettivamente, onde non cadere mai vittima dei suoi abbagli e dei suoi sofismi. In questa specifica prospettiva critica, anche se Aristotele, negli Analytica posteriora, non ha mai mancato di avvertire, con estrema chiarezza concettuale e metodologica, che la definizione di una determinata realtà non ne implica affatto l’esistenza, tuttavia, spesso e volentieri, la riflessione occidentale ha invece violato proprio questo prezioso rilievo logico-metodologico dello stagirita, dando così luogo ad autentiche costruzioni metafisiche (che erano spesso vane logomachie), affatto gratuite e prive di un’effettiva portata conoscitiva oggettiva. Al contrario, l’attenta considerazione delle molteplici «questioni di parole», sempre presenti nell’ambito dello sviluppo concettuale specifico delle differenti discipline, consentirebbe allora non tanto di istituire una sorta di mitica “Suprema ed Assoluta Corte di Cassazione” della conoscenza umana, ma, perlomeno, aiuterebbe a istituire una sorta di clearing house – per dirla ancora con Vailati – tale, insomma, da aiutarci a incrementare una preziosa chiarificazione critico-concettuale all’interno dell’oggettività specifica e propria delle scienze propriamente dette. Il che ci riporta, però, e nuovamente, allo specifico ruolo epistemico del linguaggio di ciascuna singola disciplina. 


Fabio Minazzi (Varese 1955), ordinario di Filosofia della scienza dell’Università degli Studi dell’Insubria si è formato con Ludovico Geymonat e Mario Dal Pra per poi svolgere il dottorato con Evandro Agazzi (Fribourg, Svizzera) e Jean Petitot (Paris). Dirige, da quando lo ha fondato, nel 2009, il Centro Internazionale Insubrico in cui si conservano una trentina di Archivi storici e una decina di Biblioteche d’Autore della filosofia italiana contemporanea. Autore di più di cento volumi (tra monografie e curatele) e di 600 saggi, studi, note, etc. (apparse anche in inglese, francese, tedesco, spagnolo, cinese) ha approfondito, in particolare, il problema del realismo, quello dell’oggettività della conoscenza, la tradizione del razionalismo critico europeo ed italiano, la filosofia della shoah e i problemi della didattica della filosofia.

 

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