Per Malabou il funzionamento neuronale e quello sociale si influenzano vicendevolmente, dando luogo a un’“evoluzione neuronale del mondo”, che ha importanti ricadute sul nostro futuro.
IN COPERTINA: Illusion, Hyo Soon Choi (2008)
Questo testo è tratto da “The South Atlantic Quarterly” 2017;116:1, che ringraziamo per la gentile concessione
di Catherine Malabou
Traduzione e introduzione di Matteo Vavassori
Già nel 2004, nel suo libro Cosa fare del nostro cervello (tr. it. Armando Editore, 2007), Catherine Malabou affermava che “il cervello non ha soltanto una storia […] ma è una storia” (9), nello specifico, tale “storicità costitutiva del cervello in effetti è la sua plasticità” (12). Il funzionamento neuronale e quello sociale si influenzano vicendevolmente, dando luogo all’“evoluzione neuronale del mondo” (18). A partire da queste premesse, Malabou elaborava una teoria politica del cervello: poiché la plasticità sinaptica corrisponde a un processo non completamente determinato e non deterministico, l’uomo può trovare in essa un possibile spazio di libertà, dove modellare attivamente e creativamente il proprio Sé, inteso come “dato biologico-culturale” (86).
Questo, in estrema sintesi, è lo sfondo sul quale la pensatrice articola la propria riflessione relativa al ruolo dell’umano nell’attuale epoca geologica, chiamata Antropocene, nel saggio qui tradotto e apparso sul “South Atlantic Quarterly” nel 2017. Per sviluppare la sua particolare visione, Malabou prende le mosse da una lettura critica delle note posizioni di Dipesh Chakrabarty su questo argomento e si avvale del supporto di una serie di “alleati”, rielaborando creativamente le posizioni teoriche di Fernand Braudel e della École des Annales, di Marshall McLuhan e, in maniera estesa, di Daniel Lord Smail.
Da quest’ultimo, Malabou prende in prestito la nozione di “storia profonda” (deep history), alla quale, nel 2008, lo storico di Harvard ha dedicato un libro fortunato, almeno in ambito anglosassone. Secondo Smail, una storia profonda dell’uomo deve basarsi fondamentalmente su una “neurostoria” che permette di
“vedere il cervello come cardine narrativo per una storia che cominci con i primi ominidi e che sia centrata sul Neolitico. Adottare questo cardine narrativo significa poter costruire una narrazione storica differente, una narrazione che non deve dipendere dalle cornici delle organizzazioni politiche, inclusa la nascita dello stato-nazione, per sostenere la grande narrazione della storia generale. […] Con i piedi piantati nel passato profondo, possiamo guardare al futuro con meraviglia, osservando i pattern culturali che si ramificano nel tempo e la vita meravigliosa che nasce dall’interazione della neurofisiologia umana con le ecologie in rapido cambiamento dell’era postlitica”. (170)
In un senso neurostorico, dove la materialità e la cultura si compenetrano, i comportamenti sociali non possono che essere alterazioni del sistema corpo-cervello: “dalla prospettiva della neurostoria, il progresso della civiltà è un’illusione della psicotropia”. (200) Per questo motivo, sostiene Malabou, l’ecologia, per essere efficace, deve costituirsi come nuovo sistema di dipendenza e di psicotropia, come nuova economia libidinale adeguata all’epoca attuale, dove il senso di responsabilità dell’uomo vacilla di fronte all’enormità delle sfide vertiginose da affrontare.
-->La nozione di “storia profonda” in Italia non gode ancora di un credito e una diffusione significativi, si pensi, per fare degli esempi, alle recenti traduzioni italiane dei titoli di due libri di lingua inglese: The Deep History of Ourselves: The Four-Billion-Year Story of How We Got Conscious Brains di Joseph LeDoux (2019) viene reso con Lunga storia di noi stessi. Come il cervello è diventato cosciente (Raffaello Cortina, 2020), mentre Against the Grain: A Deep History of the Earliest States di James C. Scott diventa Le origini della civiltà. Una controstoria (Einaudi, 2018). Catherine Malabou, tuttavia, ci mostra quanto possa essere feconda questa idea, per una comprensione allargata dei fenomeni storici, sociali e culturali, intendendo la “cultura come prodotto biologico” secondo le parole di un altro nume tutelare del testo qui tradotto, ovvero Edward O. Wilson (In cerca della natura, Blu Edizioni, 2003).
Il cervello della storia, o, la mentalità dell’Antropocene
di Catherine Malabou
Testo tratto da “The South Atlantic Quarterly” 2017;116:1
Questo scritto è una risposta al tema molto stimolante che Ian Baucom e Matthew Omelsky, curatori del numero del “South Atlantic Quarterly” dedicato alla conoscenza nell’epoca del cambiamento climatico (2017), mi hanno proposto di sviluppare: “Per il tuo contributo”, hanno scritto, “saremmo particolarmente interessati a un saggio che indaghi l’intersezione tra filosofia e neuroscienze in riferimento al cambiamento climatico” (comunicazione personale, 10 ottobre 2015). Dopo qualche tempo, ho deciso di esplorare il legame tra l’attuale visione del cervello come nuovo soggetto della storia e il tipo di consapevolezza richiesto dall’Antropocene.
Una risposta immediata alla sfida lanciata da Baucom e Omelsky avrebbe potuto essere un’esplorazione del rapporto tra il cervello e l’”ambiente”. È, ovviamente, un’opinione diffusa nella letteratura sul cambiamento globale che “il concetto di Antropocene annulla la frattura tra natura e cultura, tra storia umana e storia della vita e della terra”, così come tra “ambiente e società” (Bonneuil e Fressoz 2013: 23). Il confondersi di questi confini, naturalmente, richiede uno studio della profonda interazione tra sociologia ed ecologia, per considerarle come parti dello stesso metabolismo. Credo che questa concezione di “interazione” richieda un’analisi più ravvicinata e renda necessario uno studio preliminare dello specifico concetto di storia nel quale attualmente si situa.
Se l’Antropocene acquisisce lo status di un’autentica epoca geologica, è ovvio che una tale epoca determinerà la rappresentazione storica, come pure come il significato sociale e politico degli eventi che in essa si verificano. In altre parole, questa nuova epoca geologica non sarà e non potrà essere caratterizzata dalla neutralità e dell’a-soggettività proprie delle epoche geologiche in generale. L’Antropocene colloca l’essere umano stesso tra natura e storia. Da una parte, è ancora chiaramente il soggetto della sua propria storia, responsabile e cosciente. La coscienza della storia, o “storicità”, non è separabile dalla sua stessa storia. Essa implica memoria, capacità di cambiamento e responsabilità. Dall’altra parte, però, l’umano dell’Antropocene, definito come una forza geologica, deve essere visto come neutrale e indifferente, come una vera e propria realtà geologica. I due lati di questa nuova identità non possono rispecchiarsi, causando una rottura nella riflessività.
La consapevolezza dell’Antropocene, quindi, nasce attraverso un’interruzione di coscienza. Il problema è questo. Intendo indagare se una tale interruzione apra lo spazio per una sostituzione della coscienza con il cervello. Procederò a un confronto tra due diversi punti di vista su questa questione. Per il primo, l’Antropocene ci spinge a considerare l’uomo come un agente geologico puro e semplice. Questa è la posizione di Dipesh Chakrabarty. Mi riferisco ai suoi due articoli ormai famosi (Chakrabarty 2009, 2012). Per il secondo, la comprensione dell’Antropocene privilegia necessariamente il ruolo del cervello, e in tal modo, della biologia. Questo è l’approccio che Daniel Lord Smail illustra in Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia (2008). Mostrerò come questi due approcci possano essere interpretati come complementari e introducano nel dibattito, come medio termine e sotto una nuova forma, alcuni elementi – importanti e ingiustamente dimenticati – portati alla luce da alcuni eminenti storici francesi della École des Annales, quali quelli di “mentalità” e di temporalità “lenta” o “di lunga durata”.
Chakrabarty nega qualsiasi comprensione metaforica del “geologico”. Se l’essere umano è diventato una forma geologica, da qualche parte e a un certo livello deve esistere un isomorfismo o un’identità strutturale tra l’umanità e la geologia. Questo isomorfismo è quanto emerge – almeno sotto forma di domanda – quando la coscienza viene interrotta proprio da questo fatto stesso. La soggettività umana, in quanto, per così dire, “geologizzata” è spezzata in almeno due parti, rivelando la scissione tra un agente dotato di libera volontà e capacità di auto-riflettersi e una potenza inorganica neutra. Ancora una volta non ci troviamo di fronte alla dicotomia tra storico e biologico; non abbiamo a che fare con il rapporto tra l’uomo inteso come essere vivente e l’uomo inteso come un soggetto.
L’uomo non può apparire a sé stesso come una forza geologica, perché essere una forza geologica è una modalità di sparizione. Pertanto, la forza in divenire dell’umano è al di là di ogni fenomenologia e non ha statuto ontologico. La soggettività umana, in un certo senso, è ridotta ad atomi senza alcuna intenzione atomica ed è diventata strutturalmente estranea alla propria apocalisse per mancanza di riflessività.
Un importante punto in comune tra Chakrabarty e Smail è la necessità di considerare che la storia non inizia con la storia documentata, ma deve essere considerata come una storia profonda. Come suggerisce Chakrabarty (2009: 78) “pensare in termini di specie è connesso al progetto della storia profonda”. Si ricordi la definizione di storia profonda proposta da Edward Wilson (1996: ix; traduzione leggermente modificata), alla quale si riferiscono sia Chakrabarty sia Smail: “non mi limito a considerare il comportamento dell’uomo come il prodotto della storia documentata degli ultimi diecimila anni, ma anche della storia profonda, la combinazione di cambiamenti genetici e culturali che ha creato l’umanità in centinaia di migliaia di anni”.
Secondo Chakrabarty, tuttavia, il “passato profondo” biologico non è certamente abbastanza profondo. In tal senso, quindi, un approccio “neurostorico” all’Antropocene rimane insufficiente. Il neurocentrismo è solo un’altra versione dell’antropocentrismo. Concentrandosi unicamente sul biologico, Smail perderebbe la dimensione geologica dell’umano: “Il libro di Smail indaga le possibili connessioni tra la biologia e la cultura – specificamente, quelle tra la storia del cervello e la storia culturale – rimanendo al tempo stesso sempre attento ai limiti propri delle argomentazioni biologiche. Ciò che a Smail interessa, però, è la storia della biologia umana e non le recenti tesi riguardanti la nuova capacità di agency geologica degli umani” (Chakrabarty 2009: 64). Il recente statuto dell’essere umano come agente geologico paradossalmente conduce lo storico indietro fino a un passato molto antico, un tempo in cui l’umano stesso non esisteva, un tempo che in tal modo oltrepassa la “preistoria”.
Si potrà subito obiettare che Smail, nel suo libro, sta proprio intraprendendo una decostruzione del concetto di preistoria. Chiaramente, la nozione di storia profonda rappresenta per lui il risultato di tale decostruzione. Storia profonda, quindi, si sostituisce a preistoria. Secondo l’opinione più invalsa, la storia inizia con l’ascesa della civiltà e si allontana da una “zona cuscinetto” collocata tra l’evoluzione biologica e la storia autentica: tale zona cuscinetto è quella che precisamente viene chiamata preistoria. Se la storia deve essere intesa, come suggerisce Wilson, come l’intima interazione originaria tra il genetico e il culturale, essa inizia con l’inizio dell’ominizzazione e non richiede il “pre” (Smail 2008).
L’approccio di Smail è chiaramente epigenetico, tale che interdice l’assimilazione dell’“ominizzazione” con la storia della coscienza. L’epigenetica è una branca della biologia molecolare che studia i meccanismi che modificano la funzione dei geni attivandoli o disattivandoli senza alterare la sequenza del DNA nella formazione del fenotipo. Le modificazioni epigenetiche dipendono da due tipi di cause: interne e strutturali, da un lato, e ambientali, dall’altro. Nel primo caso si tratta dei meccanismi fisici e chimici (RNA, nucleosoma, metilazione). Nel secondo, l’epigenetica fornisce al materiale genetico un mezzo per reagire all’evoluzione delle condizioni ambientali. La definizione di “malleabilità fenotipica” proposta dalla biologa americana Mary Jane West-Eberhard (2003: 34) è eloquente al riguardo: si tratta della “capacità di un organismo di reagire a un input ambientale con un cambiamento di forma, stato, movimento o tasso di attività”. L’epigenetica contemporanea reintroduce lo sviluppo dell’individuo nel cuore dell’evoluzione, aprendo un nuovo spazio teorico chiamato “biologia evolutiva dello sviluppo” o “evo-devo”.
Lambros Malafouris, nel suo libro How Things Shape the Mind: A Theory of Material Engagement, mostra come l’epigenetica abbia modificato la visione abituale dello sviluppo cognitivo, istituendo così l’archeologia cognitiva come un importante campo negli studi storici. “Lo sviluppo cognitivo”, scrive,
è spiegato come il prodotto emergente […] di questi vincoli [dai geni e dalla cellula individuale all’ambiente fisico e sociale]. In questo contesto, la visione del cervello e dello sviluppo cognitivo nota come epigenesi probabilistica […] che enfatizza le interazioni tra esperienza ed espressione genica […] è di particolare interesse. La formula unidirezionale (prevalente nella biologia molecolare) con cui i geni guidano e determinano il comportamento è sostituita da un nuovo schema che riconosce esplicitamente la bidirezionalità delle influenze tra i livelli di analisi genetico, comportamentale, ambientale e socioculturale. (Malafouris 2013: 40)
Questo nuovo schema richiede, come mostra brillantemente Malafouris, un approccio materialista all’interazione tra biologico e culturale. Da qui il sottotitolo del libro: A Theory of Material Engagement. L’incrocio e l’interazione epigenetici in questione avvengono attraverso le cose, attraverso la materia, cioè anche attraverso l’inorganico. È una visione “non rappresentativa” dell’interazione, che non richiede alcuna relazione soggetto-oggetto, nessuna mente che vede in anticipo cosa deve essere fatto o fabbricato. Mente, cervello, comportamento e oggetto creato accadono insieme; sono tutte parti dello stesso processo. “La vita cognitiva delle cose non è esaurita dal loro possibile ruolo causale nel dare forma ad alcuni aspetti del comportamento umano intelligente; anche la vita cognitiva delle cose incarna un ruolo enattivo e costitutivo cruciale” (Malafouris 2013: 44). Pertanto, esplorare le relazioni tra il cervello e il suo “ambiente” è un compito molto più ampio e profondo che studiare il ruolo dell’”umano” nel suo “milieu”, proprio in quanto, per una parte essenziale, getta le basi su una materialità non umana e non può essere limitato a una forma di indagine biologica. In questo senso, l’ecologia futura acquista un nuovo significato: “Questa nuova ecologia non può essere ridotta a nessuno dei suoi elementi costitutivi (biologici o artificiali) e quindi non può essere spiegata osservando le proprietà isolate di persone o cose. La sfida per l’archeologia, a questo riguardo, è rivelare e articolare la varietà di forme che l’estensione cognitiva può assumere e la diversità delle relazioni di feedback tra gli oggetti e il cervello incarnato a mano a mano che si realizzano in periodi e contesti culturali diversi” (82). Malafouris sostiene, quindi, che questa ecologia dovrebbe essere intesa come il risultato dell’”embedment” (inserimento nell’ambiente fisico e sociale) del cervello umano. “Il termine embedment”, scrive Malafouris (2010: 52), “deriva dalla fusione dei termini embodiment (incorporazione), riferito alla relazione intrinseca tra cervello e corpo, ed embeddedness (integrazione), che descrivono la relazione intrinseca tra cervello/corpo e ambiente”.
Per concludere su questo punto e tornare alla nostra discussione iniziale, possiamo rilevare che gli approcci di Smail e Malafouris alla relazione cervello/ambiente non sono “strettamente” biologici ma includono, come elemento centrale, la materialità inorganica delle cose. Come afferma Smail (2008: 64): “Le grandi discipline storiche, incluse la geologia, la biologia evoluzionistica, l’etologia, l’archeologia, la linguistica storica e la cosmologia dipendono tutte da prove che vengono estratte da quelle che potremmo definire, nell’accezione più vasta, «cose». Blocchi di rocce, fossili, DNA mitocondriale, isotopi, modelli comportamentali, cocci di vasellame, fonemi: tutte queste cose racchiudono informazioni sul passato.” “La storia” prosegue “è qualcosa che accade alle persone, alle cose, agli organismi, e non qualcosa che è fatto da essi” (73).
La storia profonda, unita all’archeologia della mente, o “neuroarcheologia”, estenderebbe quindi i limiti del “cervello” ben oltre la riflessività e la coscienza, anche ben oltre la “storicità”. In quanto archeologica, la relazione cervello/ambiente è già anche geologica. Resta chiaro, tuttavia, che Chakrabarty non sarebbe del tutto persuaso da un’argomentazione simile. Anche se non antropocentrico, anche se orientato alla cosa e alla materia inorganica, anche se include al suo interno un tipo di interazione neutrale, a-riflessiva, non rappresentativa e assemblaggi cognitivi, il punto di vista congiunto della storia profonda e dell’archeologia della mente considera ancora l’“umano” come un punto di partenza. Il processo di ominizzazione è ovviamente inseparabile da una prospettiva evolutiva. La prospettiva di Chakrabarty è molto vicina a quella espressa dal filosofo francese Quentin Meillassoux nel suo libro Dopo la finitudine. Meillassoux sostiene un approccio “non correlazionista” al “reale”, che non intende affatto fondarsi sulla relazione soggetto-oggetto ed evita del tutto di porre la presenza dell’umano sulla terra come punto di partenza. Esiste una modalità di esplorazione del passato profondo (del passato estremamente profondo) che non considera nemmeno l’emergere della vita in generale come un “inizio”. Il passato profondo, quindi, diventa una “atavicità” priva di qualsiasi “avo”, una “ancestralità” senza “antenati”: “chiamiamo ancestrale”, scrive Meillassoux (2008: 23), “ogni realtà anteriore all’apparizione della specie umana, ed anche anteriore ad ogni forma di vita rinvenuta sulla Terra”. L’archivio, qui, non è l’oggetto, nemmeno la cosa, nemmeno il fossile, ma quello che Meillassoux chiama l’arcifossile:
chiamiamo arcifossile, o materia fossile, non tanto quei materiali indicanti delle tracce di vita passata che sono i fossili in senso proprio, ma piuttosto i materiali che indicano l’esistenza di una realtà o di un avvenimento ancestrale, anteriore alla comparsa della vita sulla Terra. Un arcifossile è dunque il supporto materiale a partire dal quale si compie la sperimentazione che dà luogo alla valutazione di un fenomeno ancestrale – per esempio, un isotopo di cui si conosce la velocità di decadimento radioattivo, o l’emissione luminosa di una stella in grado di fornirci delle informazioni sul momento della sua formazione. (23-24)
Per Meillassoux, la Terra è del tutto indifferente alla nostra esistenza, anteriore a qualsiasi forma di presenza umana, sia essa neurale o sia essa neutrale.
Di nuovo, queste affermazioni risuonano con l’affermazione di Chakrabarty secondo cui la nozione di “geologico”, nel termine agente geologico, rimane per sempre al di fuori dell’esperienza umana. “Ma come può uno storico sociale scrivere una storia umana di una vasta estensione di neve e ghiaccio inabitata e inabitabile”, chiede parlando dell’Antartico (Chakrabarty 2012: 11). Un soggetto non correlato non può accedere a sé stesso come non correlato. “Non potremo avere mai esperienza di noi stessi in quanto forza geofisica – anche se ora sappiamo che è una delle modalità della nostra esistenza collettiva” (12). L’analisi di Chakrabarty aggiunge un elemento importante alla tesi di Meillassoux quando tiene conto dell’esperienza dell’impossibilità di esperire il “non correlazionismo”. Possiamo concettualizzarlo ma non esperirlo.
Chi è questo “noi”? Noi esseri umani non viviamo mai noi stessi come specie. Possiamo comprendere intellettualmente o inferire l’esistenza della specie umana, ma non averne un’esperienza diretta. Non ci potrebbe essere nessuna fenomenologia di noi in quanto specie. Anche se ci identificassimo emotivamente con una parola come umanità, non potremmo sapere cos’è una specie poiché, nel contesto di una storia delle specie, gli umani sarebbero solo un’espressione particolare di tale concetto, come peraltro lo sarebbe una qualsiasi forma di vita. Ma non si fa esperienza di sé in quanto concetto. (Chakrabarty 2009: 92)
A questo punto si affaccia una grossa questione, rilanciando la discussione e tornando all’analisi di Smail. Primo, non comprendiamo cosa può essere una specie al di fuori del punto di vista biologico. Perché mantenere quel termine? Secondo, non capisco perché il fatto di diventare una forma geologica debba rimanere del tutto concettuale, senza produrre una sorta di fenomeno mentale. “La storia dei climatologi ci ricorda […] che ora abbiamo anche una modalità di esistenza in cui noi – collettivamente e in quanto forza geofisica, e in modi di cui non possiamo avere esperienza diretta – siamo “indifferenti” o “neutrali” (non voglio dire che questi siano stati mentali o sperimentati) riguardo a questioni di giustizia interumana” (Chakrabarty 2012: 54-55; corsivo dell’Autrice). Prima di arrivare alle conseguenze politiche di una simile affermazione, vorrei chiedere precisamente perché non potremmo essere capaci di sperimentare mentalmente e psichicamente l’indifferenza e la neutralità che sono diventate parte della nostra natura. Privata di ogni empiricità, effetto mentale o psichico, l’assunzione dell’umano come forza geologica resta un puro argomento astratto e, in tal senso, appare come una struttura ontologica o metafisica. Proprio come Meillassoux, Chakrabarty finisce per non riuscire a empiricizzare la struttura stessa che dovrebbe, per così dire, detrascendentalizzare l’empirico. Perché dovrebbe esserci un luogo intermedio dell’esperienza tra la coscienza e la sospensione della coscienza?
È qui che il cervello richiede il riconoscimento! Non è, forse, proprio il cervello, su cui Chakrabarty tace, a essere un intermediario essenziale tra lo storico, il biologico e il geologico? Quel luogo dell’esperienza che stiamo cercando?
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Questo ci riporta a Smail e a uno degli aspetti più importanti e interessanti della sua analisi, la teoria della dipendenza. Smail insiste sul fatto che la costante interazione tra il cervello e l’ambiente è essenzialmente basata su alterazioni del sistema corpo-cervello. Il cervello si mantiene nel suo ambiente mutevole diventandone dipendente, interpretando la “dipendenza” in senso proprio come una “psicotropia”, una trasformazione o alterazione significativa della psiche. Questi effetti di alterazione derivano dall’azione di neurotrasmettitori quali “testosterone, androgeni, estrogeni, serotonina, dopamina, endorfine, ossitocina, prolattina, vasopressina, adrenalina (epinefrina) e così via. Prodotte nelle ghiandole dell’apparato endocrino diffuso nel corpo e nelle sinapsi del cervello, queste sostanze chimiche facilitano o bloccano i segnali che attraversano le reti neurali” (Smail 2008: 128). Tali sostanze chimiche, che determinano le emozioni, i sentimenti e gli affetti in generale, possono essere modulate in base alle esigenze dell’adattamento comportamentale che rendono possibile. L’adattamento, qui, è bilaterale. Naturalmente è adattamento al mondo esterno, ma è anche adattamento del cervello alle proprie modificazioni.
Tutti i cambiamenti importanti nella storia profonda, come il passaggio da un’epoca all’altra, hanno sempre prodotto nuovi processi di dipendenza e modulazioni chimiche dello stato corporeo:
Un modello neurostorico offre un paradigma esplicativo ugualmente imponente, e avanza la tesi che una parte della direzione che ci sembra di percepire nella storia recente sia stata creata dai continui esperimenti condotti a partire dai nuovi meccanismi psicotropi sviluppatisi sullo sfondo evolutivo della neurofisiologia umana. La rivoluzione neolitica, avvenuta tra 10000 e 5000 anni fa, ha trasformato l’ecologia umana e ha condotto a cambiamenti profondi e irreversibili nella demografia, nella politica, nella società e nell’economia. In questa ecologia in cambiamento, nuovi meccanismi per modulare gli stati corporei sono nati attraverso i processi di un’evoluzione culturale non controllata da nessuno. (200-201)
Dobbiamo comprendere che:
L’espansione delle calorie disponibili per il consumo umano, l’addomesticamento degli animali utili come fonti di energia, la pratica della sedentarietà, la densità crescente degli insediamenti umani – questi sono stati i cambiamenti tipici della rivoluzione neolitica in ogni parte del mondo nella quale l’agricoltura è stata inventata in modo parallelo e indipendente: Mesopotamia, Cina, Mesoamerica e altri siti ancora. Tutti questi cambiamenti, in effetti, hanno creato un nuovo ecosistema neurofisiologico, un campo di adattamento evolutivo nel quale le usanze e le abitudini che generano nuove configurazioni neurali o che alterano gli stati del sistema corpo-cervello hanno potuto evolversi in modi imprevedibili. (169)
Da ciò, conclude Smail, “la civiltà non ha posto fine alla biologia” (169). Ancora una volta, la storia profonda rivela la profonda interazione tra natura e storia attraverso la mediazione del cervello come adattatore sia biologico sia culturale. Le pratiche umane alterano o influenzano la chimica del sistema corpo-cervello e, in cambio, la chimica del sistema corpo-cervello altera o influenza le pratiche umane. Il potere epigenetico del cervello agisce come intermediario tra il suo passato profondo e l’ambiente.
“Le pratiche, i comportamenti e le istituzioni psicoattive prodotte dalla cultura umana sono ciò cui faccio riferimento, collettivamente, con la definizione di meccanismi psicotropi”, spiega Smail. “Psicotropo è una parola forte ma non del tutto inappropriata, poiché questi meccanismi hanno effetti neurochimici che non sono completamente diversi da quelli provocati dalle droghe che normalmente chiamiamo psicotrope o psicoattive” (175). Inoltre, “esistono diversi tipi di psicotropia: cose che facciamo e che incidono sullo stato d’animo di altri; cose che facciamo a noi stessi; cose di cui ci nutriamo” (177). Qui è possibile distinguere tra psicotropi autotropici e allotropici, cioè sostanze e pratiche che creano dipendenza agendo sul sé e pratiche che creano dipendenza agendo su altre pratiche di dipendenza politica. Tra i primi ci sono “caffè, zucchero, cioccolato e tabacco” (193), che iniziarono a circolare per la prima volta in Europa nel XVII e XVIII secolo. “Tutti questi prodotti possono dare moderata dipendenza e possedere proprietà psicoattive” (193). A questi si aggiungeranno in seguito alcol e droghe.
Smail ricorda che il significato attuale del termine dipendenza (addiction) emerse alla fine del XVII secolo. “In precedenza, la parola aveva indicato lo stato di dipendenza o di indebitamento che legava una persona a un’altra – a un lord, per esempio, oppure forse al diavolo” (197). Questo antico significato ci aiuta a capire cosa costituisce l’allotropia. Meccanismi chimici psicotropi di dipendenza possono anche essere indotti nei soggetti attraverso l’abuso di potere e l’eccesso di dominio. Lo stress e gli stati affettivi più generali di dipendenza, quelli che Baruch Spinoza chiama “passioni tristi”, sono aspetti essenziali della psicotropia, generati in contesti di dominio. Il punto di sovrapposizione tra modularità e cambiamento coincide proprio con il punto di sovrapposizione tra biologia e politica: “gli esseri umani possiedono stati neurali e una serie di particolarità chimiche relativamente plastiche e manipolabili”, tali che “le emozioni e le predisposizioni ereditate dal passato ancestrale” possono essere “violate, manipolate o modulate” (Smail 2008: 132).
Secondo Smail, i processi autotropici e allotropici di dipendenza indicano automaticamente il punto di indistinguibilità tra biologia (sostanze e meccanismi chimici) e cultura (essere-nel-mondo). Ritroviamo l’idea che il cervello sia il mediatore tra le due dimensioni della storia (profonda): quella naturale e quella culturale.
Come possiamo estendere queste osservazioni alla situazione attuale? In primo luogo, ci portano ad ammettere che solo nuove dipendenze ci aiuteranno ad attenuare gli effetti del cambiamento climatico (mangiare in modo diverso, viaggiare in modo diverso, vestirsi in modo diverso ecc.). I processi di dipendenza hanno in gran parte causato l’Antropocene e solo nuove dipendenze saranno in grado di contrastarli in parte. In secondo luogo, ci costringono a elaborare un concetto rinnovato di soggetto dipendente, di coscienza sospesa e di libertà intermittente. Terzo, ci permettono di sostenere che la neutralità di cui parla Chakrabarty non è concepibile al di fuori di una nuova psicotropia, un’esperienza mentale e psichica della disaffezione dell’esperienza. Una tale psicotropia colmerebbe, precisamente, il divario tra la struttura trascendentale della dimensione geologica dell’umano e la disaffezione pratica della riflessività storica. Il soggetto dell’Antropocene non può che diventare dipendente dalla propria indifferenza, dipendente dal concetto che è diventato. E questo accade nel cervello.
Il tema di una narcolessia della coscienza, tanto come causa quanto come effetto della distruzione tecnologica della natura, era già stato suggerito in modo interessante e importante da Marshall McLuhan. La sua analisi sembra adattarsi perfettamente al quadro dell’attuale crisi ecologica. Lo sviluppo tecnologico, secondo il suo punto di vista, coincide con un’estensione del sistema nervoso fino ai limiti del mondo: “Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici,” scrive, “il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. Nelle ere della meccanica, avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio.” (McLuhan 1967: 19). L’estensione del sistema nervoso al mondo ha un duplice effetto contraddittorio, fungendo da antidolorifico (“revulsivo”) nella misura in cui sopprime ogni alterità e, allo stesso tempo e per lo stesso motivo, agendo come una potenza distruttiva. Tale è la struttura della nostra “cultura narcotica”. Ogni dispositivo tecnologico è un prolungamento del cervello e dell’organismo e McLuhan caratterizza questo prolungamento come un processo di “autoamputazione” che aiuta ad abbassare la pressione e crea ansia, mettendo così all’opera un’economia del piacere come “torpore”.
Si potrebbe obiettare che il mondo di cui parla McLuhan, il mondo nel quale il sistema nervoso estende i suoi confini, è un’immagine, una superficie riflettente, mentre la scissione che Chakrabarty analizza come separazione tra l’umano come agente storico e l’umano come forza geologica mette a confronto due entità eterogenee che non possono riflettersi affatto. Tuttavia, se osserviamo da vicino quanto dice McLuhan sul rispecchiamento, sul narcisismo e sulla proiezione della propria immagine, vediamo che la riflessione è per lui immediatamente sospesa da una pietrificazione spontanea, una geologizzazione sia dello sguardo sia dell’immagine. Sul mito di Narciso, McLuhan scrive (McLuhan 1967: 62; traduzione leggermente modificata): “in quanto revulsivo, l’immagine produce un torpore generale o uno shock che impedisce il riconoscimento. L’amputazione di sé vieta il riconoscimento di sé”. L’indifferenza e la neutralità, ancora una volta, possono essere fenomeni mentali, anche quando le loro manifestazioni possono sembrare totalmente estranee a qualsiasi struttura mentale o interiore. Di nuovo, non credo che la neutralizzazione della coscienza dovuta alla sua “geologizzazione” possa avvenire senza l’intermediazione dei processi del cervello risultanti dalla sua interazione con il mondo. In effetti, ho cercato di mostrare altrove che l’indifferenza è diventata la corrente Stimmung globale, cioè sintonia o affetto (Malabou 2012).
Tale indifferenza, questa interruzione di coscienza o di consapevolezza, sfida direttamente il concetto di responsabilità, che è ovviamente centrale nel nostro dibattito. Come possiamo sentirci genuinamente responsabili per ciò che abbiamo fatto alla Terra se un’azione del genere è il risultato di un torpore – assuefatto e assuefacente – della responsabilità? Sembra impossibile produrre una genuina consapevolezza della dipendenza (la consapevolezza della dipendenza è sempre una forma dipendente di consapevolezza). Solo l’impostazione di nuove dipendenze può aiutare a rompere quelle vecchie. L’ecologia deve diventare una nuova economia libidinale.
Queste sono alcune delle questioni delle quali i discorsi politici sui cambiamenti climatici, come dimostrato in conferenze quali la recente ventunesima sessione della Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Parigi, non tengono veramente conto. Il più delle volte, il discorso ecologico ufficiale è ancora solo un discorso sulla consapevolezza e la responsabilità. Ciò ovviamente non significa che l’essere umano non sia responsabile del riscaldamento globale. Tuttavia, il tipo di responsabilità richiesto dall’Antropocene è estremamente paradossale e difficile nella misura in cui implica il riconoscimento di una paralisi essenziale di responsabilità.
Chakrabarty sosterrebbe senza dubbio che questi ultimi sviluppi rimangono intrappolati nella cornice correlazionista. Sarebbero ancora umani, troppo umani. Non lasciano da parte la questione della natura in quanto tale per prendere in considerazione solo il potere tecnoscientifico dell’umanità e le sue cause e conseguenze psicotrope?
Il concetto tradizionale di storia, scrive Chakrabarty, implica il disconoscimento del fatto che la natura può avere una storia. Presuppone uno stretto confine tra i fatti contingenti puri (naturali) e gli eventi intesi come azioni degli agenti. Benedetto Croce, per esempio, afferma che “non esiste altro mondo che il mondo umano” (Chakrabarty 2009: 59-60). Lo storico francese Fernand Braudel, nel suo libro Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), si è ovviamente ribellato a tale visione tenendo conto della temporalità specifica dell’ambiente naturale mediterraneo, del suolo, della biosfera e così via. Tuttavia, questo tempo della natura è ancora inteso come puramente ripetitivo e meccanico, privato di qualsiasi agency o potere finale; è “una storia fatta spesso di ritorni insistenti, di cicli incessantemente ricominciati” (Chakrabarty 2009: 62). Una tale visione non è più sostenibile, perché l’età dell’Antropocene insegna qualcosa già diffuso nella “letteratura del riscaldamento globale”: “L’ambiente nel suo complesso può a volte raggiungere un punto di non ritorno oltre il quale questo sfondo dell’agire umano, apparentemente immobile e senza tempo, si trasforma con una velocità che non può che avere conseguenze disastrose per gli esseri umani” (Chakrabarty 2009: 63).
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Come rispondere a ciò? È ovvio che Braudel non ha tematizzato e nemmeno percepito la storicità della natura, la sua mutevolezza e capacità di trasformarsi. In Civiltà e imperi (Braudel 1949), l’analisi del clima è decisamente scarsa, in quanto Braudel non dice una parola, o almeno nulla di significativo, sull’ecologia. In questo senso, Chakrabarty ha ragione a sfidare la visione ciclica del tempo naturale che ancora governa la nozione che ha Braudel del tempo e dello spazio della natura. Mi sembra, tuttavia, che Chakrabarty non veda quanto Braudel possa comunque essere d’aiuto per la nostra discussione. È vero che quello che Braudel chiama il “tempo geostorico”, il tempo naturale arcaico, non cambia. Il tempo “a lunghissimo termine”, fatto di migliaia di anni, il tempo geologico vero e proprio, sembra privo di ogni capacità di trasformarsi. Colpisce, però, notare che gli altri due livelli che Braudel distingue, quello del tempo economico e sociale (tempo intermedio) e quello dell’evento (tempo di breve durata), sono anch’essi contaminati dall’immobilità del primo livello. Ed ecco il punto interessante. Braudel forse non ha tenuto conto della forza storica della natura, ma certamente ha percepito molto presto e accuratamente l’irrevocabile naturalizzazione della storia umana, cioè del tempo economico, politico e sociale. Descrisse meglio di chiunque altro la narcolessia della temporalità storica, tanto da essere accusato di depoliticizzarla.
Decostruendo il privilegio dell’evento, Braudel ha mostrato che un principio geologico, quello di una lenta forza cieca, operava in tutti gli strati del tempo. In tal senso, ha anticipato qualcosa della situazione attuale, nella misura in cui ha annunciato che la coscienza storica doveva riconoscere la propria naturalizzazione e sospensione entrando nel regno dell’immobilità. In questo senso, ciò che Chakrabarty vede come una conseguenza (l’uomo trasformato in una forza geologica a causa del cambiamento climatico e dell’ingresso nell’Antropocene), Braudel lo vede come un inizio (la storia è sempre andata a rilento, preparandosi così alla propria neutralizzazione a opera della natura). Ciò che Braudel ha detto sul capitalismo è estremamente interessante a questo riguardo. Ha sostenuto che la vita materiale progredisce per mezzo di “lente evoluzioni”. I progressi avvengono “molto lentamente attraverso lunghi periodi per iniziativa di gruppi di uomini, non di individui […], e in innumerevoli modi vari e oscuri” (Braudel 1967: xi; trad. mia dalla introduzione all’edizione americana). Grandi rivoluzioni tecniche si insinuano nella società “con difficoltà e lentezza […] parlare di rivoluzione è solo un modo di dire. Nessuna si realizzò rapidamente” (357).
Si potrebbe obiettare ancora che la temporalità di lunga durata presuppone un’essenziale passività e immutabilità della natura, che non può rendere conto di un’improvvisa costituzione della natura come agente storico, quale quella a cui stiamo attualmente assistendo con l’Antropocene. Questo è vero. Il problema, però, come abbiamo sempre visto, è che avvicinarsi alla forza storica della natura porta paradossalmente a rallentare, ad affrontare la sospensione della coscienza, il torpore e l’inerzia delle nostre responsabilità. È, in un certo senso, come uno scambio di ruoli, la natura che diventa storica e l’anthropos che diventa naturale. Questo scambio costituisce una nuova forma di esperienza umana, che Braudel ci aiuta a concettualizzare.
La terza generazione della École des Annales in Francia – Marc Ferro, Jacques Le Goff ed Emmanuel Le Roy Ladurie – accrebbe ancora il ruolo svolto dalla temporalità a lunghissimo termine. Come dichiara uno di loro: “Il tempo è pienamente umano, eppure è immobile come l’evoluzione geografica” (Dosse 198: 165; citando Aries). L’opera di Braudel si è trovata ampliata e prolungata dall’introduzione di un importante concetto emerso a quel tempo nella scienza storica, quello di “mentalità”, più vicino a una dimensione psicologica che intellettuale. Il riconoscimento del tempo lento, o della temporalità di lunga durata, ha lasciato il posto a una “storia delle mentalità” (histoire des mentalités). Basata sulla “cultura materiale”, cioè sulle somiglianze tra i ritmi della mente e i cicli naturali, la storia delle mentalità ha fornito ai suoi lettori descrizioni e analisi di usi, ripetizioni, abitudini e rappresentazioni. Philippe Aries (1981) ha affermato che la storia delle mentalità si situa “al limite del biologico e del culturale” (Aries 1981: 255).
Come abbiamo già notato, questo punto di sovrapposizione tra il biologico e il sociale non significa che il biologico debba essere preso come punto di partenza o che l’essere umano come essere vivente debba diventare l’origine della ricerca storica. La storia della mentalità comprende anche, come dimensione essenziale, la materialità della natura inorganica, il suolo, le rocce, le montagne, i fiumi, la terra. Una mentalità è un concetto ibrido che comprende non solo lo psichico e il sociale, ma anche la somiglianza originaria della mente e del fossile, l’iscrizione della naturalità nel pensiero e nel comportamento. La mentalità, in questo senso, è radicata nel cervello e non nella coscienza. “L’umano ridotto al suo «mentale» è l’oggetto più che il soggetto della sua stessa storia” (Dosse 1987: 206). Jean Delumeau (1990), autore dell’importante La paura in Occidente. Storia della paura nell’età moderna, scrive, giocando con il senso multiplo del termine naturale: “la paura è naturale” (Delumeau 1990: 18). Come conseguenza di tutte le analisi precedenti, possiamo considerare la storia delle mentalità come la prima forma di studi ambientali in Francia. Nuove storie della mentalità, che riunissero le attuali dimensioni geologica, biologica e culturale della (non) consapevolezza storica, potrebbero aprire un nuovo capitolo dello studio sull’Antropocene?
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Ciò che mi sembra contestabile nel lavoro di Chakrabarty è la pretesa impossibilità di una fenomenologia del divenire geologico dell’umano. Questa “specie” umana rimane un puro concetto vuoto fino a quando non può essere riempito di intuizione, cioè di contenuto empirico e sensuale, se non di consapevolezza. Un concetto di mentalità rinnovato e rielaborato potrebbe proprio aiutare a fornire il contenuto mancante di questa forma. Esiste necessariamente un effetto mentale del torpore e della paralisi della coscienza, un effetto mentale della nuova struttura narcolettica della riflessione (impossibile) dell’umanità su sé stessa. Abbiamo visto, con Smail e McLuhan, che questo effetto mentale è in primo luogo neurale. Ancora una volta, non si tratta di pensare il cervello “nel” suo ambiente; si tratta di vedere il cervello come un ambiente, come un luogo metabolico. Pertanto, preferisco usare il termine mentale piuttosto che neurale, perché mentale evoca immediatamente la fusione e la mescolanza di diversi registri di materialità. In questo senso, l’abituarsi alla nuova condizione dell’essere umano come agente geologico richiederà naturalmente una nuova mentalità, cioè nuove dipendenze, nuovi adattamenti fisici a una corporeità inorganica e terrena, una nuova storia naturale. Una storia, ancora, comunque.
La lettura di Braudel e dei suoi seguaci ci aiuta a percepire che la narcolessia della coscienza costituisce una dimensione irriducibile della storia. La temporalità di lunga durata, l’immobilità e l’evoluzione molto lenta mostrano che la storia profonda è sempre stata iscritta nel cuore della storia, come questo torpore del tempo e dell’azione che sottopone l’evoluzione culturale a un ritmo geofisico. Braudel forse non è un pensatore del cambiamento climatico, ma è un grande teorico di una nuova forma di marxismo che lega la critica del capitale allo studio dell’irriducibile naturalità, neutralità e passività del tempo. Le critiche indirizzate agli storici della lunga durata e delle mentalità sono state le stesse che attualmente sono indirizzate a Chakrabarty, tutte rivolte, in entrambi i casi, a una presunta depoliticizzazione della storia. François Dosse (1987: 258) ha scritto che con la École des Annales, alla fine, “la storia ha negato sé stessa”. Avrebbe voluto che “l’evento” potesse tornare per svegliare il tempo dal suo sonno geologico… Non poteva prevedere che, con l’Antropocene, la temporalità di lunga durata avrebbe acquisito proprio lo status di evento, dando il via al tentativo di pensare l’ecologia e la politica in modo diverso.
CATHERINE MALABOU DOCENTE PRESSO IL CENTRE FOR RESEARCH IN MODERN EUROPEAN PHILOSOPHY (CRMEP) DELLA KINGSTON UNIVERSITY. LA SUA RICERCA, DI PORTATA MOLTO AMPIA, SPAZIA DALLE NEUROSCIENZE ALLA FILOSOFIA, DALLA PSICANALISI AL FEMMINISMO.
MATTEO VAVASSORI (MATTEO_VAVASSORI@HOTMAIL.IT), LAUREATO IN FILOSOFIA, LAVORA DA ANNI COME REDATTORE SCIENTIFICO A MILANO, COLTIVANDO IN MANIERA DISPERSIVA SVARIATE PASSIONI LIBRESCHE.
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