Tutti gli esseri viventi pensano, non solo gli umani. La rappresentazione, l’intenzione e lo scopo nelle loro forme piú elementari sono caratteristiche intrinseche e strutturanti delle dinamiche viventi all’interno del mondo biologico. La vita è intrinsecamente semiotica.
IN COPERTINA e nel testo, un’opera di vincent van gogh
Questo testo è tratto da Come pensano le foreste di Eduardo Kohn. Ringraziamo nottetempo editore per la gentile concessione.
di Eduardo Kohn
Traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri
In effetti, Funes, ricordava non solo ogni foglia di ogni albero di ogni bosco, ma ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. […] Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Pensare significa dimenticare differenze […].
Jorge Luis Borges, Funes, l’uomo della memoria
Quando accadde, Amériga e Luisa erano a portata di voce e stavano raccogliendo radici velenose per la pesca nei fitti boschetti che in passato erano stati i loro orti. Ormai a casa, mentre parlavano con Delia e bevevano ciotole di birra di manioca, Luisa iniziò a imitare l’abbaiare frenetico dei cani di famiglia – Pukaña o Muso Rosso, il loro preferito, Kuki, la sua vecchia compagna, e Wiki – che aveva sentito attraverso la boscaglia: “wa’ wa’ wa’ wa’ wa’ wa’ wa’ wa’ wa’”, come fanno quando seguono una preda. Subito dopo li aveva sentiti abbaiare, “ya ya ya ya”, pronti ad attaccare. Poi era successo qualcosa di molto inquietante. I cani avevano iniziato a guaire, “aya–i aya–i aya–i”, il che indicava che erano stati attaccati e che stavano soffrendo molto.
“E poi, piú niente,” osservò Luisa. “Sono diventati semplicemente silenziosi”.
chun
-->silenzio
Com’è possibile che le cose fossero cambiate cosí all’improvviso? Per le donne, la risposta implicava immaginare in che modo i cani capivano, o meglio, non riuscivano a capire il mondo circostante. Riflettendo sulle prime due serie di latrati, Luisa osservò: “È quello che avrebbero fatto se si fossero imbattuti in qualcosa di grosso”. È quello che avrebbero fatto, cioè, se si fossero imbattuti in un grande animale selvatico. Luisa ricordò di essersi chiesta: “Stavano abbaiando a un cervo?” Il che avrebbe avuto senso. Solo qualche giorno prima, i cani avevano scovato, attaccato e ucciso un cervo. E stavamo ancora mangiando la sua carne.
Ma che genere di creatura potrebbe apparire ai cani come una preda per poi rivoltarsi contro di loro? Le donne conclusero che c’era una sola spiegazione possibile; i cani dovevano aver confuso un puka puma (un leone di montagna o puma, Puma concolor) con un cervo rosso. Entrambi hanno piú o meno le stesse dimensioni e lo stesso mantello fulvo. Luisa provò a immaginare cosa stessero pensando: “Sembra un cervo, mordiamolo!”
Senza troppi giri di parole, Delia sintetizzò la propria frustrazione per la confusione dei cani: “Cosí tanto stupidi”. Amériga aggiunse: “Com’è possibile che non lo sapessero? Come hanno potuto pensare [di abbaiare], ‘yaw yaw yaw’, come se stessero per attaccarlo?”
Il significato di ogni latrato era chiaro, visto che questi latrati fanno parte di un esauriente lessico di vocalizzazioni canine che la gente di Ávila sente di conoscere. Ciò che era meno ovvio era quello che, dal punto di vista dei cani, li aveva spinti ad abbaiare in quel modo. Immaginare che i cani non fossero riusciti a distinguere tra un leone di montagna e un cervo, e prendere in considerazione le tragiche conseguenze di questa confusione – i cani hanno appena visto qualcosa di grosso e fulvo e lo hanno attaccato – richiedeva di pensare al di là delle azioni specifiche dei cani e domandarsi in che modo quello che avevano fatto fosse motivato dalla loro comprensione del mondo circostante. La conversazione iniziò a girare intorno alla domanda: come pensano i cani?
Questo articolo sviluppa l’idea che tutti gli esseri viventi, e non solo gli umani, pensano, e ne esplora un’altra a essa strettamente correlata, quella secondo cui tutti i pensieri sono vivi. Questo articolo riguarda “il pensiero vivente”. Cosa significa pensare? Cosa significa essere vivi? Perché queste due domande sono correlate e in che modo il nostro approccio a esse, specialmente se pensate nei termini delle sfide poste dal relazionarsi con altri generi di esseri, cambia la nostra comprensione della relazionalità e dell’“umano”?
Se i pensieri sono vivi e se ciò che vive pensa, allora forse il mondo vivente è incantato. Quello che intendo è che il mondo oltre l’umano non è un mondo privo di significato che solo gli esseri umani renderebbero significante. Piuttosto, le intenzioni-significati [mean-ings] – le relazioni tra mezzi e fini, le aspirazioni, gli scopi, il telos, gli intenti [intentions], le funzioni e la significanza – emergono in un mondo di pensieri viventi oltre l’umano, attraverso modalità che non si esauriscono completamente nei nostri tentativi troppo umani di definirle e controllarle. Piú precisamente, le foreste intorno ad Ávila sono animate. Ovvero, queste foreste ospitano altri loci emergenti di intenzioni-significati che non ruotano necessariamente intorno agli umani e che non provengono da essi. È qui che voglio arrivare quando sostengo che le foreste pensano. È verso l’analisi di tali pensieri che ora si rivolgerà quest’antropologia oltre l’umano.
Se i pensieri esistono oltre l’umano, allora noi umani non siamo gli unici sé in questo mondo. In breve, non siamo l’unico genere di noi. L’animismo, l’incantamento di questi loci altro-che-umani, è piú di una credenza, di una pratica incarnata o di una cartina al tornasole per le nostre critiche alle rappresentazioni meccanicistiche occidentali della natura, sebbene sia anche tutte queste cose. Quindi, non dovremmo solo chiederci come alcuni umani giungano a rappresentare altri esseri o entità in quanto animati; dobbiamo anche valutare, in modo piú ampio, cosa c’è in loro che li rende animati.
Se la gente di Ávila vuole riuscire a penetrare le logiche relazionali che creano, collegano e sostengono gli esseri della foresta, deve in qualche modo riconoscere quest’animità [animacy] elementare. L’animismo runa, quindi, è un modo di prestare attenzione ai pensieri viventi in un mondo che amplifica e rivela importanti proprietà della vita e del pensiero. È una forma di pensiero sul mondo che trae origine da un’interazione intima e localizzata in un luogo specifico con dei pensieri-nel-mondo, attraverso modalità che rendono visibili alcuni dei loro attributi distintivi. Prestare attenzione a queste interazioni con i pensieri viventi del mondo può aiutarci a pensare diversamente l’antropologia. Può aiutarci a immaginare una serie di strumenti concettuali per analizzare i modi in cui le nostre vite vengono modellate dalla vita che conduciamo in un mondo che si estende oltre l’umano.
I cani, per esempio, sono dei sé perché pensano. Tuttavia, e in maniera del tutto controintuitiva, la prova che pensano è il fatto che, per riprendere le parole di Delia, possano essere “cosí tanto stupidi” – cosí indifferenti, cosí ottusi. Il fatto che i cani siano ritenuti capaci di confondere un leone di montagna con un cervo suggerisce una domanda importante: perché l’indifferenza, la confusione e l’oblio sono tanto centrali nelle vite dei pensieri e in quelle dei sé che li ospitano? Nel pensiero vivente, la strana e produttiva capacità di confondersi mette in discussione alcuni dei nostri assunti basilari sui ruoli che la differenza e l’alterità da un lato, e l’identità dall’altro giocano nella teoria sociale. Il che può aiutarci a ripensare la relazionalità e condurci oltre la tendenza ad applicare i nostri assunti sulla logica della relazionalità linguistica a tutti i possibili modi in cui i sé si relazionano.
I sé non umani
Chiaramente le donne sentivano di poter interpretare l’abbaiare dei cani, ma non è questo a far sí che li riconoscano come dei sé. Ciò che rende i cani dei sé è il fatto che i loro latrati siano una manifestazione della loro interpretazione del mondo circostante. E la maniera in cui i cani interpretano il mondo che li circonda, le donne ne erano ampiamente consapevoli, è di vitale importanza. Noi umani, quindi, non siamo i soli a interpretare il mondo. Il “riguardare qualcosa” [aboutness] – la rappresentazione, l’intenzione e lo scopo nelle loro forme piú elementari – è una caratteristica intrinseca e strutturante delle dinamiche viventi all’interno del mondo biologico. La vita è intrinsecamente semiotica.
Questa caratteristica intrinsecamente semiotica si applica a tutti i processi biologici. Si prenda per esempio il seguente adattamento [adaptation] evolutivo: il muso allungato del formichiere gigante e la sua lingua. Il formichiere gigante, o tamanuwa, come viene chiamato ad Ávila, può essere letale se si sente minacciato. Durante la mia permanenza ad Ávila, un uomo è stato quasi ucciso da un formichiere gigante (si veda il capitolo 6), e si dice che persino i giaguari se ne tengano ben lontani (si veda il capitolo 3). Ma il formichiere gigante è anche etereo. In un tardo pomeriggio ne scorsi fugacemente uno, lontano nella foresta, mentre con Hilario e Lucio ci stavamo riposando sopra un tronco su un crinale che sovrasta il Rio Suno. La sua immagine mi colpisce ancora oggi: la sagoma di una testa affusolata, un corpo tarchiato e un’enorme coda a ventaglio, i cui lunghi peli lasciavano passare gli ultimi raggi di sole del pomeriggio.
I formichieri giganti si nutrono esclusivamente di formiche. Lo fanno infilando i musi allungati nei tunnel dei formicai. La specifica forma del muso e della lingua del formichiere coglie determinate caratteristiche del suo ambiente, ovvero la forma dei tunnel delle formiche. Quest’adattamento evolutivo è un segno nella misura in cui la generazione successiva lo interpreta (in modo molto fisico, poiché qui non c’è coscienza o riflessione) rispetto a ciò che il segno riguarda (ovvero, la forma dei tunnel delle formiche). Questa interpretazione, a sua volta, si manifesta nello sviluppo del corpo del successivo organismo in un modo che incorpora questi adattamenti. Questo corpo (con i suoi adattamenti) funziona come un nuovo segno che rappresenta le caratteristiche dell’ambiente, nella misura in cui sarà a sua volta interpretato come tale dalle successive generazioni di formichieri attraverso l’eventuale sviluppo dei loro corpi.
Nel corso delle generazioni, i musi dei formichieri sono arrivati a rappresentare con precisione sempre maggiore alcune caratteristiche della geometria dei formicai, perché quei lignaggi di “protoformichieri”, i cui musi e le cui lingue avevano catturato in modo meno accurato le caratteristiche ambientali rilevanti (per esempio, la forma dei tunnel delle formiche), non sono sopravvissuti. Rispetto a questi protoformichieri, quindi, gli odierni formichieri viventi mostrano una crescente “appropriatezza” [fittedness] (Deacon, 2012) in relazione a queste caratteristiche ambientali. Insomma, costituiscono delle rappresentazioni piú dettagliate ed esaustive di tali caratteristiche ambientali. È in questo senso che la logica dell’adattamento evolutivo è una logica semiotica.
La vita, dunque, è un processo segnico. Ogni dinamica in cui “qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità”, per riprendere la definizione peirceana di segno (Peirce, 2003b: 147, CP 2.228), sarebbe viva. I musi allungati e le lingue stanno a un futuro formichiere (un “qualcuno”) per qualcosa che riguarda l’architettura di un formicaio. Uno dei piú importanti contributi di Peirce alla semiotica è stato quello di guardare piú in là della classica comprensione diadica del segno come qualcosa che sta per qualcos’altro. Peirce insiste invece sulla necessità di riconoscere come componente irriducibile della semiosi una terza variabile cruciale: i segni stanno per qualcosa in relazione a un “qualcuno” (Colapietro, 1989: 4). Come dimostra il formichiere gigante, questo “qualcuno” – o un sé, come preferisco chiamarlo – non è necessariamente umano e non deve implicare la referenza simbolica, una soggettività, un senso di interiorità, una coscienza o una consapevolezza [awareness] che spesso associamo alla rappresentazione perché valga come tale (si veda Deacon, 2012: 523-547).
Inoltre, la seità non è limitata solo agli animali dotati di cervello. Anche le piante sono dei sé. E nemmeno coincide con l’estensione di un organismo fisicamente delimitato. Detto altrimenti, la seità può essere distribuita su piú corpi (un seminario, una folla o una colonia di formiche possono agire come un sé), oppure può essere uno dei tanti altri sé all’interno di un corpo (le singole cellule hanno una sorta di seità minimale).
Il sé è sia l’origine che il prodotto di un processo interpretativo; è una tappa della semiosi (si veda il capitolo 1). Un sé non esiste in quanto “Natura”, evoluzione, supremo orologiaio, spirito vitale omuncolare o osservatore (umano), al di fuori della dinamica semiotica. Piuttosto, la seità emerge dall’interno di questa dinamica semiotica come il risultato di un processo che produce un nuovo segno che ne interpreta uno precedente. Per questo è opportuno considerare gli organismi non umani come dei sé e la vita biotica come un processo segnico, sebbene possa essere spesso un processo profondamente incarnato e non simbolico.
Memoria e assenza
Il formichiere gigante, in quanto sé, è una forma che “ricorda” selettivamente la propria forma. Il che significa che ogni generazione successiva è una somiglianza [likeness] rispetto alla precedente e che ogni formichiere è una rappresentazione iconica dei suoi antenati. Ma allo stesso tempo, essendo una somiglianza rispetto al suo predecessore (e quindi una sorta di memoria di esso), presenta anche delle differenze. Il formichiere, infatti, con il suo muso e la sua lingua, può potenzialmente essere una rappresentazione relativamente piú dettagliata del mondo che lo circonda, nella misura in cui (in questo caso) il suo muso, rispetto a quello dei suoi antenati, corrisponde [fits] meglio ai tunnel delle formiche. In sintesi, il modo in cui questo formichiere ricorda o rende nuovamente presenti le generazioni precedenti è “selettivo”. Ciò avviene in parte grazie ai protoformichieri del passato, quei sé i cui musi non erano cosí “appropriati” [didn’t fit] ai loro ambienti e che dunque, in un certo senso, sono stati dimenticati.
Questo gioco tra il ricordare e il dimenticare è unico ed essenziale per la vita; tutti i lignaggi di organismi viventi – piante o animali – mostrano questa caratteristica. A questo punto confrontiamo tutto ciò con un fiocco di neve. Sebbene la particolare forma che assume un dato fiocco di neve sia un prodotto storicamente contingente della sua interazione con l’ambiente, la particolare forma che aveva assunto non viene mai ricordata selettivamente quando cade a terra (ed è per questo che attribuiamo ai fiocchi di neve una sorta di individualità; non ce ne sono due uguali). In altri termini, una volta che si scioglie, la sua forma non inciderà affatto su quella che assumerà un qualsiasi successivo fiocco di neve quando inizierà a cadere.
Gli esseri viventi differiscono dai fiocchi di neve perché la vita è intrinsecamente semiotica, e la semiosi esiste sempre per un sé. La forma assunta da un singolo formichiere rappresenta, per una futura istanziazione di se stesso, l’ambiente a cui il suo lignaggio si è adattato [comes to fit] nel corso del tempo evolutivo. I lignaggi dei formichieri ricordano selettivamente i loro precedenti adattamenti [fits] all’ambiente; i fiocchi di neve no.
Un sé dunque, è il risultato di un processo, specifico della vita, attraverso cui una forma individuale si mantiene e si perpetua; tale forma, ripetendosi nel corso delle generazioni, corrisponde [fits] sempre di piú al mondo che la circonda e, allo stesso tempo, mostra una certa chiusura circolare che le permette di mantenere esattamente un’identità con se stessa [selfsame identity], a sua volta forgiata rispetto a ciò che non è (Deacon, 2012: 533); i formichieri rendono nuovamente presenti le precedenti rappresentazioni di tunnel di formiche che si sono prodotte all’interno del loro lignaggio, ma non sono dei tunnel di formiche. Nella misura in cui si impegna a mantenere la propria forma, questo sé agisce per se stesso. Il sé, quindi, che sia “confinato nei limiti della sua pelle” [skin-bound] o piú distribuito, è il locus di ciò che chiamiamo agentività (541-543).
Poiché un formichiere gigante è un segno, ciò che è – la sua particolare configurazione, il fatto, per esempio, che il suo muso abbia una forma allungata piuttosto che un’altra – non può essere compreso senza tener conto di ciò a cui si riferisce, ovvero l’ambiente in relazione al quale, secondo la dinamica che ho appena descritto, risulterà sempre piú appropriato [comes to fit]. Pertanto, sebbene la semiosi sia legata ai corpi [embodied], implica anche sempre qualcosa di piú dei corpi. Riguarda qualcosa di assente: un futuro ambiente semioticamente mediato, che è potenzialmente simile all’ambiente a cui si è adattata [fit] la generazione precedente (si veda il capitolo 1).
Un segno vivente è una previsione di quello che Peirce chiama abito (si veda il capitolo 1). In altre parole, è l’aspettativa di una regolarità, di qualcosa che non esiste ancora ma che probabilmente esisterà. I musi sono il prodotto di ciò che non sono, ovvero della possibilità che nell’ambiente in cui un formichiere con il muso lungo vivrà ci saranno dei tunnel di formiche. Sono il prodotto di un’aspettativa, di una “congettura” [guess] fortemente incarnata [embodied] su ciò che riserverà il futuro.
Tutto ciò è il risultato di un’altra assenza decisiva. Come ho detto in precedenza, i musi e il modo in cui diventano piú appropriati [fit] al mondo che li circonda sono il risultato di tutte le precedenti “congetture” [guesses] sbagliate – cioè, le generazioni precedenti i cui musi somigliavano meno al mondo dei tunnel dei formicai. Poiché i musi di questi protoformichieri non corrispondevano [didn’t fit] bene quanto gli altri alla geometria dei tunnel dei formicai, le loro forme non sono sopravvissute nel futuro.
Questo modo in cui i sé cercano di prevedere dei futuri “assenti” si manifesta anche nel presunto comportamento dei cani di Amériga. Come immaginavano le donne, i cani avevano abbaiato a quello che prevedevano e credevano essere un cervo. Piú precisamente, abbaiavano forse a qualcosa che vedevano come grande e fulvo. Purtroppo, però, anche i leoni di montagna sono grandi e fulvi. Un futuro semioticamente mediato – la possibilità di attaccare quello che percepivano come un cervo – ha finito per esercitare la sua effettualità sul presente. Ha influenzato la decisione dei cani – “cosí stupidi”, col senno di poi – di inseguire la creatura che ritenevano una preda.
Vita e pensiero
Un lignaggio di segni può potenzialmente estendersi nel futuro in quanto abito emergente, nella misura in cui ogni istanziazione interpreterà quella precedente in un modo che potrà a sua volta essere interpretato da un’istanziazione futura. Tutto ciò è valido anche per un organismo biologico, la cui progenie può o meno sopravvivere nel futuro, e per questo libro, le cui idee possono o meno essere riprese dal pensiero di un futuro lettore (si veda Peirce, CP 7.591). Tale processo è ciò che costituisce la vita. Ovvero, ogni vita, sia essa umana, biologica o forse, un giorno, anche inorganica, mostrerà spontaneamente questa dinamica incarnata [embodied], localizzata, rappresentazionale e predittiva del futuro, che coglie, amplifica e fa proliferare in una futura istanziazione di se stessa la tendenza ad assumere abiti. In altri termini, si può dire che all’interno del lignaggio di questi loci che si estendono potenzialmente nel futuro, ogni entità che costituisce un locus del “riguardare qualcosa” [aboutness] può essere considerata viva. L’origine della vita – ogni vita, ovunque nell’universo – costituisce necessariamente anche l’origine della semiosi e del sé.
Costituisce anche le origini del pensiero. Le forme di vita – sia umane che non umane –, in quanto intrinsecamente semiotiche, mostrano ciò che Peirce chiama “intelligenza ‘scien-tifica’”. Con “scientifica” non intende un’intelligenza umana, cosciente o persino razionale, ma semplicemente un’intelligenza “capace di apprendere attraverso l’esperienza” (Peirce, 2003b: 147, CP 2.227). I sé, al contrario dei fiocchi di neve, possono apprendere attraverso l’esperienza, che è un altro modo per dire che attraverso il processo semiotico descritto possono crescere. E questo, a sua volta, è un altro modo per dire che i sé pensano. Tale pensare non deve necessariamente aver luogo nella scala temporale che sciovinisticamente chiamiamo tempo reale (si veda Dennett, 2000). Non è necessario, dunque, che accada nella vita di un singolo organismo confinato nei limiti della sua pelle. Anche i lignaggi biologici pensano. Anche loro, nel corso delle generazioni, possono crescere apprendendo il mondo che li circonda attraverso l’esperienza, dimostrando cosí di possedere ugualmente “un’intelligenza ‘scientifica’”. In sintesi, visto che la vita è semiotica e la semiosi è viva, ha senso trattare sia le vite che i pensieri come “pensieri viventi”. Una profonda comprensione della stretta relazione tra vita, sé e pensiero è essenziale per l’antropologia oltre l’umano che sto sviluppando.
Un’ecologia dei sé
La qualità semiotica della vita – il fatto che le forme assunte dalla vita sono il prodotto di come i sé viventi rappresentano il mondo che li circonda – struttura l’ecosistema tropicale. Sebbene tutta la vita sia semiotica, nella foresta tropicale la qualità semiotica della vita viene amplificata e resa piú evidente attraverso un’eccezionale varietà e quantità di sé viventi. Questo è il motivo per cui voglio provare ad analizzare come pensano le foreste; le foreste tropicali amplificano, e quindi rendono piú espliciti, i modi in cui la vita pensa.
I mondi che i sé rappresentano non sono semplicemente costituiti da cose. Sono costituiti anche e in larga misura da altri sé semiotici. Per questo motivo sono arrivato a definire la trama dei pensieri viventi delle foreste di Ávila, un’ecologia dei sé. Questa ecologia dei sé, di cui Ávila è intrisa, include i Runa e gli altri umani che interagiscono con loro e con la foresta, e nelle sue configurazioni comprende non solo i diversi generi di esseri viventi della foresta, ma anche, come mostrerò verso la fine del libro, gli spiriti e i morti che ci rendono gli esseri viventi che siamo.
Il modo in cui i diversi esseri rappresentano e vengono rappresentati da altri esseri definisce i modelli che assume [pattern-ing] la vita nelle foreste intorno ad Ávila. Per esempio, una volta l’anno le colonie di formiche tagliafoglie (Atta spp.) – che di solito si vedono solo nelle lunghe file di formiche operaie che portano ai loro nidi frammenti di vegetazione raccolti sulle cime degli alberi – modificano la propria attività. Nell’arco di pochi minuti, ognuna di queste colonie disseminate per l’intera foresta rigurgita simultaneamente centinaia e centinaia di paffute formiche riproduttive alate e le spinge a volare nel cielo mattutino per accoppiarsi con quelle di altre colonie. Questo evento presenta numerose sfide e opportunità, da cui è effettivamente strutturato. Come fanno le formiche, che vivono in colonie distanti, a coordinare il loro volo? Come fanno i predatori ad approfittare di questa ricca ma effimera risorsa nascosta? E quali strategie utilizzano le formiche per evitare di essere mangiate? Queste formiche volanti, piene di riserve di grasso, sono una gustosa prelibatezza gradita dalla gente di Ávila, cosí come da molti altri amazzonici. Sono conosciute semplicemente come añangu, formiche, e ciò è indicativo di quanto siano apprezzate.
Arrostite con il sale sono squisite e, se ne vengono raccolte grandi quantità, diventano un’importante fonte di nutrimento per il tempo limitato in cui sono a disposizione. Com’è possibile prevedere quei pochi minuti dell’anno in cui le formiche usciranno dai loro nidi sotterranei?
Il problema di determinare quando le formiche voleranno può dirci qualcosa su come la foresta pluviale diventa quello che è: una rete cacofonica e composita, emergente e in espansione, di pensieri viventi, in crescita e reciprocamente costitutivi. Ricordiamo che in questa parte dei tropici equatoriali non ci sono cambiamenti stagionali legati alla luce solare o alla temperatura, non c’è una corrispondente fioritura primaverile, e al di fuori delle interazioni tra gli esseri della foresta non c’è nessun segnale inequivocabile che determini o anticipi quando le formiche voleranno. La tempistica di quest’evento è il prodotto di una coordinata previsione delle regolarità meteorologiche stagionali e di un’orchestrazione delle relazioni tra le differenti specie interpretanti rivali.
Secondo la gente di Ávila le formiche alate emergono nella calma che segue un periodo di forti piogge accompagnate da tuoni, fulmini ed esondazioni di fiumi. Questo ciclo temporalesco ne chiude uno relativamente piú secco, che di solito si verifica intorno ad agosto. Gli abitanti di Ávila cercano di prevedere l’emergere delle formiche associandolo a una serie di segni ecologici legati ai regimi di fruttificazione, all’aumento delle popolazioni di insetti e ai cambiamenti nelle attività degli animali9. Quando i diversi indicatori rivelano che la “stagione delle formiche” (añangu uras) è alle porte, le persone si recano piú volte, nel corso della notte, in prossimità dei nidi vicini alle proprie case, per controllare i segni che riveleranno il prossimo volo delle formiche. Tali segni includono la presenza di formiche guardiane intente a ripulire gli ingressi dai detriti e la prematura e lenta apparizione di formiche alate ancora in stato letargico.
Gli abitanti di Ávila non sono gli unici interessati al momento in cui le formiche voleranno. Altre creature, come le rane, i serpenti e i piccoli felini10, sono attirate dalle formiche o dagli altri animali che, a loro volta, sono attirati da queste ultime. Tutti osservano le formiche e osservano quelli che le stanno osservando per captare i segni che indicano il momento in cui queste emergeranno dai loro nidi.
Sebbene il giorno del volo sia strettamente legato a modelli meteorologici, e sembra che sia per questo che le formiche coordinano il proprio volo con quello degli altri nidi, il momento preciso in cui in un determinato giorno si verificherà il volo è una risposta, sedimentata nel corso del tempo evolutivo, a quello che i potenziali predatori possono o meno notare. Non è un caso che le formiche prendano il volo appena prima dell’alba (esattamente alle 5:10, quando sono riuscito a registrare l’ora). Mentre sono nei loro nidi, le aggressive guardiane della colonia le proteggono dai serpenti, dalle rane e dagli altri predatori. Tuttavia, una volta preso il volo sono da sole e possono diventare facili prede di quei pipistrelli frugivori che ancora vagano al crepuscolo e che le attaccano a mezz’aria, strappando a morsi i loro addomi notevolmente rigonfi e pieni di grasso.
Il modo in cui i pipistrelli vedono il mondo è di vitale importanza per le formiche volanti. Non è un caso che le formiche prendano il volo in un determinato momento. Nonostante alcuni pipistrelli indugino ancora nel loro vagare, a quell’ora resteranno attivi solo per altri venti o trenta minuti. Quando escono gli uccelli (poco dopo l’alba, alle sei del mattino), la maggior parte delle formiche si sarà già dispersa, e alcune femmine si saranno già accoppiate per poi cadere a terra e fondare nuove colonie. La precisa tempistica del volo delle formiche è il risultato di un’ecologia strutturata semioticamente. Le formiche emergono al crepuscolo – quella zona di indistinzione tra la notte e il giorno – quando la probabilità di essere notate dai predatori notturni o diurni è minore.
I Runa cercano di decifrare parte della logica della rete semiotica che struttura la vita delle formiche cosí da riuscire a catturarle durante quei pochi minuti all’anno in cui volano fuori dai loro nidi. Una notte, quando erano in procinto di volare, Juaniku mi chiese una sigaretta affinché potesse soffiare il fumo del tabacco infuso del potere del suo “soffio vitale” (samay) per scacciare le incombenti nuvole di pioggia. Se quella sera avesse piovuto, le formiche non sarebbero uscite. Tuttavia, visto che i figli erano andati al mercato di Loreto e sarebbero tornati solo l’indomani, sua moglie Olga lo esortò a non allontanare le nuvole. La loro presenza sarebbe stata necessaria per raccogliere le formiche che si sarebbero riversate fuori dai numerosi nidi vicini a casa. Per assicurarsi che quella notte le formiche non prendessero il volo, fece il giro di tutti i nidi vicini calpestandoli. Disse che questo avrebbe impedito alle formiche di uscire quella sera.
La notte in cui Juaniku ebbe la certezza che le formiche avrebbero finalmente preso il volo, e poco prima che uscissi nel pieno dell’oscurità con i suoi figli per controllare i nidi, mi esortò a non urtarli e a camminarci intorno con attenzione. Poi, qualche minuto prima delle cinque del mattino, io e Juaniku posizionammo diverse lanterne a cherosene accese, alcune mie candele e la mia torcia a una distanza di circa quattro metri dall’ingresso del nido piú vicino alla casa. Le formiche alate sono attratte dalla luce e cosí si sarebbero dirette verso quelle fonti. Allo stesso tempo, le luci vennero posizionate abbastanza lontano per evitare che le formiche guardiane le considerassero una minaccia.
Quando le formiche cominciarono a emergere, Juaniku parlò solo sussurrando. Poco dopo le cinque del mattino sentimmo un ronzio e le formiche alate iniziarono a uscire dal nido e a volare via. Molte furono attratte dalla luce e invece di volare verso il cielo si diressero verso di noi. A quel punto, Juaniku iniziò a fischiare come una sirena, alternando due toni diversi. Mi spiegò in seguito che le formiche volanti li riconoscono come il richiamo delle loro “madri”11. A mano a mano che le formiche venivano verso di noi, bruciacchiavamo le loro ali con torce di foglie secche di lisan12. In questo modo non avemmo difficoltà a raccoglierle dentro pentole coperte13.
Le formiche tagliafoglie sono immerse in un’ecologia di sé che ha plasmato il loro stesso essere; il fatto che emergano poco prima dell’alba è un effetto delle propensioni interpretative dei loro principali predatori. Anche la gente di Ávila cerca di accedere all’universo comunicativo delle formiche e delle molte crea-ture legate a loro. Tale strategia ha degli effetti pratici: grazie a essa i Runa riescono a raccogliere grandi quantità di formiche.
Considerando le formiche come i sé intenzionali e comunicativi che in effetti sono, Juaniku è riuscito a pervenire a una comprensione delle varie associazioni che collegano le formiche agli altri esseri della foresta – una comprensione che sicuramente non è mai assoluta, ma sufficiente a prevedere con precisione i pochi momenti dell’anno in cui le formiche prenderanno il volo. È riuscito anche a comunicare direttamente con loro, richiamandole verso la loro morte. Cosí facendo, stava effettivamente entrando nella logica di come pensano le foreste. Ciò è possibile perché, per alcuni aspetti decisivi, i suoi (e nostri) pensieri sono simili a quelli che strutturano le relazioni tra i pensieri viventi che rendono la foresta quello che è: una densa e fiorente [flourishing] ecologia di sé.
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