Quante forme può avere una raccolta di scritti brevi? Qualche esempio tratto da pubblicazioni recenti: perché tutti i romanzi sono felici allo stesso modo, ma ogni libro di racconti è infelice a modo suo.
In copertina e nel testo opere di fortunio liceti, di metà seicento.
Non intendo chiedere scusa. Puoi startene lì seduto a sbuffare per il disgusto quanto vuoi, ma non intendo chiedere scusa. Credi che non mi renda conto della reputazione che mi faccio raccontando barzellette e cercando di convincere tutti che sono racconti? Guarda, non è che morirò per quello che dicono di me, e neppure, ah, per quello che pensano. Non mi fa né caldo né freddo. E quindi, siccome non mi fa né caldo né freddo, non intendo chiedere scusa. Raccontare barzellette mi piace. Mi piace pubblicare barzellette e dare l’impressione che siano racconti.
(La narratologia al popolo!, da Gordon Lish, Come scrivere un racconto)
Pare che l’editor di Carver gli abbia cambiato tutti i racconti e l’abbia passata Lish. Mi sarei tenuto per me questa freddura cringe, o come si diceva settimanenigmisticamente una volta, da risate a denti stretti, se non avessi notato una propensione a costruire calembour, con il proprio nome soprattutto ma non solo, dello stesso Gordon Lish nei suoi racconti. Nonché una tendenza, altrettanto se non più pervasiva, a inserire nei racconti barzellette e storielle ebraiche, anzi proprio a travestire le storielle da racconti. Entrambe queste cose sono abbastanza sorprendenti e in effetti mi avrebbero stupito, se il mio stupore non fosse andato già esaurito nell’apprendere come Gordon Lish sia stato non solo editor, eminenza grigia, ghostwriter, maieuta e mentore di decine di scrittori americani del secondo Novecento e di centinaia di loro racconti tra i più belli, ma autore di racconti egli stesso. E che autore – e che racconti. Assurdi, non c’è che dire, nel loro non assomigliare a niente. Sembrano Carver, per esempio? Ma neanche per sogno. Più un Salinger scarnificato, al limite: l’acuta osservazione non è mia (io ci aggiungerei, sicuramente mancando il bersaglio, che mi ricorda a volte la cattiveria intelligentissima e gratuita del Roald Dahl per adulti) ma di Francesco Guglieri, che di acute osservazioni ne infila una dopo l’altra nella prefazione a Come scrivere un racconto, edito da Racconti edizioni, e che a dispetto del titolo non è un manuale di scrittura ma, come si affretta a precisare il sottotitolo, “un libro di narrativa”; un libro di, indovinate un po’, racconti.
Eppure, proprio per questa sua natura scabra ed essenziale, è letteratura che spesso e volentieri gioca con la meta letteratura, non solo nei titoli – Come scrivere una poesia, Come scrivere un romanzo et similia – ma proprio nell’interruzione, praticata con ferocia, all’interno della narrazione, per mettersi a discutere di questioni linguistiche o dei crucci personali dello scrittore. Sono racconti che indulgono nello scotennare sé stessi, mettendo allo scoperto i meccanismi di costruzione della narrativa breve, ma senza pedanteria, mostrandone la carne viva, il sangue, le ossa. Perciò questo libro di non-theory (se esiste la non-fiction come categoria di narrativa non di invenzione, potrà esistere il suo speculare contrario?) ci serva da viatico e puntello al resto dell’articolo, un articolo dove andremo a guardare alcuni libri di racconti usciti negli ultimi mesi – libri e racconti che però sono contemporaneamente qualcosa in meno e qualcosa in più che semplici libri e semplici racconti.
(Due famiglie)
-->Non c’è un racconto nelle frasi che scriverò, non c’è l’obiettivo di far quagliare alcunché. Se qualcosa quaglia, è un risultato ottenuto per conto proprio. Il mio aiuto non serve, il vostro non è richiesto. Ciò che farò – il più brevemente possibile e senza giocare sporco – è fornire delle prove. Ogni altra cosa, se c’è qualche altra cosa, verrà da sé. Secondo me, è già successo.
Si parte da un’apparizione. Qualcosa che c’è dove prima non c’era niente. Qualcosa che appare quando e dove – secondo ogni logica – non dovrebbe esistere. Contemporaneo occidentale (Il Saggiatore) è un libro così: senza alcun senso, secondo le logiche del mercato editoriale. E con un senso non evidente, il che non vuol dire inesistente, anche secondo logiche che potremmo definire artistiche. Un’antologia, dài: per spiegare tutto, senza capirci nulla. Apparizioni è il titolo di uno stupefacente libro scritto qualche anno fa da Andrea Gentile: testi brevi, collegati tra loro, non narrativi – fu anche quello un oggetto stranissimo. Apparizioni si chiama la terza e ultima delle parti in cui il libro è diviso (Nel Bardo e Meditazioni le altre due: capito come?). L’introduzione del summenzionato Andrea Gentile, qui in veste di direttore editoriale del Saggiatore e soprattutto di ideatore e regista di questa miscellanea – tenuta insieme da fili sottilissimi eppure talmente saldi da farla apparire compatta e coerente, anche se non saprei spiegarmi il perché – l’introduzione dicevo di Gentile varrebbe da sola il prezzo del biglietto.
Contemporaneo occidentale contiene gemme sorprendenti (i pezzi di David Peace, di Emma Glass, di Mariana Enriquez, di László Darvasi) ma soprattutto grandi conferme, in ambo i sensi. Per esempio Jeff VanderMeer si conferma un formidabile creatore di mondi. Olga Tokarczuk si conferma il Nobel più strameritato degli ultimi trent’anni. Thomas Ligotti si conferma scrittore di una sola idea, la cui nerissima forza dirompente perde un po’ di efficacia a ogni giro: come quel vecchio zio brontolone che a ogni pranzo di Natale ripete che la vita è sofferenza, facciamo tutti schifo, e comunque tra poco saremo morti; come un disco di black metal norvegese, però un disco rotto.
Ma per me il picco si raggiunge stranamente nella parte centrale, delle tre di cui è composto il libro, quella dedicata a brevi saggi, che del racconto hanno solo la durata, short non fiction si potrebbe dire (e dico stranamente per me, perché il mio gusto va più verso la narrazione pura, anche se ben infarcita di speculazione). Tra uno Knausgård e un Cărtărescu che discettano di letteratura, spunta un Geoff Dyer con un mini memoir che spicca (già dal raffinatissimo titolo, Omaggio a Michele Avantario, citazione dell’Omaggio a Marco Aurelio di Brodskij, che ne costituisce l’ispirazione, seppur per contrasto). Un pezzo per me prezioso anche a livello soggettivo, perché mi ha resa chiara la natura della differenza – enorme dietro le affinità di facciata – fra Dyer e quell’altro campione dell’autofiction che è Carrère.
(Come scrivere un romanzo)
Prima di tutto assicuratevi di avere abbastanza tempo. È fondamentale che abbiate abbastanza tempo per inventare ogni cosa. Per quanto mi riguarda, non ho tempo da perdere in cose del genere.
Però vi dirò come stanno le cose. Non sarà difficile seguirmi mentre lo faccio.
Basta che ascoltiate.
Basta che guardiate.
Dal lato opposto rispetto alle antologie, cioè ai libri di racconti dove non solo le narrazioni ma anche gli autori sono diversi, e in questo caso financo i generi, abbiamo quelle raccolte così compatte – per unità di personaggi luogo azione – che un passo oltre c’è solo il romanzo. E infatti “romanzo di racconti” è spesso definito questo tipo di libri, forse un po’ per il consueto timore che la parola racconto incute di per sé, coi suoi supposti effetti funerei sulle vendite. È un modello di cui sono campioni il ballardiano La mostra delle atrocità, o in tutt’altro stile il delizioso Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, e che di recente è stato per esempio utilizzato da Claudia Grande per il suo esordio Bim Bum Bam Ketamina (Il Saggiatore): grottesco arazzo di realtà virtuali dagli anni 80 a oggi, dalla TV ai social, dal lavoro alla droga, in cui vicende per stile e sostanza anche molto diverse vengono tenute insieme da un personaggio che a volte assurge a protagonista, altre si defila nella posizione di narratore o mera tappezzeria. Quando il legame è un po’ più lasco, appaiono oggetti come Corteo di ombre (Safarà) o Kalpa Imperial (Rina Edizioni): personaggi diversi, stesso “universo narrativo”, come ormai abbiamo imparato a dire dai cinefumettoni. Entrambi scritti decenni addietro, entrambi di autori noti e “amati dalla critica” (Julián Ríos, Angélica Gorodischer) ma poco tradotti in Italia, entrambi di lingua spagnola ma provenienti dai lati opposti dell’oceano, entrambi di ambientazione fantastica pur se di natura assai differente.
Ríos ha scritto libri con Octavio Paz e apprezzate opere di saggistica come di narrativa: Corteo di ombre però ha una storia editoriale sui generis, essendo stato composto durante il franchismo ma mai pubblicato fino al 2008. Questo ha spinto la maggior parte degli articoli a darne una lettura univoca, debitrice di vicissitudini e censure, e appiattita sul lato politico. Che esiste eccome, per carità: ma non esaurisce l’essenza del libro, e non ne dispiega le peculiarità.
Le vicende, a volte vagamente intrecciate, più spesso risonanti di echi lontani, sono ambientate in una contrada immaginaria, un po’ come la Yoknapatawpha di Faulkner, un paesino della Galizia ai margini di tutto e pure che sembra attirare persone che non dovrebbero essere lì, che sembra convogliare strane e potenti energie. Tanta è la tensione che percorre queste brevi pagine, che ci si aspetta sempre che accada qualcosa di soprannaturale, o viceversa di estremamente veristico, verghiano: si resta in mezzo, senza scegliere senza definire, e la tensione perciò non fa che aumentare. Vero filo conduttore il delitto, la morte, il nero, anche se si farebbe fatica a definirli piccoli gialli o noir in miniatura.
(Il problema della prefazione)
Questa è la storia di un uomo fatto fuori da una storia, e con questo, con fatto fuori, si intende ammazzato, tolto di mezzo, finito, spacciato; tutto questo. È una storia molto lineare, dall’inizio alla fine, e c’è un solo problema: è una storia inventata? Oh, ma no, no, no: il problema non è se questa è una storia inventata, ma se lo è l’altra, e l’altra è quella che ha fatto fuori la nostra vittima, perché era una storia, e questa è la peggior spicola di tutta questa triste vicenda, che lui stesso aveva raccontato a ogni occasione.
Su altro piano, più vasto e spiazzante, si muove Kalpa Imperial. Le storie che vi si narrano sono tutte appartenenti a un impero, anzi all’Impero: un’entità che si prolunga indefinita nel tempo e nello spazio: un’entità che integra ed esaurisce il mondo. Ovvia deduzione, le vicende sono ambientate non in un semplice paese immaginato, ma in un vero e proprio universo alternativo. Un universo in cui vigono regole solo apparentemente simili a quelle che governano il nostro; ma proseguendo nella lettura, poco a poco emergono stranezze, peculiarità: ad esempio, passano i millenni ma la tecnologia non evolve, e così non cambiano i costumi o le strutture sociali. Questo, che dovrebbe essere un difetto di inverosimiglianza, è invece elemento perturbante che lavora dentro chi legge, silenziosamente, in maniera sotterranea. Finché si sedimenta la convinzione, piana e pacifica quanto mai introdotta o discussa, che ci troviamo in realtà non in un mondo alternativo, ma nell’immaginario mitologico di un mondo alternativo: non a Uqbar, ma su Tlon. Angelica Gorodischer viene definita una delle più importanti figure della fantascienza argentina (anche se ha scritto pure romanzi polizieschi e saggi femministi). Ma per questo aspetto, costruire un mondo senza “fare world building” – meglio: AVER COSTRUITO un mondo – come e più di Amparo Dávila, è accostabile non solo ai conterranei Borges e Cortázar, ma anche, addirittura, a Kafka.
Di che parlano poi questi racconti: storie di imperatori e imperatrici, di guerre e decadenze, intrighi e usurpazioni. Ma non col taglio del romanzo storico, più con quello della favola, o della rapsodia omerica (non è un caso la presenza costante di una figura di connessione tra mondi quale quella del narratore), insomma non s’ha da temere di usare il parolone: un mito. Un mito con le sue caratteristiche intrinseche di inesistenza e verità (“Queste cose non furono mai, e sono sempre”). Abbiamo più volte parlato di mondo, universo, ambientazione. Ma il termine è forse riduttivo: il vero protagonista di queste storie dell’impero immaginario è lo stesso impero, lo stesso immaginario.
(Come scrivere una poesia)
Ascoltate, a me la poesia interessa né più né meno che a voi. Insomma, può piacermi o non piacermi: un po’ di tensione ben orchestrata, qualche lacrima o lamento, un cuore che cambia idea come cambia il tempo. Ogni morte di papa, tuttavia, mi ritrovo per le mani una poesia che guardo come un bel fiore che si schiude pian piano. Non dev’essere niente di che, questa poesia. Non me ne importa un fico secco della qualità. Cristo, no: nella poesia non cerco la letteratura.
Cerco la paura.
E infine, dalla teoria del racconto al racconto della teoria. Dal topos del “romanzo di racconti” al ben più fastidioso cliché del “saggio che si legge come un romanzo”. Eppure non si saprebbe trovare una definizione migliore per questa raccolta di Augusto Monterroso, maestro della flash fiction se ce n’è uno (“Quando si svegliò, il dinosauro stava ancora lì” – en passant uno dei pochissimi casi in cui l’opera è più nota del nome stesso dell’autore). Solo che nel caso de La parola magica (Occam) non si tratta di narrativa breve, ma di riflessioni articoli spunti, non so come dirli perché sono meno e più di ognuna di queste cose: short non fiction che si leggono come racconti. Indagini linguistico letterarie – su un verso di Quevedo che che ha fama, non ingiustificata, di essere il più bello della storia; o sulla famosa definizione shakespeariana della vita come racconto di un’idiota pieno di sound and fury, con i suoi echi e le sue corruzioni – indagini condotte con l’accanimento e il thrill di un poliziesco.
È la prevalenza della forma? Conta più il come (in questo caso la durata) che il cosa? Più che altro è una questione di metodo, di postura: Monterroso applica alla theory gli stratagemmi della narrativa, e in particolare della narrativa breve – il colpo di scena, l’allusione, la suspence. Provare non è facile, riuscire è capolavoro.
Sta di fatto che non leggevo dei saggi brevi con tale passione e divertimento dai tempi di, beh tocca dirlo, Borges, quello di Altre inquisizioni (e proprio a Borges è dedicato un pezzo che può sembrare ingenuo per quanto è didascalico, per quanto fa mostra di dire cose ormai assodate con l’aria di chi invece le sta inventando… Fino a che non si legge la data: 1949, quando Borges era già abbondantemente Borges – avendo già dato alle stampe l’insuperato dittico Finzioni + L’Aleph – ma non era ancora “Borges”, il mito, il padre ingombrante e pietra di paragone per tutta la letteratura argentina e sudamericana e ispanofona, e mondiale, fantastica o meno – e Monterroso aveva solo ventott’anni).
(Ma con un titolo, non sarebbe peggio?)
Oh, andiamo, ma smettetela: quale possibile esito non è già stato previsto da chi racconta – da me, da voi, da Willie, da vostra zia Tillie?
E allora cos’è, dite voi?
Storia o racconto?
Verità?
Il contrario della verità?
Solo parole, messe in fila ad altre parole, un po’ d’inchiostro su questa pagina altrimenti bianca, oppure – peggio, ancora peggio! – senza numero.
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