Come si fa a cambiare stato di coscienza?



La meditazione e la contemplazione (strettamente collegate) funzionano sulla base di principi solidi, e proprio per questo degni di una “fenomenologia”. Oggi pubblichiamo un saggio che indaga proprio questo loro aspetto.


In copertina e nel testo opere di Haruko Maeda 


Questo è articolo un estratto di “Cambiare stato di coscienza” pubblicato da Mimesis edizioni.

di Michel Bitbol

 

Le pratiche contemplative sono molteplici, anche in seno ad una stessa dottrina. Non è tuttavia azzardato individuarne tre grandi tipologie che ricalcano i tre tempi dell’epochè, ovvero la sospensione, il riorientamento e l’accoglimento. Ispirandosi alle principali tecniche e atteggiamenti della via buddista (e senza esitare a considerare le sue diverse branche storiche e culturali, dal Theravāda dello Sri Lanka al Vajrayāna tibetano), queste varianti corrispondono, rispettivamente: alla pura concentrazione dell’attenzione (in sanscrito śamatha), all’accurato esame riflessivo dei fenomeni (in sanscrito vipaśyanā), e alla presenza aperta (in tibetano rig-pa). La prima di esse porta a sospendere la direzione attenzionale rivolta abitualmente ai molteplici oggetti di manipolazione, sostituendo a loro un unico oggetto privo di finalità pratica. La seconda dirige tale attenzione, dopo averla sufficientemente disciplinata, sugli aspetti sottili del vissuto. La terza, infine, favorita dalle due fasi precedenti, consiste in una postura di accoglienza così universale che si estende a sé stessa. Sul piano gnoseologico, la prima favorisce una critica dell’oggetto, spostando a piacimento l’attenzione e mostrando in questo caso che è la focalizzazione attentiva, l’identificazione del medesimo nel diverso (come direbbe Husserl),che ne sostiene la pretesa di esistenza. La seconda dà avvio a una critica del soggetto, rivelando il suo carattere costruito a partire da un materiale vissuto proto-personale. La terza introduce al dominio inesplorato, eppur intimamente familiare, dell’esperienza pura non duale. 

Oltre ai tre principali momenti contemplativi appena descritti, altri metodi favoriscono lateralmente i loro scopi, pur perseguendo obiettivi più propriamente etici o soteriologici. È il caso, nello specifico, della pratica della compassione non direzionale, che promuove la dissoluzione del soggetto egotico generando intenzionalmente empatia per l’altro, e aspirazione ad alleviare la sua sofferenza, dissolvendo così l’auto-centramento degli affetti. La compassione è in questo caso sia fine che mezzo: un fine etico e un mezzo di conoscenza che si rinforzano l’un altro. La tensione etica favorisce la lucida (ri)conoscenza dell’insostanzialità dell’ego, e tale conoscenza, di riflesso, rende più naturale il risvolto altruistico dell’etica.

 

Stabilizzazione dell’attenzione e stato di assorbimento

Abbiamo visto come la pratica meditativa di base, quella per stabilizzare l’attenzione, abbia come principio cardine la concentrazione su un singolo oggetto costante. Può trattarsi di qualcosa di visibile, di un oggetto immaginario o di un ricordo i cui dettagli si delineano gradualmente, di una frase ripetuta a oltranza, ma più spesso un tema corporeo propriocettivo, come le auto-sensazioni che si accompagnano agli equilibri muscolo-scheletrici della posizione seduta o il flusso alterno del respiro. Quest’ultimo metodo risale (come minimo) al Buddha storico, Siddhārtha Gautama, il quale lo descrive ai suoi più stretti discepoli in modo semplice: “Richiamando tutta la propria vigilanza, egli inspira sapendo che inspira, ed espira sapendo che espira”. Tale metodo è stato anticipato o integrato dai sofisticati metodi di controllo del respiro utilizzati dallo Yoga (detti Prānāyāma in sanscrito), ed è stato scoperto, o riscoperto, da molte altre tradizioni spirituali, in particolare cristiane. Così, la preghiera del cuore ortodossa si fonda sul ritmo del respiro, accuratamente sincronizzato alla recitazione cadenzata di una formula sacra. La recitazione è, in questo caso, uno strumento complementare di raccoglimento, simile ai metodi di ripetizione dei mantra cui ricorrono l’induismo e il buddismo per costringere la mente discorsiva alla concentrazione estrema, fino a deviare la sua naturale tendenza, incline alla significazione. Il suo corrispettivo si può riscontrare in certi processi contemplativi nati in ambiente cattolico, ma talvolta considerati eretici, in virtù della loro natura di tecnica attiva, in un contesto in cui l’attesa ricettiva della grazia è stabilita come norma o aspirazione. Tali processi si fondano sull’interiorizzazione ininterrotta di un passo tratto da un testo sacro: “dopo essersi messi in presenza di Dio con un atto di viva fede, raccomanda Jeanne Guyon, bisogna leggere qualcosa di sostanziale e soffermarvisi dolcemente, non con il ragionamento, ma solamente per fissare la mente”. Nella teoria come nella pratica, qualunque soggetto di attenzione sostenuta sarebbe adatto a “fissare la mente”; solo il luogo specifico o lo stato emotivo in cui la mente si fissa, dipende dalla varietà degli orientamenti spirituali. L’instaurazione di tali processi ha come fine universale di domare l’interesse della coscienza. A tale scopo ci si forza ad adottare una direzione unica, iterativa, spogliata di tutto ciò che abitualmente definiremmo “interesse”, nel senso di novità e stimolo. Dopodiché qualcosa accade, un qualcosa di inatteso, non sempre ricercato in sé e per sé. La conseguenza pressoché unanimemente riportata della concentrazione dell’attenzione e del controllo dell’interesse, è ciò che si potrebbe definire uno stato di assorbimento. Esso sopraggiunge ad un certo stadio dell’evoluzione contemplativa degli stati di coscienza, che Santa Teresa d’Avila evoca attraverso una metafora architettonica. Teresa paragona l’anima a un castello e le tappe evolutive dei suoi stati a dimore successive, di cui la quinta (sulle sette elencate), è particolarmente pertinente. Ecco come viene descritta: “Qui, le nostre forze sono addormentate rispetto a tutte le cose del mondo e a noi stessi. E, in verità, l’anima è come priva di sentimento durante il poco tempo di questa orazione di unione; e se pure lo volesse, le sarebbe impossibile pensare ad alcunché di questo mondo […] se lei ama, è in un sonno così profondo che ignora come possa amare; non sa nemmeno che cosa ami, né che cosa vorrebbe. […] Io dico [tuttavia] che questo non era un sonno, perché nella dimora di cui ho parlato, l’anima, fintanto che non abbia molta esperienza, si domanda ansiosamente che cosa stia accadendo”. Ciò che è “addormentato” in questa quinta dimora, sono gli interessi per le cose e per sè stessi; in compenso, rimane l’interesse (ansioso o meno) per l’esperienza in corso. L’attenzione resta sostenuta, sebbene sia stata ritirata del tutto dalla vita ordinaria; è un’attenzione pura, un’attenzione all’essere-attentivo, e soprattutto un’attenzione per ciò che si presenta senza nominarsi. Un altro esempio è quello di Jeanne Guyon, mistica cristiana del XVII secolo, amica di Fénelon, la quale scrive: “Se l’anima rivolge tutto il suo vigore e la sua forza in sè, con questa stessa azione viene separata dall’azione dei sensi; impiegando tutta la sua forza e tutto il suo vigore all’interno, essa lascia i sensi privi di vigore”. Anche qui i sensi sono addormentati, senza che il sonno abbia minimamente preso possesso della coscienza. Questo riorientamento della “forza dell’anima” verso l’interno (o più precisamente verso ciò che non è dato come esterno), giunge in seguito ad una duplice operazione: non solo, come anticipato, la “fissazione della mente” su un pensiero o un sentimento, ma anche “l’abbandono [che] è la chiave di tutta l’interiorità”.

Tuttavia, questo primo frutto della contemplazione, ancora distante dal terreno fenomenologico e tutt’al più preparatorio alla sua esplorazione per mezzo dell’azione decisa di sospensione radicale degli interessi comuni, è davvero l’unico? Si tratta proprio dell’esito ricercato dalle discipline contemplative, dell’esperienza cui esse anelano? Per molte di esse, sembra che questo sia il caso. La famosa seconda strofa descrittiva degli Yogasūtra di Patañjali lo lascia credere (almeno se ci si limita ad essa), quando dichiara che “lo yoga è la cessazione (nirodha) dei processi mentali”. Le ragioni di questa possibile identificazione dello scopo della contemplazione con la soppressione dell’attività mentale hanno molteplici ramificazioni, ma sono tutte riferite a vissuti difficilmente esprimibili, ai quali si tenta di dare voce con dei mitemi.

 

Dalla sospensione al silenzio divino

La più elementare delle ragioni addotte è che interrompendo la propria attività di pensiero, l’individuo umano si espande al di là dei propri limiti personali, diventando ricettivo a un totalmente altro che potrebbe cogliere l’occasione per manifestarsi in lui; si mette in ascolto dell’“intimo”, cioè di ciò che è ancora più profondo della propria interiorità personale; e si immerge nel silenzio per prestare attenzione ad un verbo che si presume non abbia nulla a che fare con le parole del linguaggio articolato. Un’altra ragione connessa è che Dio, questo ideale regolatore della maggior parte delle correnti della vita contemplativa, così come della morale kantiana, non è, forse, altro che ciò che si mostra alla coscienza ordinaria come vertigine di assenza. L’uomo, affermano i fondatori del giudaismo hassidico, unendo tra loro le due ragioni menzionate, deve diventare vuoto come un corno d’ariete scavato servendo da richiamo annunciatore (un shofar in ebraico), se vuole permettere “alla voce divina di risuonare in lui”. Deve “annullare il suo io, svuotarsi di sè stesso” per realizzare infine che egli “dimora nel seno stesso del nulla” della vita divina. L’autore anonimo del testo mistico medievale in lingua inglese, The Cloud of Unknowing, non dice altro quando indica che la pratica dell’orazione ha come unico scopo di stendere “una nube di oblio tra voi e tutta la creazione”, e di prepararvi, attraverso ciò, a contemplare questo “nulla” nel suo “non luogo”, che il senso interiore riconosce come “tutto”. 

Un’ultima ragione, infine, esplicita la precedente pur correggendola del suo residuo di ingenuità. Invece di affermare che Dio non possiede l’essere ma, al contrario, tutto ciò che è si ritrova ad essere riempito da lui, e anziché dichiarare che Egli non è “niente di ciò che è”, si ha l’improvvisa intuizione che continuare a evocare “Dio” perfino in questa negazione (contrapponendolo a qualcosa che non è, e brandendolo, volenti o nolenti, come un’entità a parte), equivale paradossalmente a restare prigionieri della matrice intellettiva che ce “lo” rende inaccessibile. Per poter superare quest’ultimo ostacolo inatteso, bisogna avere il coraggio di sostituire “essere niente” con “niente”; niente di definito che possa fungere da predicato a qualcosa tramite la copula “è”; un niente forse analogo a quello dell’esperienza pura, che condiziona la manifestazione pur senza essere qualcosa di manifesto. Perciò, per comprendere questa verità ultima che non si rivela se non perdendo la sua ultima ed eminente denominazione, fa notare Meister Eckhart, bisogna farsi simili ad essa, lasciarla distendere su di sé fino a cancellare i confini tra la conoscenza, l’apparizione, e l’essere del vero. Il genere di verità qui evocato è prossimo all’estasi del sentire, di cui solo gli artisti sono capaci di esprimere l’intensità; è simile a quello “stupore” del contatto sensibile in cui il soggetto stesso della sensazione si perde in essa, dove “muore” annegato nel suo oceanico splendore, e dove non rinasce che contrapponendosi (temporaneamente) ad essa. Solo che la verità eckhartiana necessita di una generalizzazione dello stupore nella quale ogni modalità di coscienza possa acquisire l’intensità e l’autenticità del sentire dopo aver demolito i filtri interpretativi che rischierebbero di distanziarcene. Tutte le interpretazioni devono essere vagliate, approfondite e infine dissipate come un velo di nebbia, per rendere possibile questo rapimento ineffabile del vero. “Prima che esistessero delle creature”, scrive Eckhart (ovvero prima di qualunque possibilità per loro di interpretare e categorizzare), “Dio non era Dio, Egli era ciò che era”. Il non-interpretato, l’acategoriale per eccellenza, non si lascia catturare da una categoria particolare, e soprattutto non da una categoria teologica che esorterebbe a escludere qualcosa o qualcuno. Egli è ciò che è; Egli è tale; dove “tale” dissolve fino a l’“Egli” introduttivo. Qui possiamo vedere meglio come interpretare i paradossi dell’autore del Cloud of Unknowing: non essere questo o quello non vuol dire ridursi al nulla (annullarsi), ma semplicemente, quasi con innocenza, essere tale; essere, cioè, pienezza di determinazioni senza alcuna limitazione da parte di qualsivoglia determinazione particolare e infine essere pregno di tutto. Di conseguenza, per scivolare in lui, per farmi simile alla sua anelata verità senza pretendere di afferrarla (poiché significherebbe perderla), “io prego Dio di liberarmi da Dio”. Io lo prego (ma chi è “lui”, chi è “io”?) di liberarmi dalle pastoie mentali che mi spingono a pregare “lui” piuttosto che un altro, di impedirmi di dare alla mia ricerca forma di preghiera, o altra forma o nessuna forma; in altre parole, io lo prego di evitare che io “lo” determini in atto. Se mi avvalgo del veicolo dello stato di credenza, qui rappresentato dall’atteggiamento di preghiera, è solo per trasportarmi lontano dalle sue strettoie, presso la sorgente generativa, che non si cura dei limiti e del vocabolo stesso che tenta invano di definirla. 

Anticipando la fine di questo testo, scopriamo che lo stato di assorbimento, quando spinto all’estremo, sfocia su un territorio che non ha nulla di strano, e che appare insolito soltanto in quanto privato della sua mappa catastale: ciò che è, così com’è. L’ascesi, che prometteva una fuga dal mondo, una percezione estatica della trascendenza, si è dimostrata al contempo molto meno e molto più di tutto questo; non una porta verso un altrove, ma un rivelatore del qui così come non eravamo più capaci di percepirlo per via di un eccesso di conoscenza. Il che, senza rendercene conto, ci riporta a uno degli aspetti principali della scoperta del Buddha Śākyamuni, quella che lo ha indotto ad andare oltre l’insegnamento della tradizione contemplativa brahminica e a inventarne una nuova. Secondo la sua tradizione, le tappe meditative e gli stati di assorbimento ad esse connessi, già noti prima di lui, non sono che altrettanti stati di coscienza particolari; le tappe meditative non possiedono di per sé le chiavi della libertà da qualunque forma di coscienza o da qualunque esperienza possibile. Secondo la sua tradizione, infatti, la concezione ascetica dell’itinerario da compiere, della fuga, del passaggio verso un altro luogo (e del relativo rifiuto dell’ordinario), è proprio ciò che ci impedisce di affrontare il problema dell’esistenza in tutta la sua portata, la quale interessa niente meno che tutto ciò che si manifesta, così come si palesa, ovunque ci si trovi, qualunque sia il proprio stato di coscienza.   

 

Sulla meditazione analitica

Questa innovazione buddista rappresenta un’inconsueta dilatazione della vita contemplativa che la rende coestensiva con l’esistere. Tuttavia non è del tutto inedita, poiché se ne può riconoscere un abbozzo un po’ criptico nella tradizione indiana pre-buddista. In poche e scarne parole, presto messe in secondo piano dal fluire del suo testo, la Chāndogya Upanisad già suggerisce alcuni dei suoi elementi: “la meditazione (dhyāna) è più della coscienza (citta)”; “il discernimento (o la coscienza discriminante) (vijñāna) è più della meditazione (dhyāna)”. Pertanto, secondo i maestri dell’India tardo-vedica, i cui scritti sono precedenti all’insegnamento del Buddha (tutt’al più a lui contemporanei), esiste qualcosa di più cruciale della meditazione, di più importante degli stati di assorbimento detti dhyāna. Questo qualcosa è la capacità di dimorare in modo così preciso nell’esperienza presente da riuscire a discernere la sua fine granolarità prima che inneschi l’impulso di desiderio-repulsione tipico della percezione, e prima che venga elaborata dalle generalizzazioni e dalle antinomie dell’intelletto. Questa correzione della gerarchia degli stati di coscienza rappresenta un’eccellente transizione per giungere al secondo livello dell’edificio contemplativo, all’esame analitico dell’esperienza, alla visione penetrante (vipaśyanā).  

La tecnica contemplativa, se non è auto-imposta come costrizione, ma è lasciata a tutte le sue potenzialità, dona dopo tutto accesso ad un dominio infinitamente più vasto di quello del semplice stato di assorbimento. Il seguito dei versi prescrittivi del Buddha lo mostra in modo inequivocabile: “Inspiro e sono cosciente della mente; espiro e sono cosciente della mente”. In altre parole, la focalizzazione sul ritmo ripetitivo del respiro non ha vocazione al monopolio; può servire come punto d’appoggio dell’attenzione, come riferimento per le nostre frequenti distrazioni, come “bussola” per orientarci nell’attività mentale, come asse psicosomatico che stimola ad essere vigili verso ciò che turbina intorno al respiro nell’esperienza. Ogni volta che perdo il filo dell’attenzione sul respiro, posso sapere che mi sono smarrito, mentre senza questa “bussola” mi limiterei a saltare da un tema mentale ad un altro senza rendermene conto. E ogni volta che faccio ritorno su questo binario attenzionale, raggiungo una modalità stabile dell’esistere che mi rivela, nei suoi contorni, una quantità di eventi e di fugaci e delicate qualità vissute, alle quali, altrimente, non avrei dato la minima importanza. Anzi, la necessità di identificare le circostanze durante le quali la mia attenzione inizia a divagare per poterla ricondurre più rapidamente al suo asse o alla sua “bussola” respiratoria, diventa un’ottima guida per studiare le formazioni mentali sul loro nascere, nel punto stesso in cui esse si percepiscono ancora come puri fenomeni fluttuanti.  

Ora, la tappa ulteriore della prescrizione buddista è perciò proprio questa: “In ciò che vedi, vedi solo ciò che è dato da vedere; in ciò che senti, senti solo ciò che è dato di sentire”. Vedere e sentire i fenomeni allo stato nudo, senza categorizzazioni concettuali sovraimposte, ma non senza una attitudine al vigile discernimento: è questo il principio della visione penetrante. È a questo prezzo che il riorientamento dell’attenzione, secondo tempo della procedura iniziata con l’epochè, dopo il primo che era la sospensione degli interessi ordinari, è pienamente realizzato. Perché il riorientamento, ridiciamolo, non equivale a ripiegare l’intenzionalità verso l’interiorità, ma a rilassare le concentrazioni dell’attenzione sino a rendersi ricettivi a tutto ciò che si manifesta senza aggiungergli delle discriminazioni: né la discriminazione interiore-esteriore, né le sovradiscriminazioni dell’attività semantica. Il riorientamento è accoglienza e accettazione senza limiti; un’accettazione così vasta da non rimandare immediatamente ogni evento vissuto ad un altro che sarebbe desiderato, temuto, o semplicemente atteso, ma che si sofferma su di esso assaporandolo e ponderandolo così com’è, e che lo esamina con curiosità neutra e vagamente benevola in tutti i suoi aspetti percepiti. Qui, come nei processi di riduzione trascendentale, non cerchiamo di perdere il mondo, ma di evadere dai suoi sentieri battuti arrendendoci a tutta la sua evidenza. Per favorire questo riconoscimento e questa nuova libertà, occorre da una parte operare una lieve deiscenza o defocalizzazione dell’attenzione al fine di renderla più ampia che mai rispetto ai suoi bersagli, e dall’altra aver stabilizzato questa attenzione subito prima della sua dilatazione.

 

Ma a che cosa ci apre la ricettività a ciò che si mostra, e la capacità di un esame neutro e attento, della visione penetrante? Che cosa è che si vede e si sente quando ci si concentra solamente su ciò che è dato di vedere e sentire? A quale particolareggiata struttura dell’apparire dà accesso il “microscopio” vipaśyanā? È a queste domande che mira a rispondere quella che si potrebbe definire “proto-fenomenologia” dell’Abhidharma del primo buddismo indiano, completato dai suoi commentari nella ulteriore tradizione Theravāda dello Sri Lanka e del sud-est asiatico. Lo stato di coscienza stabilizzato, accogliente, ma in allerta del meditante vipaśyanā ha come frutto la polverizzazione di ciò che si manifesta. Il suo processo di messa tra parentesi di tutte le tensioni verso degli obiettivi globali, che si appoggia su un semplice innalzamento dell’attenzione, giunge a frammentare l’apparire in una miriade di “dharma”, cioè di atti mentali puntuali, di fenomeni effimeri, o avvenimenti-folgorazioni isolati gli uni dagli altri. Così come lo sguardo sostenuto, concentrato, saldamente fisso del pittore, frantuma le superfici visibili in molteplici scintille di colore che possono poi essere trasposte sulla tela divenuta impressionista, le lunghe sessioni vigilanti della “visione penetrante” atomizzano la struttura percettiva e categoriale del vissuto nel suo fluire, fino a consumarne la trama e a mostrarne il suo carattere costruito.

Al termine di un tale lavoro di disgregazione, per non dire di sbriciolamento, dell’apparire, risulta evidente che qualsiasi entità con vocazione alla generalità, o con una pretenzione pur debole di permanenza, non può che essere considerata come una disposizione convenzionale di fugaci fenomeni. Nè gli universali concettuali, nè la sostanza imperitura, nè soprattutto la persistenza dell’“ego”, possono essere considerati se non come mere attribuzioni fittizie aventi finalità pratiche e funzione di pseudo-collante per una realtà che appare frammentaria e intermittente. Anche se la profondità di questa decostruzione della stoffa del mondo può risultare perturbante per chi la comprenda, e senza dubbio più ancora per chi ne fa esperienza diretta, è lei ad essere considerata come la miglior garanzia della finalità soteriologica del buddismo, in quanto dissipa l’illusione della costanza di sé e delle cose, e “placa” in tal modo il vano impulso a catturarli in maniera durevole.

Questa non è, ciononostante, l’ultima tappa del percorso. Così come lo stato di assorbimento si amplificava, volenti o nolenti, in una predisposizione alla visione penetrante analitica dell’intero campo d’esperienza, la visione penetrante sfocia a sua volta in modo tanto volontario quanto involontario, in uno stato ancora più totalizzante, che abbiamo già evocato come orizzonte di spoliazione categoriale e che potremo avvicinare in tappe successive. La visione penetrante presuppone, lo ribadiamo, di lasciar essere, di lasciar fare, di non perseguire più ciò che si manifesta nell’esperienza, al contrario di esaminarla così com’è, dopo aver riposizionato l’attenzione su di essa. Ma il perseguimento non è che un altro nome della significazione. Seguire un pensiero, svilupparne le conseguenze, equivale a lasciarsi trascinare da esso verso ciò che designa, verso la preoccupazione che esprime, verso le sfere lontane ma inquietanti di un evento passato che non si è svolto come avremmo voluto, o di un futuro altrettanto più nebuloso quanto più il suo protagonista egologico è incerto sulle proprie intenzioni. Non seguire un pensiero o una configurazione mentale, significa al contrario tagliarlo fuori dal circuito significante, ossia fuori dalla scansione ripetitiva del rimando di ogni momento presente di esperienza ad un altro momento virtuale, atteso o allucinatorio d’esperienza. Con questa riflessione sulla sospensione della funzione significante, la prescrizione corrente secondo cui meditare vuol dire saper (ri)vivere nel solo momento presente, o secondo cui immergersi nell’ orazione significa “accontentarci del momento attuale”, lascia intravvedere non soltanto la sua portata metafisica ma anche, e soprattutto, la sua qualità fenomenologica.


Michel Bitbol è Direttore di ricerca emerito presso il CNRS e Archives Husserl a Parigi. Laureato in medicina, con un dottorato in fisica e una “Habilitation” in filosofia, ha curato i testi di Erwin Schrödinger ricevendo nel 1997 il premio dall’Académie des sciences morales et politiques, per il suo lavoro sulla filosofia della meccanica quantistica. In seguito ha approfondito lo studio delle relazioni tra fisica e filosofia della mente. Tra le sue pubblicazioni recenti: La conscience a-t-elle une origine? (2014); Maintenant la finitude (2019). Ha curato la raccolta di lavori di Francisco Varela Le cercle créateur (2017).
 

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