Il riscaldamento globale sta modificando rapidamente il pianeta su cui viviamo, e forse è tempo di provare a immaginare come sarà tra qualche anno. Firenze circondata dal mare? Non è fantascienza, ma uno scenario possibile con cui fare i conti.
In copertina “Paesaggio di rocce”, un’opera di fausto pirandello oggi all’asta da pananti casa d’aste.
Nell’autunno 2018, l’Italia del nord-est (insieme ad altri paesi dell’arco alpino) è stata investita dalla Tempesta Vaia, una perturbazione con venti che hanno in realtà raggiunto la velocità di un uragano. I danni ammontano a milioni di alberi caduti, 42 milioni secondo le stime – un dato mai rilevato in precedenza nel nostro paese. Al di là delle cifre, quel che più colpisce è recarsi nei luoghi interessati dal disastro e notare i profondi mutamenti nel paesaggio, a tratti irriconoscibile, e la conseguente cascata di effetti nocivi sugli equilibri delle comunità locali.
Viene in mente un libro uscito nel 2020 a firma di uno dei più conosciuti divulgatori scientifici italiani, particolarmente brillante e attivo sul tema del cambiamento climatico, il climatologo Luca Mercalli. In Salire in montagna Mercalli prendeva in esame la soluzione apparentemente più semplice alle minacce del climate change: migrare, allontanarsi dalla fiamma che scotta, approfittando dei paradisi montani che sembrano spaziosi e pronti ad accogliere frotte di cittadini litoranei. Il sottotitolo del libro metteva però in guardia da facili interpretazioni: “prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale”, dove la parola chiave è proprio “sfuggire”, evadere dal problema, ritardarlo, provare a ignorarlo anziché risolverlo. Perché quelle aree montane non sono paradisi né asili spaziosi come immagina il turista. Sono aree straordinariamente rustiche eppure, al tempo stesso, straordinariamente fragili quando sottoposte alla pressione umana. E soprattutto, come dimostra la Tempesta Vaia, non sono affatto immuni alle conseguenze del cambiamento climatico; ne sperimentano anzi la parte più dura, perché a luoghi estremi corrispondono mutamenti estremi – una più alta forbice nello scarto di temperatura, lo scioglimento dei ghiacci che, contrariamente a quanto può suggerire l’intuito, impoverisce il territorio d’acqua, e altro ancora.
Se anziché fughe cerchiamo soluzioni, o quantomeno strategie, è evidente che serva qualcosa di diverso. È necessario immaginare in senso realistico, concreto, anche pessimistico. Mettere in comunicazione la scienza e l’arte tramite i punti che hanno in comune, gli appigli sul mondo reale. Viaggio nell’Italia dell’Antropocene, di Telmo Pievani e Mauro Varotto, da poco uscito per le edizioni Aboca, è un libro che riesce molto bene in tale scopo, al punto che avrebbe potuto usare un pizzico di coraggio togliendo un aggettivo di troppo dal sottotitolo: “la geografia visionaria del nostro futuro” è in realtà la geografia del nostro futuro – si parla di un worst case scenario, certo, in cui l’uomo non riuscirà a frenare le emissioni inquinanti e l’aumento globale delle temperature, ma la natura ipotetica di tale scenario non lo rende meno vero, meno incombente.
Il viaggio del titolo è un viaggio letterario, perché richiama il Grand Tour che Goethe compì in Italia nel 1786, ambientandolo mille anni dopo con un altro protagonista germanico, benestante e colto, Milordo, che scende a visitare la vecchia-nuova Italia assediata dalle acque.
Né utopia né distopia, l’esperienza di Milordo ci racconta un mondo che riesce a restare uguale a oggi nonostante il terreno ci sia crollato letteralmente sotto i piedi: la pianura padana è scomparsa sott’acqua, la costa adriatica è rosicchiata dai fiordi, le grandi città sono serre inabitabili o si sono convertite in bunker climatizzati, Firenze è ai bordi di una laguna e nel sud del paese avanza il deserto popolato dai migranti africani, eppure ci sono ancora i turisti come Milordo che vengono ad apprezzare la buona cucina (sebbene faccia uso di pietanze più tropicali di un tempo) o visitare i centri storici mantenuti in vita sulle palafitte, e in tutto questo i cittadini facoltosi hanno colonizzato la montagna, prosciugandola, fuggendo dal problema anziché cambiare paradigma per risolverlo perché, forse, siamo davvero una società incapace di visualizzare un orizzonte temporale più lungo di un paio di generazioni, e ci lasciamo irretire dai cambiamenti incrementali credendoci a cavallo di un aereo che vola, mentre invece precipita coi motori spenti.
Per alcuni, questa incapacità di pensare in prospettiva sarebbe un tratto della nostra natura animale, una facile giustificazione per sentenziare come Margaret Thatcher “there is no alternative” e adagiarsi in comodi negazionismi, quando invece la verità biologica è che siamo ciò che siamo proprio perché dotati di immaginazione: tra il prefigurarsi la presenza di un pericoloso predatore in agguato fra gli alberi o disegnare nella mente la sagoma di un’Italia allagata, la differenza è solo una questione di proporzioni.
Per questo un libro come Viaggio nell’Italia dell’Antropocene è prezioso e importante. Siamo nell’abitacolo di una macchina che viaggia più veloce di noi e non ha bisogno della nostra guida, e per scendere serve un gesto di immaginazione che parta dalla scienza e si muova intorno a essa. Pievani e Varotto sono appunto due scienziati che operano sul fertile confine tra geografia, biologia e filosofia. Se le loro voci si alzano in allarme non è per interpretare il ruolo di Cassandra o dell’uccello del malaugurio, sperando di azzeccare la profezia. Sono i primi a precisare che lo scenario da loro proposto è estremo, affrettato, implausibile. Ma il punto è proprio questo: implausibile, ma non impossibile. È lo scenario che si verificherà se, a parità di altri fattori, proseguiremo a trattare il pianeta come facciamo adesso. Non è questione di accodarsi alla moda dell’antropocene né di cedere a un facile pessimismo di facciata: l’approccio, anzi, è necessariamente realista, perché se estraiamo dal sacchetto una biglia bianca, verde o rosa e si verifica il best case scenario non avremo nessun problema, ma se estrarremo una biglia nera, o se scopriremo che il sacchetto è vuoto, chi si preoccuperà del nostro destino, se nessuno conosce i dati e i fatti? Dipesh Chakrabarty descriveva l’antropocene, o anche capitalocene, come l’epoca in cui l’uomo passava da agente biologico a forza biologica, da ambientato passava ad ambientante. In Esiste un mondo a venire? Deborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro aggiungevano che oggi “la geologia entra in risonanza geologica con la morale”, il che però non moralizza la geologia ma rende geologica la morale. Significa che, operando un cambio di prospettiva e sforzandoci di considerare i tempi della storia profonda, nell’orologio evolutivo della specie o nelle fasi terrestri l’homo sapiens è esso stesso la catastrofe, un evento improvviso e devastante, che a posteriori avrà avuto un “ruolo cruciale, tardivo e molto probabilmente effimero”.
In questo senso, è importante che Pievani e Varotto scelgano la sponda letteraria e traccino un parallelo fra il Grand Tour di Goethe e il viaggio di Milordo. La fantasia, potenziata da immagini già presenti nella memoria collettiva, diventa un mezzo d’azione. E a ogni tappa del viaggio, il libro presenta una raccolta di fatti che fa da controcanto alla fiction. Cifre enormi, destabilizzanti, ma che riusciamo a interiorizzare e maneggiare più facilmente proprio grazie al filtro della finzione, al patto narrativo di trovarci davvero nel 2786. Si parla di migranti climatici, dei ghiacci che si sciolgono e dei mari che salgono, di dissesti geologici e idrografici, di desertificazione, di perdita di biodiversità, di sovraffollamento, di problemi sociali e convivenza fra uomini e animali: tutti fenomeni già presenti ed evidenti, che talvolta scegliamo di ignorare ma che, superata una certa soglia, esploderanno fino a diventare ingestibili. Questo è forse il messaggio principale è più urgente di Pievani e Varotto, e del resto i tempi sono stringenti – basti pensare a quanto il pur valido concetto di decrescita abbia perso trazione in favore di alternative più drastiche: è tutto già qui sotto i nostri occhi, basta allenare il pensiero critico e il senso delle proporzioni per vedere l’Italia con lo sguardo di Milordo. Non serve immaginare grigi futuri distopici, perché nella catastrofe la vita di tutti i giorni deve pur continuare e spesso lo fa in modo più banale di quello che pensiamo; ma non dobbiamo nemmeno indulgere nell’attesa di soluzioni magiche, perché un altro punto chiarissimo è che il danno è già stato fatto, il pianeta è già profondamente ferito, e si tratta di restare in equilibrio mentre il mondo trema.
Serve sensibilità e intelligenza per vivere su un pianeta ferito. C’è un altro pregevole libro che parla proprio di questo. Arts of Living on a Damaged Planet, raccolta di saggi originatasi da una serie di interventi e conferenze accademiche, che ospita scritti di autrici e autori come Anna Tsing, Donna Haraway, Heather Swanson, Elaine Gan, Nils Bubandt. È un testo rivolto al futuro, diviso in due sezioni fra i fantasmi che popolano l’antropocene – l’assenza di ciò che l’uomo ha cancellato, le tracce indelebili del suo passaggio – e i suoi mostri, gli ibridi bizzarri (che sono talvolta creature biologiche e talvolta concrezioni del pensiero) che si coagulano per navigare attraverso la catastrofe. Eppure, scorrendo i saggi che lo compongono si rimane colpiti dall’insistenza con cui lo sguardo si posa sui mondi antichi, sulle apocalissi passate, su organismi primitivi. Passato e futuro, del resto, sembrano essere i due poli chiave per interpretare un presente che ci sfugge, perché il progresso si muove più velocemente della nostra comprensione e perché i fatti a cui vogliamo opporci e contro cui corriamo ai ripari sono già avvenuti, e noi dobbiamo anticipare il loro impatto futuro, per avere una chance. Come scriveva brillantemente Bruno LaTour: “La rivoluzione ha già avuto luogo, gli eventi con cui abbiamo a che fare non risiedono nel futuro, ma per la maggior parte nel passato, qualsiasi cosa si faccia, la minaccia incomberà su di noi per secoli, o addirittura per millenni”. È per questo motivo che alcune branche della fiction e della saggistica contemporanea sembrano nascere già in ritardo, ripiegandosi su un infinito presente antropocentrico tutto racchiuso nella dimensione umana. Le voci più ispirate, invece, guardano oltre l’antropocene, lo danno per consumato e consolidato, non si illudono di poter invertire il flusso con il pensiero magico, e si spingono oltre il punto di vista di chi ha fatto il danno – perché quello sarà, probabilmente, il punto di vista di chi sopravvivrà.
-->Ed ecco che, allora, in Arts of Living on a Damaged Planet troviamo un vulcano di fango, in Indonesia, che dal 2006 emana metano e zolfo, innescato dalle trivellazioni, e scaccia la popolazione che cerca di contenerlo erigendo dighe e scavando tunnel. Ci sono licheni che funzionano come interi micro-cosmi, alloggiando decine di migliaia di altre specie al loro interno. Sembra di intuire che il nostro territorio, la nostra geografia sia già segnata dai marchi di estinzioni e catastrofi, ma per apprezzarle in filigrana occorre far combaciare due strategie. Una è il distacco, che si concretizza in etichette forse pedanti ma utili a inquadrare un iper-oggetto come l’antropocene: è lo sguardo che permette a Andrew S. Mathews, studioso della University of California a Santa Cruz, di esplorare i boschi di castagni e faggi del nostro appennino, per noi familiari e rivestiti ormai della funzione di luoghi dell’anima, rinvenendo i fantasmi di antiche civiltà e coltivazioni da cui potremmo apprendere modelli preziosi – che è poi lo stesso senso di fascinazione che va coltivato se, come J. G. Ballard, siamo disposti a convincerci che “l’unico vero pianeta alieno è la terra”, pensare dunque alla Terra come a un’entità indipendente, organica, che non ha alcun nome né forma da offrire alla nostra comprensione, non è né la benevola, tenera Gaia né la truce Medea che stermina i propri figli. Mathews, che conosce bene il nostro territorio, dice (e sembra di sentire un’eco del viaggio di Milordo): “Siamo ormai certi che il cambiamento climatico porterà a eventi intensi: alluvioni, siccità, frane e incendi. Gli ecosistemi mediterranei, e in particolare quello italiano, si sono evoluti imparando a convivere con un clima già esposto a cambiamenti drastici, eventi catastrofici e pesanti interventi umani, perciò sono un ottimo luogo per apprendere qualcosa sul cambiamento climatico e l’antropocene. Il territorio contiene storie che fungono da ispirazione e da avvertimento”.

La seconda strategia è la prospettiva storica, o ancora meglio, ciclica. Pievani e Varotto ce la propongono richiamando alla memoria la natura stratificata dell’Italia antropocenica, il suo indissolubile legame con la storia dei manuali scolastici, l’orgoglio dei suoi reperti. Ma ecco che spostando il punto d’osservazione i monumenti escono dalle foto dei manuali scolastici o dagli opuscoli dei turisti, tornano a essere vivi e in mutamento, li intendiamo come testimonianze lasciate dai sopravvissuti – prima che dai vincitori – e capiamo che negli strati di macerie su cui poggiano le nostre città riposano anche innumerevoli vite umane. I tesori di Napoli abbandonati sul fondo del Tirreno e visitabili soltanto con licenza da sommozzatore; il campanile di San Marco che affiora, solitario e appuntito, tra le acque della laguna espansa; il Colosseo e i Fori Imperiali smontati e ricostruiti, Roma che torna sui colli all’epoca pre-repubblicana. Sono tutte immagini di straordinaria forza, che ci servono da appoggio per capire che la brutale accelerazione dell’antropocene è più preoccupante del normale avvicendarsi di climi, culture, creature. Pievani e Varotto ipotizzano altri affascinanti pezzi nell’effetto domino del disastro. Le coltivazioni che cambiano e la cucina che si affanna per mantenere un’impronta mediterranea integrando meduse e alghe, gli spostamenti nell’asse del potere globale (con l’equatore invivibile, l’India allagata e il cuore della civiltà che batte nella fresca Europa del nord), gli spostamenti fisici di milioni di migranti con il conseguente mescolamento di etnie e lingue, il rischio di tensioni e guerre civili, i soldi che comprano la sopravvivenza, elementi incassati nella cultura nel giro di millenni che si ritrovano improvvisamente sbalzati fuori dalla bussola. E più che una questione di avvicendamenti, è una questione di distruzione, di perdite irrimediabili: i ghiacciai, certo, ma anche una Sicilia desertica e inabitabile. Se gli uomini procrastinatori dell’Italia antropocenica sono fuggiti sulle montagne, noi capiamo invece che lo stesso gesto di scrivere una storia immaginata, una geografia visionaria, è già un passo strategico, un tentativo di comprensione e soluzione: significa dissotterrare reperti, allacciare collegamenti, costruire scale, addentrarsi nel buio senza torcia e gettare ponti sopra il vuoto, ma sempre lasciandosi dietro una scia di briciole, sempre intenzionati a tornare indietro per raccontare la nostra avventura, perché come diceva Ursula K. Le Guin (anche lei postumamente presente in Arts of Living on a Damaged Planet), chi scrive storie fantastiche è semplicemente “un realista di una realtà più grande”.
In tutto questo, Milordo è preso tra due fuochi. Lui è uno di quei fortunati germanici (o forse un benestante emigrato di qualche generazione fa) che nell’Italia antropocenica cerca un parco-avventure che assomigli a un viaggio nel tempo, un museo disabitato a cielo aperto, il brivido di guardare le cose morire – o quelle già morte – da un certa distanza di sicurezza. Mentre fa il turista nei resort climatizzati, però, inizia a rendersi conto che in quell’Italia vivono persone vere, e si chiede se la responsabilità del disastro non sia in fondo anche un po’ sua – dei suoi antenati che, settecento anni prima, andavano in vacanza nei resort africani o asiatici godendosi quell’atmosfera posticcia e ignorando chi, fuori dalla bolla, soffriva i mali di un mondo incandescente. Eppure, si continua a girare la manovella dell’aereo, credendolo in volo mentre invece sta cadendo. Si spostano e ricollocano gli ingranaggi della macchina, pur di non spegnerla, pur di non cambiare il paradigma. Milordo si rende conto dell’immane lavoro di manovalanza e delle risorse economiche che è stato necessario spendere per riedificare le città in collina, per costruire le palafitte, per ripescare i monumenti dal mare, per chiudere l’avveniristica Milano in una calotta tecnologica. Lui non se lo chiede esplicitamente, ma forse lo pensa e ce lo chiediamo noi: non avremmo potuto spendere tutti quei soldi e quelle energie in un’altra direzione, prima che fosse troppo tardi, prima che non ci fosse davvero alternativa? E in questo dubbio, in questa frizione, sta un altro dei problemi critici di chi affronta il tema del cambiamento climatico con coscienza imparziale. Così com’è difficile quantificare e immaginare il collasso osservando i piccoli mutamenti incrementali, è altrettanto complesso coltivare fiducia nella soluzione a forza di piccoli atti quotidiani, di piccoli gesti di guarigione.
A che serve chiudere il rubinetto ed evitare gli sprechi, questo è il dilemma ridotto al suo più banale nocciolo, al cospetto di un sistema che continua ad alimentare i propri titani che inquinano, distruggono e appestano? Danowski e de Castro hanno ben esplicato il concetto con frasi come questa: “Tutto ciò che facciamo localmente ha delle conseguenze sul clima globale, ma d’altro canto le nostre piccole azioni individuali di mitigazione sembrano non avere nessun effetto osservabile. Siamo prigionieri di un generalizzato divenire-folle delle qualità estensive e intensive che riguardano l’interno sistema biogeofisico della Terra. Non è sorprendente che alcuni climatologi facciamo riferimento al sistema climatico attuale come bestia climatica”. È un dilemma che risuona anche nell’esperienza di Milordo, e che Pievani e Varotto risolvono con un rasserenante piglio tranchant: va fatto per fede, coraggio e istinto, per opporsi alla bestia climatica anche se non la capiamo e provare, insieme, a uscire dalla prigione, perché la vita su un pianeta ferito è un’arte sottile che s’impara solo con l’esperienza. Perché in fondo, come scrive Dorion Sagan proprio in chiusura di Arts of Living on a Damaged Planet, “il nostro mondo è un mostro bellissimo e spaventoso” – che vive con o senza l’uomo e la sua impronta.
Andrea Cassini, classe 1988, filologo medievale di formazione, è giornalista, traduttore e consulente editoriale. Scrive di sport per FIBA, L’Ultimo Uomo, Play.it USA e altre testate. Ha pubblicato racconti su riviste letterarie e nelle antologie “Prisma Vol. 1” (Moscabianca Edizioni) e “Forme d’Autore – Cinque racconti di arte contemporanea” (L’Eco del Nulla – Associazione Essere). “Non tutto il male” (Effequ) è il suo primo romanzo
0 comments on “Come si vive su un pianeta ferito”