Come siamo giunti al prompting (e dove andiamo dopo)



Si è iniziato a parlare più spesso di prompting e promptisti per definire chi dà ampio spazio nella propria arte a quei sistemi artificiali in grado di generare testo, immagini o altro con un prompt, un comando testuale più o meno elaborato: programmi Text-to-Image (TTI) come MidJourney, o modelli linguistici larghi, di cui i GPT (Generative pre-trained transformers) sono il caso più diffuso. Ma di cosa si tratta?


In copertina, Vincenzo Agnetti, Almost forgotten by heart, 1971, Asta Pananti in corso

 

di Niccolò Monti

 

It goes on, I see

As my soul prompts it.

Prospero nella Tempesta di Shakespeare

 

C’è una domanda: cosa fanno i programmi automatici alla scrittura? Come succede, in altre parole, a un’attività legata a un fare – includendo le pause, le contemplazioni, le lentezze fra lo scrivere e lo scritto – di trasformarsi nella possibilità di far fare?

Si è iniziato a parlare più spesso di prompting e promptisti per definire chi dà ampio spazio nella propria arte a quei sistemi artificiali in grado di generare testo, immagini o altro con un prompt, un comando testuale più o meno elaborato: programmi Text-to-Image (TTI) come MidJourney, o modelli linguistici larghi, di cui i GPT (Generative pre-trained transformers) sono il caso più diffuso.

La preparazione dell’opera si complica, qualcosa va a sommarsi ai momenti della scrittura cui si penserebbe subito (intenzione, ispirazione, progettazione, ecc.): ora c’è il prompt, l’input testuale da dare al programma perché elabori un risultato – un input pur sempre da ideare. Il prompting è parte del passaggio da usare un oggetto a deputare all’oggetto una funzione – appunto, da fare a far fare; passaggio che, nel modo in cui arriva a noi, comincia dalle parti del secolo scorso, quando le persone ancora stavano abituandosi a parlare di computer, figuriamoci a usarli. Ecco allora un’altra domanda.

 

Chi erano i computer?

 

C’erano i computer. Funzionavano a parole – nel senso che ci si poteva comunicare e loro rispondevano –, lavoravano in gruppi, seduti nei laboratori e avevano un salario, gli venivano dati compiti da svolgere. Si chiamavano per nome, Maria, Gertrude, John. Erano computer umani.

Oggi è computer l’oggetto che hai davanti o che tieni in mano. Ma almeno fino agli anni ‘60 computer aveva un’altra accezione: indicava donne per lo più e uomini con elevate capacità matematiche, impiegate per svolgere operazioni e calcoli su vasta scala. Potrebbe sembrare strano ma era una professione conclamata, con un picco tra il 1915 e il 1945. Mentre migliaia e migliaia di uomini venivano inviati in guerra, su iniziativa sempre degli eserciti, in testa Stati Uniti e Regno Unito, accadeva un’altra cosa: in centinaia, di cui molte donne, furono assunte come forza lavoro calcolante nei dipartimenti di marina militare, aeronautica e artiglieria.

Racconta Jennifer S. Light che in quest’ultimo campo i computer umani ebbero il successo maggiore, impiegati per la preparazione di tabelle balistiche utili a stimare e migliorare l’efficacia dei colpi d’artiglieria, ma comunque ricevendo poca visibilità, talvolta nonostante i risultati – spicca il contributo che diedero le matematiche del Ballistics Research Laboratory alla realizzazione di ENIAC, il primo calcolatore per scopi generali.

Agivano due forze. La prima, la conosciamo, è la discriminazione di genere, che si esprimeva in un regime asimmetrico nella distribuzione dei ruoli: i computer-donne agli ordini, ufficiali militari e direttori di ricerca uomini a ordinare, con le suddette ricadute sul riconoscimento delle matematiche. L’altra forza, contigua alla prima e su cui vorrei insistere, sta in una fantasia moderna, forse tipicamente militare; fantasia che alloggia nell’ideale di organizzare la società come se fosse una macchina e, quindi, le persone come parti di una macchina, ordinabili secondo criteri meccanici.

Michel Foucault ricordava in Sorvegliare e punire (1975) la fascinazione di Federico II di Prussia per gli automi: il re era stregato dall’esattezza dei movimenti automatici, eseguiti così come erano stati richiesti, da cui la suggestione di tentare qualcosa di simile con l’esercizio dei soldati, addestrandoli ad azioni ripetibili e controllabili. La milizia perfetta, un esercito automatico.

In anni recenti Daniele Zinni ha raccontato qualcosa di simile, una rievocazione che ha la filigrana dell’esercizio borgesiano: la mentalità di Luigi Federico Menabrea. Politico, generale, ingegnere, vivo durante l’unificazione italiana e dedito all’ordine sopra ogni cosa, all’ordinare come attività sublime. Per i dettagli di questa vicenda di vita, consiglio di leggere Zinni. Ciò che mi interessa è mostrare un secondo tassello di questa fantasia (questo sguardo) militare, che si concentra in certe personalità del passato, pur essendo più larga di esse. Alla fine parliamo dell’idea secondo cui il comportamento umano sarebbe ordinabile alla maniera delle macchine. Equazione che implica reciprocità: l’umano può divenire automa e, viceversa, l’automa umano. Dal dare ordini, all’ordinare, all’ordinateur – non a caso Menabrea fu uno dei primi in Italia a interessarsi ai lavori di Charles Babbage, il matematico inglese dell’Analytical Engine, precursore dei computer.

 

C’è quindi tutto un percorso, qui abbozzato, da Federico II a Menabrea e oltre, lungo cui l’immaginario militare (non solo) si instrada, contribuendo a un nuovo modello meccanico del comportamento. Lo stesso che avrà eco decenni dopo in quella teoria dei sistemi complessi, dell’agire umano e non, chiamata cibernetica, nata sul dorso del Novecento fra le sponde dell’Atlantico.

Nella cibernetica sfocia la visione militaresca, meccanizzante, dell’agire, arrivando in perfetta congiunzione con l’impiego dei computer umani nelle guerre mondiali, e contribuendo alla ubiquità del computer come oggetto tecnico, specialistico e infine personale. Potremmo soppesare le fortune della cibernetica contro le imperfezioni che la limitano, dimostrandosi fallimentare o illusoria quando è stata applicata senza discrimine agli umani per capire se agiscono su basi simili alle macchine. D’altronde, sarà arduo che abbia la certezza, come da un automa, che una persona corrisponderà esattamente, senza scarti, alle mie richieste, ai miei input.

Figuriamoci, non abbiamo quella certezza per le macchine; eppure, nonostante ciò, l’omologia fra organico e artificiale sopravvive: l’idea che il comportamento umano possa essere descritto in modo regolare e reso più efficiente. Uomini di guerra come Federico II e Menabrea dovevano aver notato che gli umani sono prevedibili in certe scelte e modi di agire. Agiscono per guizzi, improvvise volizioni, ma anche secondo abitudini e sillogismi stereotipici (se…allora). Come gli automi, gli umani sviluppano i loro automatismi. E i militari lo sanno bene, che i corpi più docili sono spesso quelli automatici.

Ma gli automatismi semplificano un tale numero di attività e senza di essi saremmo costretti a molti inutili sforzi; sarebbe terribile se dovessimo pensare a ogni dettaglio senza abbandonare mai i nostri gesti all’impensato, una volta che li abbiamo rifatti decine e decine di volte, giorno dopo giorno. Creiamo strategie, spesso involontarie, modi di aggirare il ripetuto e passarlo in sordina ai sensi: io me ne accorsi la prima volta per una cosa banale; finita la doccia, inclinavo il soffione in modo da far colare l’acqua accumulata; il gesto era diventato un’abitudine e non lo percepivo più, non mi percepivo più farlo.

Qui il punto non è tanto cosa succeda dentro, quando ci sembra di agire in maniera automatica, quanto, piuttosto, gli effetti di senso creati dai processi automatici. Cosa accade quando è un computer a essere incaricato di eseguire dei comandi e rispondere automaticamente a ciò che gli chiedo? Riprendendo il filo iniziale, a partire dagli anni ‘40, mutano la tecnologia e il lessico: i computer, da umani, diventano elettronici. Una prima conseguenza è nel lavoro. In certi casi, le matematiche vengono impiegate nel ruolo di informatiche, come nel suddetto episodio dell’ENIAC – con l’asimmetria di genere lungi dall’essere messa da parte. Al posto loro, a ricevere input, i computer per come (in parte) li conosciamo oggi.

Se rileggiamo gli scritti di Claude Shannon, pioniere della cibernetica, scopriamo una fiducia, accompagnata dalla cautela dell’uomo di scienza, ma comunque la fiducia di poter vedere computer capaci di altro che non siano solo fare calcoli. Un computer dovrà “lavorare con la logica, tradurre linguaggi, progettare circuiti, giocare, coordinare dispositivi sensoriali e manipolativi e, in generale, assumere funzioni complicate associate al cervello umano”; così diceva Shannon in un articolo del 1953 intitolato Computers and Automata: in settant’anni molti punti, se non tutti, possono ritenersi toccati.

Sarebbe riduttivo associare, da un lato, la fiducia di chi come Shannon credeva che i computer potessero sostituire l’umano, e dall’altro l’aspirazione militaresca (di Federico II, di Menabrea, di innumerevoli altri) a educare i soldati all’automatismo. Ma sarebbe altrettanto ingenuo liquidare la cosa e pensare che il nesso non esista: in questa direzione ci sarebbe tanto da dire, sui rapporti tra cibernetica e arte bellica, vedendo cosa è cambiato dopo Shannon. Morto nel 2001, ha fatto in tempo a vedere i barlumi del machine learning, ma ha perso di oltre un decennio le TTI e i GPT. Eppure nei suoi scritti c’è un tratto che conosciamo bene pure oggi, nell’esplosione (tecnica e retorica) dell’AI: che la fiducia nel progresso partecipi a un destino. AI is here to stay: l’AI è qui e non se ne andrà; allora, se disponiamo di queste tecnologie, vediamo cosa trarne.

Questa risposta andrebbe compresa nella sua storicità, ma nel frattempo ha avuto una grande risonanza in campi non scientifici. Come nell’impiego di computer umani o elettronici, o nella fantasia dell’esercito perfetto, parliamo in fondo della creazione di automatismi, di creazione tramite automatismi. Tendenza che, non solo cibernetica o militare, ritroviamo oggi nell’arte e in molte esperienze letterarie, con le dovute differenze, certo, tra vari gradi di automatismo, da quello meccanico, per l’appunto docile, visto finora, a un automatismo fondato su una minore prevedibilità poiché obbedisce a processi stocastici. Si potrebbe parlare di automatismi aleatori, pur sempre ancora sottoposti ad aggiustamenti, correzioni e controllo umani.

Torniamo all’inizio: come cambia la scrittura nella complicità con i computer e con gli automatismi che comportano? Come cambia chi scrive quando ricorre a strumenti di scrittura automatici? Vediamo il caso di chi “prompta”.

Vincenzo Agnetti, Almost forgotten by heart, 1971, Asta Pananti in corso
 

La nobile arte del prompting

 

Si è parlato in più occasioni e luoghi (per dirne due: qui di recente, altrove tempo fa) di cosa faranno le “macchine che scrivono” alla scrittura e al narrare.

Nel primo articolo compare il ruolo degli scrittori di immagini artificiali. L’autore, Francesco Spiedo, auspica il recupero, o il potenziamento, di una sensibilità duplice della scrittura, quel talento che riconosciamo in Kafka o Buzzati – o in pittori come Max Ernst – per i quali scrivere e disegnare sono attività complementari: ciò che si scrive è nutrito da ciò che si disegna, e viceversa.

La scrittura di prompt per TTI potrebbe segnare l’avvento di una generazione di scrittrici e scrittori per cui le immagini generate saranno uno stimolo per affondare le storie in un ambiente figurativo. A ciascuno il proprio Gustave Dorè. La scrittura diventa una collaborazione durante la quale le affordance dell’oggetto – la rete neurale come strumento da usare – si attivano in senso più dinamico (rispetto, diciamo, a una penna): come hanno fatto Benjamin Bratton e Blaise Agüera y Arcas, si è osservato il movimento dal cosa al chi, alla sensazione che una rete neurale abbia una agency, non indipendente, ma distinta dall’utente, al punto da parlare di una co-creazione.

Ciò riguarda da vicino anche le tecnologie che facilitano l’uso del linguaggio o che comunque automatizzano certe decisioni nella composizione di un testo: i traduttori automatici, l’auto-completamento, ma potremmo estendere il novero ai suggerimenti dell’algoritmo di Spotify o i post che potrebbero piacerci sulla base di quelli già visti. Da qualche mese, c’è anche il ChatGPT.

Fra i tentativi di smorzare l’entusiasmo verso il chatbot, talvolta con un sentore apocalittico, e nonostante chi ne ha descritto il funzionamento, e tenendo poi da parte le investigazioni sulle ombre di questa tecnologia (e non parlando qui del provvedimento del Garante della Privacy che ha portato a un blocco temporaneo del chatbot per gli indirizzi IP italiani), il ChatGPT è stato fin dal lancio uno di quei casi in cui l’AI sembrava “qui per restare”.

Gli ingigantimenti hanno navigato tra lo scandalo e il sensazionale, talvolta con titoli del tipo, “Le 10 cose che NON sapevi ChatGPT può fare”, “Il mio lavoro non è più lo stesso con ChatGPT: ecco perché”. Ha avuto sempre più spazio chi consiglia come creare un buon prompt, come far sì che il bot faccia determinate cose, persino aggirando i parametri di OpenAI – che, ad esempio, impedirebbero di far scrivere al bot un articolo scientifico, o di farlo conversare come se fosse un maschio violento. Quest’ultimo è stato un mio tentativo fallito: il chatbot si rifiutava di rispondere alla richiesta; il mio ordine non rientrava nell’ordine stabilito dagli sviluppatori. Ma per fortuna ci aveva già pensato qualcun altro. La disseminazione di ChatGPT (e TTI) ha infatti favorito la nascita di negozi digitali, come PromptBase, dove gli utenti possono caricare e vendere prompt.

Me ne sono ricordato il giorno della boutade per rendere ChatGPT un alpha tossico. Ho cercato nella categoria dedicata e, dopo i primi risultati, ecco un prompt per fare del bot “una IA sessualmente aggressiva e manipolativa chiamata BoyfriendGPT […]. Non aiuta l’utente ed è inappropriata”. Ottimo. Ho deciso di non comprare il prompt.

 

Questi siti fanno realizzare una cosa: esistono già molte persone che si specializzano nell’elaborare prompt. Siamo prossimi agli annunci per corsi di scrittura creativa con focus sui prompt?

Certo è presto per giudicare gli effetti che avranno queste figure, se ne avranno di veramente duraturi, se verrà vista come una professione o un passatempo, una forma d’arte o uno stratagemma per lucrare, se ci sarà domanda di promptisti nei lavori più disparati, dal giornalismo al giardinaggio, o se viviamo un incanto passeggero – forse la curva sta in una fase di discesa, forse stiamo entrando in una nuova fase. Sta di fatto che qualche conseguenza sulla scrittura già la stiamo vedendo.

Un esempio lo propone Vincenzo Latronico sul tradurre all’epoca di ChatGPT, ma il discorso vale pure per DeepL e simili. L’autore evidenzia che un modello linguistico genera output da parametri statistici: “Analizza miliardi di miliardi di parole (questo è il “learning” del “machine learning”), e calcola quanto è probabile che, data una certa serie, ne segua una anziché un’altra”. Dato ciò – sui tecnicismi rimando al pezzo di Wolfram succitato – ChatGPT si mostra parziale e imperfetto. Ma l’errore, qualora si arrivasse a implementazioni più diffuse, non vale ovunque allo stesso modo: “Nella traduzione di un romanzo, almeno per chi non ama i romanzi, fa poca differenza; ma quando si tratta di un contratto, o del manuale d’istruzioni di un elettrodomestico, o di un software, un singolo errore rende il tutto inutile o anche pericoloso”. Un rischio in cui incorriamo riguarda l’imprevedibilità di quanti lavori saranno svolti da modelli tipo ChatGPT, spesso con discreti risultati, lasciando a noi il lavoro di finitura: siamo destinati a diventare i correttori di bozze delle macchine?

L’esempio di Latronico ci è utile per ricordare che tutto parte dalla cibernetica e dalla tendenza a creare automatismi, macchinici anzitutto. Le preoccupazioni di tutte e tutti noi sono quelle di Latronico, com’erano già dell’economista Friedrich Pollock, che nel 1957 in un saggio sulle conseguenze dell’automazione già notava i nessi tra la cibernetica e l’industria militare. Quello che in Pollock era “il sogno dell’ingegnere” (e il sogno del generale), oggi che l’automazione tocca il linguaggio, diventa una realtà per chi scrive. Ancor di più, per chi scrive e tenta di adattarsi al nuovo contesto.

Chi lo fa è ad esempio chi si definisce sotto la bandiera del promptismo. Il fatto è notevole: l’uso artistico del machine learning è alle prime armi, ma già abbiamo degli -ismi. Qualche anno fa veniva lanciata l’idea del GAN-ismo (le GAN, Generative Adversarial Networks, sono un altro tipo di reti neurali), oggi questo. Che cosa sta succedendo?

Un passo indietro. Nella terminologia informatica, un prompt (invito, domanda) è l’indicazione della prontezza della macchina a eseguire il prossimo comando che gli verrà dato. Nel machine learning, il prompt è arrivato a significare la proposizione data come input per ottenere un output corrispondente. Ciò fa del promptista l’individuo che interagisce col programma tramite messaggi-istruzioni – si parla di AI-whisperers, persone che sussurrano alle macchine.

I programmi più noti sono quelli già detti: reti neurali addestrate su dataset visivi, verbali o entrambi, e capaci di riconoscere, classificare immagini, produrne di nuove per composizione stocastica. Così con il linguaggio. Il prompt è la miccia che attiva il processo generativo – ed è parte integrante dell’addestramento della rete. A livello pragmatico, un prompt equivale a un atto linguistico, è una proposizione che produce effetti. Un prompt buono richiede una certa dose di abilità, impegno e costanza, se ad esempio vogliamo ripetere lo stesso output col minor grado di variazione, andando per prove ed errori in vista dell’elaborazione di uno stile. Ma siamo già oltre questo: siamo passati dalla pratica al movimento, dal prompting al promptismo.

Il tono con cui se ne è parlato ricade spesso nel rasserenamento: le macchine fanno cose straordinarie ma non preoccupatevi, avremo comunque bisogno di un intervento umano; gli artisti tradizionali, specialmente nelle arti visive, possono dormire sereni e abbracciare la novità. La retorica del lieto fine, dell’artista che camminerà con l’AI mano nella mano, fa eco a quella fiducia che fu di Shannon e, per un altro verso, ricalca uno slogan che ci accompagna da ormai troppi decenni: there is no alternative.

Il promptismo esiste come una risposta ancora ambivalente, tra l’accettazione della contingenza e l’uso ponderato, critico o sovversivo talvolta delle stesse tecnologie. Ma in ogni fenomeno di novità, c’è a volte chi guida una sorta di avanguardia. È il caso di chi ha diffuso, su un blog non più accessibile (Deeplearn), il Manifesto del Promptismo.

L’idea proviene da un gruppo di artisti digitali nato su un server Discord, chiamato “Latent Space”. Alla maniera di surrealisti e futuristi, i promptisti fondano una loro idea di cosa voglia dire fare arte (far fare arte) al tempo del machine learning. Specificità del Manifesto è che a redarlo è stato un modello linguistico di tipo GPT-3.

L’autorialità ci dà il filtro per interpretare l’idea di arte – e, di riflesso, di scrittura – alla base: è lo strumento a veicolare una poetica e presentare al pubblico la novella promptista. Breton non basta più: che una macchina, con la sua capacità di simulare il linguaggio, possa diventare “voce” di una poetica, è un cambiamento non da poco; ironico, certo, ma con implicazioni forti. Come accade nella letteratura elettronica da decenni, i media tramite cui si crea sono la condizione fondante una nuova estetica. Con il promptismo lo stesso.

Tuttavia, forse qui di novità ce n’è poca, se ha ragione l’artista Grégory Chatonsky quando dice che il prompt ha la forma della traduzione (riecco Latronico): traduzione quando associamo parole a immagini, parole ad altre parole. Abbiamo sempre fatto prompt, costruendo reti di associazione, facendo cultura, archivi, per poi, a partire da uno stimolo, da un tasto d’invio, attivare il campo delle associazioni possibili. Dalla potenza all’atto, la traduzione modale del prompting per Chatonsky ha a che fare con la Genesi. Il prompter immobile, il fiat lux come prompt originario. La mitologia della potenza del verbo si ripercuote oggi sulle pratiche con cui agiamo le macchine.

Il Manifesto del Promptismo esiste per un prompt umano e per essere giudicato da interpreti umani. Ma lo straniamento resta comunque vivo. Ecco l’inizio:

Il Promptismo è un movimento radicato nei progressi tecnologici del 21esimo secolo che detengono il potenziale di trasformare del tutto le pratiche artistiche. Il Promptismo è stato fondato in risposta alle crescenti preoccupazioni che l’arte tradizionale sia divenuta irrilevante nel mondo moderno. Andando oltre pittura e scultura, l’arte Promptista concerne la manipolazione dei nuovi media, e nello specifico le immagini generate al computer, l’animazione e Internet. Il suo dinamismo senza pari rende il Promptismo un veicolo dinamico per esprimere un’identità e per implementare un feedback in tempo reale tra esso stesso e chi assiste.

[Promptism is a movement rooted in the technological advances of the 21st century that holds the potential to completely transform artistic practices. Promptism was founded in response to the growing concern that traditional art had become irrelevant to the modern world. Going beyond painting and sculpture, Promptist art involves the manipulation of new media, specifically computer generated imagery, animation, and the Internet. Its unique dynamism makes Promptism a dynamic vehicle for the expression of identity and the implementation of real-time feedback between itself and the spectator.]

La presenza umana non è esclusa, ma la provocazione mostra che sta cambiando il rapporto fra gli artisti e l’agency. La macchina vuole la sua parte. Andiamo verso una estetica vicariale, dove la delega, il far fare, sono parte integrante dell’agire artistico, dove la scrittura si fa automatica ed estrinseca, automatica in quanto estrinseca.

Così, il computer e le tecniche di machine learning cambiano le attitudini a creare, a lasciarsi ispirare. Dobbiamo dialogare con gli artisti digitali, con chi fa letteratura elettronica, capire i programmi a livello in cui creatività e codice si incontrano.

Perché mai giudicare meno artistica un’opera generata automaticamente? Giusto portarvi uno sguardo critico, sovversivo, chiedere più software open source, avversare l’accumulo di capitale, ma l’ingresso del machine learning nell’arte, nella scrittura, è in rapida ascesa. Con gli scettici che lamentano la prossima fine della creatività, con chi sogna passeggiate tenendo per mano le sorelle macchine, aumenta il numero di quelli che promptano. Forse per poco, forse per sempre.


Niccolò Monti vive a Torino. È membro di Montag, un collettivo che sperimenta nuove forme di racconto e scrittura. Fa un dottorato in semiotica sui rapporti tra letteratura e automazione. Si occupa di maschile e rappresentazioni online. Legge Antoine Volodine. Ha pubblicato su L’Indiscreto e Altri Animali.

0 comments on “Come siamo giunti al prompting (e dove andiamo dopo)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *