Lo abbiamo chiesto a chi scrive per noi, in base alla diversa professione. E queste sono le risposte di un ricercatore, una chimica, una pedagogista, un informatico, una filosofa, uno scrittore, una precaria e un regista.
In copertina: Dormice ®, Hommage to G. F. (2007) – Olio su tela, all’asta da pananti casa d’aste.
di Redazione
Francesco Ammannati (ricercatore universitario)
Per chi lavora nel mondo accademico, sia nelle università italiane che nei programmi di study abroad organizzati dagli atenei dei paesi anglosassoni, in primo luogo gli Stati Uniti, le due date spartiacque nell’emergenza Covid19 sono state rispettivamente il 4 marzo, giorno in cui è stata definitivamente sospesa la frequenza delle attività di formazione superiore (tranne i corsi post universitari connessi con l’esercizio di professioni sanitarie), e il 29 febbraio, quando gli US Centers for Disease Control e del Dipartimento di Stato hanno innalzato il rischio dei viaggi in Italia fino a Level 3, cioè la raccomandazione di evitare ogni trasferimento non essenziale verso il Belpaese. Il risultato di quest’ultimo provvedimento è stato un fuggi fuggi generale verso le zone di origine o, i più arditi o irresponsabili, verso altri stati europei. Torneranno, se non questo, almeno dai prossimi semestri? Questo è l’angoscioso problema degli organizzatori dei programmi di study abroad, ma soprattutto dei docenti, già vessati da una cronica precarizzazione, e non a caso l’ASAUI (Association of Scholars at American Universities in Italy) ha già chiesto sostegno alle istituzioni.
La chiusura delle Università italiane è stato invece il punto di arrivo di una serie di provvedimenti presi nei giorni precedenti nei confronti delle “zone rosse” e di alcune specifiche regioni a rischio (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), estesi infine a tutto il territorio nazionale, col 3 aprile come data di cessato allarme – a ora ovviamente temporanea. Già nel DPCM del 1 marzo era stato comunque stabilito lo svolgimento a distanza delle attività didattiche, e da allora i docenti hanno dovuto attrezzarsi per garantire un’adeguata formazione “alternativa” ai propri studenti. Nonostante le Università più importanti o all’avanguardia (o quelle nate specificatamente per somministrare questo tipo di formazione, tipo le Università telematiche) si siano dotate da tempo di strumenti per la docenza da remoto, non è certo scontato stravolgere le abitudini e i metodi di chi è abituato al contatto diretto, ritenendolo peraltro, e a buon diritto, insostituibile. I dubbi che sono emersi durante questo processo di riconfigurazione dell’attività in distance sono come si può immaginare numerosi: semplicemente lezioni registrate? Lezioni in diretta streaming? Totale ripensamento dell’offerta didattica (e dei sistemi di verifica periodica) con l’introduzione di strumenti in grado di garantire agli studenti una pur limitata interazione col docente? Per quelli come me che hanno dovuto in brevissimo tempo scegliere tra queste ipotesi (spoiler: ho adottato una combinazione tra la prima e la seconda), l’imbarazzo è notevole: non tutti sono dei natural davanti alla telecamera e l’effetto finale rischia spesso di diventare simile alle lezioni che trasmetteva la Rai Sat Nettuno negli anni Novanta, impresa senz’altro lodevole per la diffusione della cultura, ma con quegli inevitabili risvolti grotteschi che solo chi seguiva Analisi II alle 3 di notte può ricordare.
È chiaro che dai quei tempi pioneristici la tecnologia e le reti informatiche hanno permesso un epocale salto in avanti delle possibilità e dell’efficacia dei sistemi di e-learning, e fioccano i software e le piattaforme in grado di non far sentire gli studenti abbandonati a loro stessi. Serve comunque da parte dei docenti una notevole flessibilità per districarsi in un dedalo di possibilità fino a oggi praticamente inesplorate dalla maggioranza dei professori, che si sono trovati in diverse occasioni – specialmente se, per indole o per età, non avvezzi alla frequentazione dello strumento informatico – costretti ad apprendere a tempo di record l’utilizzo dei nuovi ritrovati.
Sull’onda della nota bufala secondo cui in cinese le parole crisi e opportunità condividerebbero lo stesso ideogramma, il sistema universitario potrebbe certo imparare qualcosa da questa situazione, trovare nuovi e diversi stimoli per una didattica meno impostata sulla lezione frontale e con approcci più dinamici. Io per primo, da sempre legato alla classica “lezione old school all’italiana”, sarò costretto a ripensare l’organizzazione dei contenuti per evitare quanto sta succedendo nelle prime, impacciate, prove di registrazione: un’ora compatta di voice-over e finestrella video a corredo di graziose slides, un mix letale che sfiancherebbe lo studente più genuinamente interessato alla materia e la cui visione prolungata non vedrei male come punizione per chi cercava di bucare la zona rossa.
Questo per quanto riguarda la normale amministrazione; ma questo blocco forzato ha conseguenze anche per tutte quelle procedure di reclutamento programmate in queste settimane (esami di stato e concorsi, anche in questo caso si salvano quelli che coinvolgono il personale sanitario). I decreti hanno da subito vietato anche quelle, ad esclusione dei casi in cui lo scrutinio dei candidati possa essere effettuato su basi curriculari o in maniera telematica. Aggiungere all’angoscia di un evento che può cambiare sostanzialmente il corso della propria carriera accademica la valutazione da parte di una commissione robot forse è chiedere troppo ai nervi tesi dei candidati, e per ora mi pare che molti concorsi siano stati semplicemente, e opportunamente, rimandati.
-->Infine, una questione abbastanza sottovalutata dai più: con la chiusura totale di biblioteche e archivi anche l’attività di ricerca subisce degli scossoni. I più smanettoni avranno senz’altro accumulato negli anni un tale patrimonio digitale di fonti documentarie e bibliografiche da garantire studi per decenni, ma la mancata possibilità di accesso materiale a un libro, a una banca dati, a un manoscritto, rischia di ostacolare inevitabilmente le consegne di articoli e saggi, facendole slittare di giorni o settimane. Date le abitudini dei ricercatori, forse, questa è l’unica cosa normale in questi tempi eccezionali.
Andrea Caciagli (regista)
Una delle parole chiave del decreto del governo Conte che ha chiuso l’Italia è “necessità”: ci si può muovere per necessità di lavoro o di salute, si può uscire di casa se abbiamo la necessità di fare la spesa, ci si può spostare se c’è la necessità di andare ad assistere un anziano.
Il 9 marzo 2020 il set su cui stavo lavorando si è fermato, e non essendo il cinema una necessità – a differenza di altre attività produttive come gli stabilimenti di Fiat Chrysler o dei treni Hitachi – la produzione ha chiuso i battenti e troupe e cast se ne sono tornati a casa. Insieme al film si sono fermate altre 40 produzioni cinematografiche e televisive italiane.
Allo stesso tempo, dopo il dietrofront di Amazon Prime Video che aveva offerto il mese gratis per le zone rosse per poi revocarlo una volta che la zona rossa è stata estesa a tutto il paese, una serie di servizi streaming si sono fatti avanti per supportare il confinamento forzato di milioni di italiani. Infinity ha aperto il catalogo gratuitamente per due mesi, la Cineteca di Milano ha messo online 500 titoli, Minerva Pictures altri 100, perfino PornHub ha dato accesso gratuito alla sua versione premium con il banner We Love Italy. E online sono già partite le prime petizioni che chiedono agevolazioni per gli abbonamenti di Netflix, Prime Video, Disney+, che sarà in Italia dal 24 marzo.
Cosa fare in queste tre settimane di clausura: cucinare e rimettere a posto casa? Certo. Leggere i libri lasciati per troppo tempo sul comodino? Sicuramente. Soprattutto però rivedere i grandi classici, iniziare nuove serie tv, guardare i film che non avevamo ancora visto. L’alimento principale di questa quarantena, subito dopo i bisogni alimentari, sono i prodotti del settore audiovisivo. E chi li produce, se tutti i set sono fermi?
Forse, al di là di retorica, questa crisi ci spinge a riconsiderare il concetto di necessità e a spostarlo, almeno di qualche passo, da ciò che muove la realtà a ciò che da questa realtà ci fa evadere. A che serve produrre automobili e treni quando non possiamo spostarci da casa nostra? Ci servono libri, ci servono film. L’isolamento forzato ci racconta questo: di quanto l’immaginazione sia una necessità.
Matteo Cavezzali (scrittore)
La mia quotidianità, come quella di molti scrittori, si muove in due direzioni: una è quella del contatto con il mondo esterno, l’altra è quella del mondo interiore, ovvero il momento della riflessione e della scrittura. Una è quella della socialità, l’altra è quella della solitudine. In questo momento sono privato di entrambe.
Il contatto con il mondo ovviamente è scomparso, quasi del tutto. Annullate tutte le conferenze, presentazioni di libri, viaggi. (Curo due festival Scrittura a Ravenna a fine maggio e Salerno Letteratura con Paolo Di Paolo e Gennaro Carillo, a giugno, e spero ancora che riusciremo a farli nelle date previste). Ma il contatto con il mondo non è solo un discorso di promozione. È fondamentale anche per scrivere, perché è dall’incontro con gli altri che si possono conoscere e vivere le storie che confluiranno poi trasformate nella materia del romanzo.
In teoria questo ritiro forzato potrebbe essere il momento perfetto per scrivere, ma non è così. Per scrivere bisogna essere completamente immersi in un mondo, quello che ognuno crea attorno alla sua storia e in cui l’autore si cala con i suoi personaggi. La situazione che viviamo ha una tale carica emotiva per cui in questi giorni più che uno scrittore mi sento un personaggio di una storia scritta da altri. Sono dentro questa avventura distopica ambientata nel 2020 – cifra che ancora mi fa pensare al futuro -, come nei romanzi che leggevo da ragazzo. Sono in un meta-romanzo scritto da Philip K. Dick sotto acidi, in cui quando vado a buttare i bidoni e incrocio uno sconosciuto con il cane potrebbe avere nelle sue cellule un virus che mi infetterà, o viceversa io potrei averlo in forma asintomatica e potrei infettare lui. Ci guardiamo con sospetto e ognuno tenta di stare il più lontano possibile dall’altro, facendo movimenti innaturali, goffi passi di lato, strambe giravolte. Vista dall’alto questa scena deve avere l’aspetto di una grottesca danza delle api. E intanto penso “ma cazzo sta succedendo? È reale tutto questo?”. Qualche giorno fa ho incontrato il mio vicino e non l’ho riconosciuto. La mascherina gli copriva quasi tutto il volto, in testa aveva il cappuccio, e camminava con sguardo a terra, come se si vergognasse o avesse paura di dover uscire a fare la spesa e non volesse essere riconosciuto. Malapena mi ha salutato ed ha affrettato il passo, terrorizzato che volessi socializzare. Il virus è silenzioso e invisibile, subdolo. Ci ha indirettamente infettato tutti. Difficile uscire da questa narrazione così totalizzante.
Poi penso: come ci racconteremo tutto questo quando sarà finito? Sarà solo il ricordo di quel periodo bizzarro quando ognuno stava isolato dal mondo e indossava buffe mascherine da chirurgo o sarà un racconto tragico, come quello del dopoguerra, con le sue vittime e il desiderio di non sentirne parlare mai più. Qualche settimana fa ci ridevamo su, come se fosse l’ennesima barzelletta, come se si trattasse dell’ennesima apocalisse Maya o il Millennium bug e ora siamo ridotti così. Allora mi faccio prendere dal delirio pessimista: se fosse la fine del mondo? Staremmo vivendo un momento unico, ma sicuramente non potrei raccontarlo a nessuno. La mia mente di scrittore è talmente contorta da farmi pensare che sarebbe un peccato assistere all’apocalisse e non poterne scrivere. Quando sono immerso in questi vaneggiamenti improvvisamente ripiombo nella vita reale. Sono chiuso a casa con mio figlio di cinque anni che non va a scuola da tre settimane. Faccio i turni con mia moglie per lavorare e stare con lui. La mia giornata è metà meditazione zen e metà corso dal vivo di Art Attack. In quarantena io e mio figlio abbiamo costruito un robot di polistirolo, scritto un fumetto su un pannolino che parla, creato un libro dei sogni dove ogni mattina disegna i suoi sogni (il caro Jung sarebbe orgoglioso di noi), giocato a ogni gioco di società che avevamo, compreso il rubamazzo con le carte da briscola, e anche ballato hit anni ’90 sul divano. In questo caso la vita, anziché romanzo distopico di Dick, diventa una commedia all’italiana. A prima vista fa ridere, ma ha quel sottofondo di malinconia, nel vedere questo bambino che non può vedere i suoi amici, né i nonni o gli zii, e chiede in continuazione “quando invitiamo qui Sofia?”, “quando andiamo al parco con Antonio?” e addirittura “quando riapre la scuola?”. Io rimango lì senza parole e cerco di inventarmi una distrazione, e allora lui mi risponde “quando finisce questo coronavirus?” e io non so cosa dire. Poi accendo la tv o guardo su internet e mi piombano addosso le notizie, come una valanga. Con medici stremati, con i lividi delle mascherine, e i malati costretti a morire senza poter rivedere i proprio cari. E mi faccio ancora quella domanda: “Cosa sta succedendo?”, come posso spiegare a un bambino qualcosa che non capisco?
E allora mi concentro sul concreto: riordino i libri, leggo qualche pagina, guardo mezzo film, e allora mi torna in mente quella cosa: “non posso uscire di casa”. Mi vengono le smanie, perché il ragazzino che ho dentro di me sa che le cose vietate sono le uniche veramente desiderabili. Forse sarei rimasto in casa comunque, ma sapere di non poter prendere un treno e andare dove voglio, anzi di non poter nemmeno uscire in strada, è una cosa che mi dà i brividi. Viviamo in una dittatura senza dittatore, in una guerra senza guerra, l’unica scelta che abbiamo è quella di fare la cosa giusta, ovvero per una volta rinunciare a noi stessi e pensare agli altri. Come nel contrappasso di un girone infernale dantesco per capire che abbiamo bisogno degli altri dobbiamo stagli lontano. Leggendo una riflessione di Pascal scritta nel 1650 ho trovato questa frase che pare diretta a noi oggi: “Tutta l’infelicità degli uomini ha origine da un semplice fatto. Non sono capaci di starsene tranquilli nella loro stanza”.
E forse è solo questo che conta, stare tranquilli, e così sono tornato a scrivere, una storia in cui c’è tanta vita, che nulla ha a che fare con tutto questo, se non per una cosa, che questi tempi ci stanno insegnando: nessuno si salva da solo.
Alessia Dulbecco (pedagogista e counsellor)
Da fine febbraio ho passato gran parte del mio tempo a cercare di contenere i ragazzini e le ragazzine con cui lavoravo ogni pomeriggio, nel tentativo di contestualizzare le loro paure connesse alla “nuova pandemia da Covid-19”, dare loro modo di capire. Quando si è adolescenti è facile rimanere schiacciati dalle notizie che circolano in classe, in famiglia o sui social. Ai primi di marzo qualcuno di loro arrivava al Centro Educativo con le mascherine, altri con confezioni da 500ml di gel disinfettante, un po’ per attirare l’attenzione un po’ perché sovraccaricati dalle ansie dei genitori, che fornivano loro questi dispositivi senza che avessero chiaro le modalità di utilizzo.
Nessuno era preparato al decreto promulgato dal Governo lo scorso 4 marzo, tantomeno i genitori che si sono trovati da soli a dover spiegare ai figli, grandi e piccoli, perché dovessero stare a casa, perché non fosse più possibile fare sport o andare al doposcuola.
Non è mai facile spiegare il perché delle cose, soprattutto quando le motivazioni non sono chiare per primi agli adulti e quando le regole non valgono per tutti. I genitori si sono trovati nel difficile ruolo di chi deve dare ai figli motivi validi e comprensibili per non uscire, senza scadere in facili allarmismi. Chi come me svolge una professione educativa è rimasto loro accanto cercando di trovare insieme la risposta alla domanda più difficile: “e adesso, che si fa?” .
Si possono fare molte cose, a patto che i genitori assumano completamente su di sé il ruolo educativo momentaneamente tralasciato dalla scuola. Educare i più piccoli alle corrette precauzioni sanitarie, gestire i tempi e le routine affinché sia chiara la differenza tra “emergenza” e “vacanza”, ascoltarne i timori per imparare insieme a gestirli.
Ilaria Gaspari (filosofa e scrittrice)
Il cambiamento lo misuro anche contando quante volte ho cancellato questa prima frase: non questa, che state leggendo, i troppi tentativi che l’hanno preceduta. Non mi succede mai – forse dovrei dire: non mi succedeva, prima. Non conoscevo il panico da pagina bianca, semmai l’urgenza di trovare una pagina su cui riversare frasi che modellavo in testa. Ma in questi giorni esito, come se dovessi prendere la mira giocando a freccette, e a forza di esitare sabotassi ogni tiro. Mi sento la mente opaca, come se fra i pensieri ristagnasse qualcosa: è l’ansia. Mi parla una lingua nuova, io le rispondo balbettando. Le cose peggiorano quando penso che dovrei sfruttare l’isolamento per scrivere. Non sei forse una scrittrice?, sussurra la sindrome dell’impostore. Non riesci nemmeno a concentrarti e a leggere un libro!, sibila il caro vecchio senso di colpa. È vero: questo tempo immobile che mi è piovuto addosso, abbondante e inaspettato, mi paralizza: quando il tempo per scrivere lo misuravo in ore stiracchiate che dovevo ritagliare da giornate pienissime, lo sfruttavo molto meglio.
Questo marzo la mia agenda era fitta di lezioni e incontri. Avrei preso treni, dormito in alberghi, visto città: tutto rinviato a chissà quando. Ci si organizza diversamente: librai e gruppi di lettura, con cui scambio messaggi di affetto e ansia, mi chiedono di registrare video e dirette. A me fa piacere, dalle profondità della mia accidia, provare a offrire bandoli di riflessione e consigli di lettura – chissà, come un messaggio in bottiglia, magari arrivano proprio dove serve. I miei video dal punto di vista tecnico sono di una bruttezza sconcertante: mossi, luci sbagliate, io sembro in pigiama anche quando non lo sono. Normalmente li rifarei mille volte, sarei perfezionista. Ma è strano: per la prima volta in vita mia, non sento il bisogno di nascondere la mia debolezza. L’altro giorno ho letto in video la prima lettera a Lucilio. Inizia pressappoco così: “Mio Lucilio, rivendicati a te stesso, e il tempo che finora veniva portato via o andava perduto raccoglilo e mettilo in disparte.” Avevo bisogno, soprattutto, di leggerla a me stessa.

Sofia Torre (precaria)
Mi sono presa qualche mese per approfittare dei soldi faticosamente messi da parte mentre lavoravo in gelateria per tentare la carriera accademica e mi sono tagliata un po’ di tempo per scrivere. Per questo, la mia vita quotidiana non è molto diversa da come sarebbe senza quarantena, dal momento in cui non ho veramente spazi da riempire: i miei spazi devono contenere quanta più ricerca e studio possibile, non lavorare non potrà essere possibile a lungo. Non poter uscire è frustrante, ma lo è soprattutto potenzialmente: sapere che non puoi fare qualcosa è un enorme sprone a farla immediatamente. Psicologia inversa: la stessa che ci veniva impugnata contro da bambini e la stessa che io utilizzavo in gelateria – non mi prenda il limone, per carità, sta finendo e non so se il gelatiere ne preparerà altro oggi – (Il limone è il gusto di gelato in assoluto più economico da produrre, il più veloce e quello disponibile in ogni stagione. Per la stessa ragione, quando in una gelateria ti propongono di assaggiare il pistacchio o il mango è un bruttissimo segno). Ci sono innegabili lati positivi dell’essere a casa e non in gelateria: nessuno mi chiede un caffè parigino (che cos’è? Bella domanda. Secondo la padrona di Teo barboncino panton è “un viennese senza cioccolato”); non devo spiegare cos’è la crema tirolese e perché il cremino non sa di nutella. Non devo interagire con clienti vegani che esigono gusti senza lattosio ma poi li ricoprono di panna montata. Non ci sono straordinari non pagati e non ricevo particolari lamentele se non indosso i leggins della divisa. Anzi, la mia coinquilina è pure più contenta.
Quando e se l’apocalisse coronavirus finirà, nuovi mondi possibili potrebbero dispiegarsi, mondi in cui la sanità pubblica non viene questionata, ma solo tutelata, e abbiamo tutti un pochino di rispetto in più per tutti i lavoratori. Lavorare a contatto col pubblico mi ha insegnato che non è assolutamente scontato che le persone starnutiscano e tossiscano coprendosi il naso e la bocca – motivo sufficiente per scegliere di acquistare il gelato solo nelle gelaterie fornite di banco a pozzetto, mai e poi quelle con la vetrina luminosa e le vaschette. In particolare, fare la gelataia riserva lo spettacolo di varietà dei consumatori del tardo pomeriggio: padri di famiglia che ti chiedono il numero di telefono quando la moglie non guarda, bambini urlanti che lanciano il pallone contro la vetrina, anziani soli che non possono ingerire saccarosio ma che entrano comunque in negozio per avere un po’ di compagnia.
In quarantena sei solo o hai contatti telematici e digitali accuratamente selezionati, e fra uno schermo e un bancone non c’è poi tutta questa differenza, a proposito di distanze. Incorri, più che altro, nel venire osservata.
L’ossessione per l’estetica, soprattutto per quella femminile, è un leitmotiv del mondo del lavoro, figuriamoci nei lavori di immagine. In quarantena, non sono più costantemente in vetrina, e questo comporta una riappropriazione. Nessuno mi impone di truccarmi, vestirmi e farmi una bella treccia, a nessuno importa che si noti il mio reggiseno nero sotto la divisa bianca, posso riappropriarmi della mia immagine e del mio aspetto, abituarmi al viso struccato e ai capelli scompigliati, pensare che vado benissimo così, anzi, mi piaccio di più.
Gregorio Magini (informatico)
Fra tutti i possibili modi di spendere il mio TFR, l’ultimo a cui avrei pensato era di usarlo per guadare la crisi del coronavirus. Dopo anni di indecisione, a gennaio mi ero finalmente licenziato per aprire la partita IVA e perseguire quella che comunemente si chiama “una carriera da freelance”, e che per me significava semplicemente poter lavorare in orari improbabili, a casa o in un caffè, e perdere meno tempo sui treni e sui bus per andare e tornare dall’ufficio. Non c’è che dire, un tempismo perfetto. Faccio il programmatore, il mio settore (gestionali per l’industria dell’alta moda) scomparirà solo quando scompariranno i ricchi, quindi purtroppo non ho molta paura che questa crisi economica, che pure è già molto grave e lo sarà di più, lo cancelli. Eppure, la prospettiva di permessi pagati o cassa integrazione in questo momento mi avrebbe rassicurato. Invece dovrò accontentarmi dei 600€ una tantum per gli autonomi, con buona pace di misure più universali e più eque, come sarebbe stato per esempio un ampliamento del reddito di cittadinanza.
Insomma, mi sento come uno che è appena sbarcato a terra dopo un lungo viaggio in cui ha patito la noia del mare, non fa in tempo a tirare un sospiro di sollievo che parte un allarme tsunami.
Cose che capitano. Faccio i miei calcoli, mi dico per un annetto i soldi basteranno, tanto più quanto più a lungo sarò costretto a restare in casa a fare distanziamento sociale, e comunque non ho figli, non pago affitto, non ho debiti né vizi costosi, male che vada mi annoierò così tanto da rimpiangere i tempi in cui mi annoiavo in ufficio (devo però ammettere che finora non mi sono annoiato un singolo istante). Mi sento molto vicino a una recente vignetta di XKCD che dice: “Quarantena autoimposta? È tutta la vita che mi alleno per questo momento”. Come molti, mi faccio forza notando che in fondo una parte di me si adatta di buon grado, almeno per qualche tempo, a un’esistenza esclusivamente domestica. Mi sembra di non essere un caso raro, leggo tanti che come me in questi giorni rispolverano la propria identità nerd trovando una risorsa nel proprio passato di animali asociali.
Il protagonista del film Old Boy, quando esce dalla prigionia, ha una presa di coscienza apparentemente opposta, espressa dalla voce narrante con una domanda retorica che continuo a ripetermi da quando vidi il capolavoro coreano per la prima volta: “Quindici anni di allenamento immaginario possono essere d’aiuto nella vita reale?” Il protagonista si risponde “certo che possono”, ma il fatto è che solo dentro un film o un libro, solo a livello appunto d’immaginario, si può avere una simile certezza. L’ingresso in isolamento si accompagna dunque simmetricamente a un’uscita verso il riscatto immaginario. Non è un caso se il primo libro che è letto in clausura è stato Il deserto dei Tartari, e se mi sono annoiato e infuriato contro Giovanni Drogo, un altro uomo che passa la vita ad allenarsi mentalmente e in fondo non è più vittima dell’indifferenza umana di quanto è indifferente ai dolori altrui.
Mi chiedo se sarò all’altezza del non fare assolutamente nulla chiuso in casa, dopo una vita passata a chiedermi se sarei mai in grado di essere all’altezza di uscire di casa, di una chiamata – una catastrofe, un’emergenza reale, non una delle centinaia di false emergenze create dai media negli ultimi decenni – ma anche, fuori dal collettivo e nel privato, di un lutto familiare. Mi chiedo se il mio “vero lavoro”, quello di scrittore, serva in qualche modo a riscattare questa tendenza collettiva, cui mi accodo, a mettersi ai margini della vita collettiva, o se non sia solo un modo di nobilitare ai miei occhi il mio egoismo.
Problemi per chi non può uscire di casa, sicuramente meno gravi di quelli per chi è costretto a uscire di casa. Nelle scorse settimane, in azienda, la consapevolezza della situazione è andata dilatandosi giorno dopo giorno. La dirigenza aziendale ha smesso di considerare esagerate le scelte restrittive del Governo e si è adeguata, passando nell’arco di due settimane da un invito al telelavoro, accolto con mugugni di inquietudine da quanti erano costretti per motivi pratici a recarsi in sede, alla chiusura pressoché totale degli uffici. È stato diramato il consiglio, per chi non può lavorare da casa o non ha niente da fare (anche i clienti stanno naturalmente chiudendo uffici e fabbriche, non so se per la “sanitizzazione” richiesta dal patto sindacale del 14 marzo, o in attesa di tempi più produttivi), di prendersi ferie e permessi.
Nel frattempo, in chat i miei ex colleghi sono passati dallo scambiarsi meme di bottiglie di Corona che terrorizzano gli altri abitanti del frigorifero, di cinesi che dicono “molilete tutti blutti bastaldi” o di Maya che si scusano per aver sbagliato di otto anni i calcoli dell’Apocalisse, a scambiarsi meme di Chuck Norris che mette il virus in quarantena e video di gente che fa cose buffe nel suo appartamento. Battute per sdrammatizzare, non mi fanno ridere ma riconosco l’utilità psicologica di portare in campo, con un’aura di familiarità, di business as usual, il worst-case scenario che è anche l’unico caso ad avere il 100% di probabilità di verificarsi sul lungo periodo: “molilemo tutti”. Insomma, si tira la carretta e ci si ride un po’ su.
In definitiva, cosa davvero è cambiato rispetto a due mesi e mezzo fa, al mondo prima del coronavirus? La settimana scorsa, prima che l’Italia fosse ribattezzata Zona Protetta, mi era parso per un paio di giorni che si stessero, come dire, liberando delle prospettive mentali inedite nella vita collettiva del paese. È stato un momento in cui si sentiva sempre meno parlare di cinesi sudici e di armi biologiche fatte fuggire dai laboratori, e sempre più di se e quanto fosse utile tenere chiuse le persone in casa, di come e con quali soldi ci si sarebbe presi cura dei più deboli, insomma problemi politici reali. I discorsi da bar e da social hanno una loro temperatura, che dipende fra l’altro da quanto alte e grosse le sparano media e politici: oltre una certa s’inizia a delirare. E in Italia, da decenni, siamo preda a una febbre cronica. Mi sembrava che questa, nel caos informativo che ha preceduto le due conferenze stampa del Presidente del Consiglio che hanno annunciato “l’impensabile”, si stesse temporaneamente abbassando. Mi aveva sorpreso la velocità con cui media e politica, dopo qualche settimana di saltimbanchi culminati nel supposto tentativo renziano di cavalcare l’epidemia per far tornare la Lega al governo, avevano cambiato registro all’inverarsi del pericolo. Certo, questo sull’attenti si era verificato solo per la prospettiva di un crollo del fatturato, mica per un’improvvisa illuminazione etico-spirituale. E in ogni caso, la paranoia immotivata contro i passeggiatori criminali, gli inni nazionali dal balcone e l’invocazione del coprifuoco, cioè la spinta dal basso a cercare capri espiatori e a ritualizzare per svuotare la testa dalle paure, hanno rapidamente sommerso quel momento di rara clarità.
Quanto accaduto resta però illuminante: lo spettacolo si può spegnere da un giorno all’altro. Facciamo tesoro di questa consapevolezza, in vista non solo e non tanto di un ritorno alla normalità, quanto delle prove assai più gravi a cui saremo chiamati a rispondere trascorsi i pochi anni che ci separano dall’esplodere della crisi climatica.
Laura Tripaldi (dottoranda in Scienza dei Materiali)
Nelle scorse due settimane sono andata in università solo due volte; sulla carrozza semivuota del treno che mi porta da Lambrate a Greco c’era un odore pungente e rassicurante di disinfettante. Il cambio di ritmo, dalla sveglia alle 7.15 e la giornata lavorativa di 8 ore alla pace del lavoro da casa, mi ha concesso, almeno all’inizio, una certa serenità. Fare scienza lontano dal laboratorio, per chi è abituato al riscontro continuo dell’evidenza sperimentale, può diventare difficile, ma è anche una preziosa occasione per studiare, scrivere e acquisire qualche nuova prospettiva. La mattina dell’8 marzo nel mio quartiere c’è un silenzio assordante, non rotto nemmeno da quel solitario trombettista che ogni domenica si aggira come un angelo apocalittico al confine tra Città Studi e l’Ortica intonando una struggente versione balcanica di Bella Ciao. Nei momenti vuoti ho letto Il Mondo Sommerso di J. G. Ballard, che con le sue descrizioni di giungle triassiche flagellate dal sole incandescente mi ha fatto pensare all’estate che ci aspetta. In queste settimane si percepisce la stessa atmosfera di assedio che c’era in quei giorni dello scorso luglio in cui la temperatura in città superava i 40 gradi; ma allora il pericolo era più evidente, e bruciava sulla pelle come la paura primitiva di riscoprirsi animali senza riparo. Nel suo romanzo, Ballard immagina che cambiamenti catastrofici nell’ambiente possano spingere gli individui a percorrere una sorta di regressione filogenetica, risvegliando ricordi vestigiali di un passato perduto. In un esercizio di ballardismo applicato, mi sono chiesta a quale antica memoria geologica ci stia facendo regredire l’epidemia in cui siamo immersi. C’è un largo consenso che le forme più primitive di organismi viventi – se di vita si può parlare – fossero molecole di RNA disperse nel brodo primordiale; pezzetti di informazione chimica capaci di riprodursi, non poi così diversi, dal punto di vista biochimico, dai virus che conosciamo oggi. Questi curiosi antenati molecolari io me li immagino un po’ come il famoso gene di Richard Dawkins: soli, egoisti e stupidi.
Mi è piaciuto molto il modo in cui ciascuno di loro ha espresso le proprie emozioni. Ho trovato in ognuno un comune denominatore: la rasssegnazione alla solitudine o al restare chiusi in casa a occupare il tempo in cose che ci appaiono inusuali e forse inutili. Perché siamo stati abituati a pensare che solo il tempo dedicato al lavoro sia utile e spesso anche da casa non si riesce a dare e a fare ciò che si vorrebbe. Certo la parte più “ludica”, mi viene di chiamarla così, quella del tempo libero trascorso con gli amici e le persone care non può essere incluso in questo contesto, ma fa lo stesso parte delle difficoltà da gestire, braccati spesso anche nelle relazioni interpersonali! Forse l’aspetto più delirante di tutta questa situazione.
È la storia di tutti noi…cercare e trovare una motivazione interiore, una forza, una maniera propria per far fronte alla mancanza di scelta! Non siamo stati abituati a questo. Solo i più anziani che hanno vissuto la guerra, sanno che cosa significa. Noi no…e quindi la nostra mente deve ricercare la giustificazione eticamente, moralmente giusta e appropriata per superare il desiderio forte che ti prende di fare ciò che non puoi assolutamente fare!
Leggere ciò che scrivono ti fa sentire meno solo perché capisci che i tuoi sentimenti sono gli stessi di tanti altri.
Davvero interessante!