“Comprendere la realtà”: intervista a Mircea Cărtărescu

Lo scrittore ed editor Vanni Santoni intervista l’autore rumeno in merito alla sua opera recente, Solenoide, uscita per Il Saggiatore. Il risultato è un dialogo su letteratura, storia, visioni e realtà.


IN COPERTINA e nel testo opere di Lucien Rudaux

di Vanni Santoni, traduzione di Oana Bosca Malin e Matei Stoenescu

Dopo un libro vasto come Abbacinante, come ha trovato la forza di scrivere Solenoide?

Abbacinante non è soltanto un singolo libro, ma anche tre romanzi potenzialmente indipendenti – e che sono stati scritti nell’arco di quattordici anni. In quel periodo, oltre ad essi, ne ho scritti parecchi altri. E dopo Abbacinante ho pubblicato anche libri di racconti, saggi, raccolte di articoli politici e culturali, testi di critica e teoria letteraria, diari. Forse oggi, guardando a ritroso, fra tutti i miei scritti si notano meglio alcuni volumi di narrativa, come Nostalgia, Abbacinante o Solenoide, ma sono solo le irregolarità di un paesaggio molto vario. Nel mio paese sono ancora considerato un poeta, e molti credono che il mio migliore testo sia sempre il poema epico Il Levante.
Ovviamente la dimensione dei libri non conta molto, sebbene ne influenzi il timbro, che è simile a quello degli strumenti musicali. Il numero di pagine di un libro è una sorta di cassa di risonanza. Un romanzo ponderoso ha un suono grave, simile al violoncello. Una raccolta di storie è come una viola, mentre le poesie hanno il suono intenso del violino. Quando inizio a scrivere un testo, penso poco alla sua lunghezza. Non sono io a scegliere la sua dimensione, ma il libro stesso, che infatti sceglie tutti i parametri, tutte le linee di crescita e, direi, quasi tutte le parole. Un vero libro è un processo embrionale, lo scrittore gli offre solo il grembo protettivo e poi rimane passivo, come una donna incinta che non ha idea di cosa stia accadendo nel suo grembo. Nel periodo in cui scrivo un libro, continuo a vivere la mia vita. A parte il tempo in cui scrivo, non gli rivolgo alcun pensiero, non gli concedo la mia attenzione. Non ricordo come ho scritto i miei libri e non li rileggo mai. Li ho solo messi al mondo. Per il resto, fanno da soli.

In una precedente intervista, lei ha affermato che Abbacinante è stato scritto tutto a mano, in una serie di quaderni, senza alcuna modifica. É stata diversa la creazione di Solenoide?

Anche Solenoide è scritto a mano, in quattro quadernoni. Sempre senza alcuna modifica: senza cancellazioni, pagine strappate, inversioni di paragrafi. È scritto tutto d’un fiato dalla prima all’ultima lettera. Non ho pensato a cosa avrebbe contenuto il romanzo: un giorno ho semplicemente iniziato a scrivere, senza alcun piano, scrivere da una pagina all’altra, come si dice che “si vive da un giorno all’altro”. Scrivere è una questione di fede, quando inizi devi solo sapere che puoi fare il libro, e che puoi farlo bene. C’è chi fa prima una ricerca, delle bozze preliminari, traccia piani dettagliati, ma io non faccio tutto questo, perché è tutto già fatto, esiste in me, nel mio modo di intendere il mondo e la letteratura, anzi il mondo-letteratura, come spazio-tempo, perché sono tutt’uno. Quando lavoro a un libro, scrivo ogni mattina, chiuso in camera, smarrendo il contatto con la realtà. Sono in una trance profonda, sono oltre, come quando sogno. E non sono solo immerso in me stesso, ma anche nella letteratura. O nell’io-letteratura. Finita la pagina – e raramente supero una pagina al giorno – sono di nuovo Mircea Cărtărescu, l’essere più ordinario al mondo.

Il trauma dell’infanzia sembra centrale in Solenoide. Il trauma della nascita, ma anche quei microtraumi che ci dicono che il mondo non è e non sarà mai un buon posto per noi…

In realtà, non credo in un trauma della nascita. Il bambino è uno straniero che viene da lontano. Sembra crescere nel grembo della madre, ma questo solo perché si sta avvicinando sempre più: la sua crescita non è altro che un effetto della prospettiva. Quando arriva il momento della nascita, è perché lui sta davanti alla porta. La apre ed entra nel suo nuovo mondo, che deve imparare ad abitare. Credo, quindi, a mondi successivi che andiamo percorrendo e di cui conserviamo delle reminiscenze: nei ricordi impossibili da collocare, nelle rêveries, nei sogni, nelle sensazioni di déjà-vu. È con questi che costruiamo i nostri libri: per tornarci, per rivivere, per sentire di nuovo quelle emozioni travolgenti. Magari prima vivevamo in un mondo fatto di emozioni, così come quello reale di adesso è fatto di muri, acque e colli. Varie volte, per un ricordo fugace che non posso connettere a nessun posto del mondo, mi sento sciogliere in un flusso emozionale continuo. Sento la mancanza del mio paese d’origine, il mio paese per sempre perduto. Non so se all’origine dell’umanità ci sia o meno il peccato originario, ma so di sicuro che c’è una nostalgia originaria, che tutti sappiamo e sentiamo. Di questa luce nera si nutrono i poemi e i romanzi (i quali, se escono bene, sono anch’essi poemi).

Ci sono alcune immagini e personaggi di Abbacinante che ritornano in Solenoide. Penso ad esempio a Victor, il gemello perduto. Che cosa rappresenta?

Ho scritto di Victor sin dai miei primi poemi e in seguito la sua immagine ha attraversato la mia scrittura. Forse il personaggio senza nome di Solenoide avrebbe dovuto chiamarsi anche lui Victor. Il fratello gemello con cui ho condiviso per un po’ il palazzo interno di mia madre, la sua stanza segreta, è morto quando io ero troppo piccolo per potermelo ricordare. Ma sono vissuto accanto a lui per mesi e il suo ricordo si conserva di necessità nel mio subconscio e da lì spunta quando meno me lo aspetterei. Ho scritto di recente un racconto dal titolo Le volpi (verrà pubblicata nel volume La melancolia, in corso di traduzione per La nave di Teseo, NdR), in cui la figura di Victor è centrale, tutto gira intorno a lui, sebbene neanche qui venga esplicitamente fatto il suo nome. Ed è solo ora, con questo racconto, che l’ho compreso pienamente, ho capito chi era lui, molto più di un fratello gemello. Quando scomparve all’improvviso, nel profondo della mia infanzia, per non farsi vedere mai più, fu come se mi fossi guardato allo specchio senza vedere più nessuno. Fu allora che scomparve lo specchio stesso, prima ancora della fase dello specchio. E questo non fu un trauma, né “ein Traum” (ovvero un sogno), bensì un disastro personale.

Un’altra presenza comune nella sua opera è la città di Bucarest (nell’edizione italiana di Solenoide c’è pure una sua mappa in copertina), un luogo che ha trasformato in topos mitologico, ma una mitologia della solitudine e della malinconia…

Quando ho scritto Solenoide avevo scoperto l’architettura industriale dell’Ottocento e il mondo steampunk e mi ero reso conto d’un tratto cos’era che rendeva Bucarest unica tra le città del mondo. Non mi riferisco alla Bucarest reale, una città altrettanto noiosa e priva d’interesse come Roma, Parigi, New York, Berlino o Madrid, ma a quella che risiede sotto la volta azzurra del mio cranio. Bucarest è una città che fu progettata sin dall’inizio in rovina. Il suo architetto non ebbe la pazienza di aspettare che cadesse in rovina a forza di secoli e millenni – come tutte le città, d’altronde. La progettò sul tavolo da disegno raffigurandola già in degrado, distrutta dai terremoti e dalla malinconia, gli edifici sbilenchi, come in Soutine, con le decorazioni di stucco rosa: angioletti, Atlanti e Gorgoni slabbrate, bottoni e dita mancanti. Fece le case con l’intonaco ingiallito, con qualche muro franato, con l’interno delle stanze a vista e le finestre coperte da vecchi giornali. Tutte le porte sono aperte, chiunque può accedere nelle case, a esplorare il loro sfacelo, il loro marciume, il loro enigma e l’infinita bellezza. Non so se qualcuno ancora legge Hebdomeros, quel bizzarro scritto di de Chirico, ma in Solenoide c’è un passaggio segreto verso quello scritto. Così come ce n’è uno aperto verso il mondo di Henry Darger e del presidente Schreber. Ho inventato Bucarest, “la più triste città del mondo”, una città che mi rassomiglia.

Mi ha sempre affascinato il modo in cui si appropria del lessico delle scienze, dalla genetica alla cosmologia all’entomologia: cosa ci può dire in merito?

Dato che sono venuto a questo mondo aprendone la porta e imparando ad abitarlo, non è forse giusto voler sapere di che cosa è fatto il mondo e come funziona? La mancanza di curiosità intellettuale degli scrittori mi rende perplesso. La maggior parte di loro non legge che romanzi e poesie. E così molti arrivano a credere magari che la letteratura sia una cosa importante o addirittura essenziale, mentre invece essa non è più che un cacciavite nella cassetta di utensili, per riprendere che l’immagine che Wittgenstein usa per il linguaggio. Il mondo è molto più vasto della letteratura, si espande da Lanikea fino alla scala di Planck, e in larghezza, stando a stime più recenti, comprende 2,4 trilioni di galassie. La vita s’innalza dai virus fino alle divinità celesti. È giusto che mi affascini, con tutte le sue cose cognite e incognite. Infatti leggo moltissima letteratura scientifica e guardo continuamente su YouTube e su altri canali programmi che parlano di tutte le dimensioni della conoscenza: filosofia, religione, fisica quantica, matematica, entomologia. Lo scibile è uno solo, e io non voglio lasciarmi sfuggire nulla della sua enorme ricchezza. Non leggo in funzione della letteratura che scrivo, quanto piuttosto scrivo letteratura per completare le mie conoscenze sul mondo e su di me, o piuttosto sul mio io-mondo.

In particolar modo gli insetti, così come gli aracnidi e i miriapodi, sono molto presenti nelle sue opere: mentre in Abbacinante la farfalla era il simbolo chiave, in Solenoide la presenza più ricorrente sono i parassiti, a cominciare dalle pulci: siamo per caso anche noi dei parassiti di qualcosa che neanche conosciamo?

Il mondo della mia infanzia era pieno di questi animaletti. Più volte al giorno, mia madre cacciava via le mosche da ogni stanza, con uno strofinaccio. D’estate c’erano sciami di mosche in tutti i negozi, nei tram, dappertutto. Di sera, quando la gente cenava all’aperto, sotto un ciliegio o sotto un noce, osservava centinaia d’insetti di tutti i tipi che giravano intorno alla lampadina sospesa sopra il tavolo e che magari cadevano ogni tanto, stecchiti, sulla tovaglia cerata o addirittura nei piatti. I ragni tessevano le loro reti negli angoli delle stanze. Le zanzare venivano cacciate con un giornale arrotolato o schiacciate selvaggiamente sulle pareti. Le pulci ci punzecchiavano in continuazione e i bambini più poveri avevano i pidocchi, che venivano eliminati con dei lavaggi con gas.
Io ero affascinato dagli insetti, passavo ore e ore a guardare le formiche, i maggiolini e i bombi; mi ricordo un anno in cui sono spuntati dal terreno migliaia di cervi volanti con grandi corna da cervo, e quella fu la gioia della mia vita: neri e pesanti, ronzavano nell’aria, mi si attaccavano ai capelli, urtavano contro il mio petto come fossero pugni. Nei primi anni di scuola feci degli insettari rudimentali dentro i quali guardavo attentamente, con una lente d’ingrandimento filatelica, l’armatura di quei corpi. Gli insetti dei miei scritti sono allo stesso tempo mostruosi (mostruosamente belli) e simbolici. Nella pagina centrale della trilogia Abbacinante vi è uno scontro frontale tra un ragno e una farfalla, in un terrario. È l’eterna lotta dei contrari, dell’angelo col demonio, della luce col buio, della verità con la menzogna. Tutta la trilogia ha la forma simbolica di una farfalla, con il primo volume che raffigura la sua ala sinistra, la seconda che è il corpo e la terza la sua ala destra. Gli occhi sulle ali sono le città di cui ho scritto: Bucarest, New Orleans, Amsterdam, Bellagio. Inoltre, è un libro talmente pieno di farfalle che lo sconsiglierei agli asmatici: c’è il rischio di soffocarsi con la polvere fine delle piccole spine sulle loro ali…
In Solenoide, invece, non ho più ripreso a scrivere di insetti, ma di quegli aracnidi che potremmo vedere come “insetti degli insetti”: gli acari. Ciechi e microscopici, passando la loro vita nella micro-storia e nel micro-destino, così li ho trasformati nell’allegoria dell’umanità. Inviai in mezzo a loro un messaggero della redenzione, ma fu impossibile aprire una via di comunicazione con essi. Il messaggero fu sbranato e divorato prima ancora di essere stato compreso, o anche solo percepito. Il senso della parabola è kafkiano: la redenzione esiste, ma non per me.

Ha parlato di redenzione: cosa può dirci delle sue ispirazioni mistiche e spirituali?

“Non c’è nulla di mistico al mondo. Mistico è solo il fatto che il mondo esista”, scriveva Wittgenstein nel finale del suo Tractatus logico-philosophicus. Tutto il mio sforzo di pensiero degli ultimi quarant’anni è stato diretto verso una sola meta, impossibile da toccare: comprendere la realtà. La realtà è l’unico oggetto veramente mistico dato alla nostra meditazione. È la divinità infinita e inesorabile il cui abito fa un’increspatura proprio davanti alla nostra mente, così che essa possa vedere sé stessa. Quando sfioro qualcosa, non tasto altro che la punta delle mie dita. Quando sento un suono, sento la mia coclea. Quando guardo, guardo i miei occhi. Pensare è il modo in cui comprendo il mio cervello, è l’unico occhio con cui vediamo la realtà.
Perciò non credo al romanzo realista, il quale raffigura ciò che si vede attraverso gli occhi e ciò che si sente attraverso le orecchie. Perché la mente non vede con gli occhi né le emozioni, né le speranze, né le visioni, né i sogni (quando sogniamo, teniamo gli occhi chiusi). L’erba vista con gli occhi è verde, il che è una bugia: l’erba rigetta proprio la lunghezza d’onda del colore verde e lo riflette tutt’intorno, mentre conserva in sé tutti gli altri colori. I miei romanzi cercano di conservare, come l’erba di un prato, tutte le sfumature, tutte le linfe, tutti gli aromi, tutte le piroette e i soffi di vento, rigettando soltanto la “realtà” dei romanzi realistici: le storie con le corporazioni multinazionali, i triangoli amorosi, i pettegolezzi, i problemi sociali, le opzioni politiche e le appassionate partite di ping-pong. Questa realtà dei romanzi di consumo mi sembra di plastica rosa, come le gambe troppo lunghe delle bambole Barbie.

Una cosa che il lettore italiano forse non coglie pienamente – ma può sospettare se ha letto Il Levante – è il modo in cui lei rimette in scena o reinventa la tradizione letteraria romena, che ha forti componenti fantastiche.

La letteratura romena si è evoluta imitando le letterature occidentali più avanzate, esteticamente parlando. Da queste abbiamo ripreso tutte le correnti letterarie, tutte le mode di Parigi, Londra, Berlino e New York. E questo è normale per una letteratura marginale, che si è destata alla vita con un certo ritardo. Eppure, in questo clima di imitazione spesso pedissequa e di rivolte ‘autoctoniste’ ancora più stupide, sono immersi, secondo la legge dei grandi numeri, anche alcuni geni puri che, se fossero stati francesi, tedeschi o americani, oggi avrebbero una notorietà universale. Riuscendo ad evadere da questo “paese triste, pieno d’umorismo” – come definiva la Romania il poeta George Bacovia – alcuni di loro sono diventati delle star internazionali: Brâncuși, Eugene Ionesco, Cioran, Mircea Eliade, George Enescu. Altri, come Mihai Eminescu, Tudor Arghezi, Nichita Stănescu, sono delle divinità locali, con un culto condiviso soltanto dai romeni.
La tradizione della letteratura romena non è conservatrice, bensì puramente moderna, costruita sulle avanguardie, il surrealismo, il modernismo e il postmodernismo. Non abbiamo un’altra tradizione valida con cui relazionarci. I nostri scrittori più grandi sono stati anche i più immaginifici. Il filone fantastico deriva dal romanticismo ottocentesco di Eminescu, autore di scritti sulla metempsicosi e le vite anteriori, per continuare con la letteratura di speculazione religiosa-archetipale di Mircea Eliade o Vasile Voiculescu e arrivare da noi con una serie di scrittori contemporanei. Non direi di avere subito in particolar modo l’influsso della tradizione romena della modernità, sebbene un autore come Max Blecher – una specie di Kafka o di Bruno Schulz nostrano – mi ha affascinato abbastanza. Ho invece altre divinità letterarie con le quali resto molto più indebitato: un politeismo affollato come quello dei popoli indiani. Neanche saprei da chi iniziare. Ciò che mi auguro è che ognuna di queste divinità si sia dissolta nel magma scritturale dei miei libri, affinché non si possa più identificare in una pagina o in un’altra: ecco, qui c’è Salinger, qui sta Nabokov, qui Kafka o Rilke e in quest’altra parte c’è Properzio… Spero veramente che, ovunque venga letto, ci sia solo e soltanto Cărtărescu, buono o cattivo, lui stesso.

Se paragonato a Abbacinante, in Solenoide c’è anche un piglio fantascientifico più forte, con tutte quelle dimensioni parallele…

Spero soltanto che il romanzo Solenoide risulti al lettore italiano molto diverso da Abbacinante. Sono diversi, si tratta anche di un’età letteraria (purtroppo, anche biologica!) diversa, e di una diversa posta in gioco. La differenza più grande e che salta subito agli occhi penso sia l’accento su valori morali, sulla solidarietà umana, sul rigetto di qualsiasi discriminazione tra gli esseri umani. Ho tentato di introdurvi, inoltre, per atmosfera e discretamente, degli elementi cyberpunk e di architettura industriale, così come si vedono non tanto in libri e film, quanto in molti giochi per il computer come Syberia, Bioshock (soprattuto il capitolo Infinite, un gioco con scenografie stupende) o Borderlands. Gli ultimi due sono direttamente presenti nel mio romanzo, li ho menzionati affinché il lettore se ne facesse un’idea.

In un’intervista ad Alessia Rastelli per il “Corriere della Sera” ha detto che Solenoide è “un libro contro la morte”: ci può dire qualcosa di più in merito?

Nel romanzo appare la dea della morte, davanti al picchetto che manifesta contro di lei e schiaccia il loro leader sotto la sua enorme pianta di ossidiana (misura 20 metri di altezza). Colui che alla fine la sconfigge con la forza antagonista dell’amore è il personaggio principale, lo stesso che nel finale del romanzo si rifiuta di salvarsi da solo davanti al mondo in rovina e preferisce restare accanto a quelli a cui vuole bene. La morte sembra fatale e ineluttabile, ma in realtà è molto facile da sconfiggere da parte di chi ha almeno un’anima viva accanto a sé. La morte è terribile, invece, per chi si trova “solo come Franz Kafka”.

In Italia lei viene spesso paragonato ad autori come Bolaño o Borges: indubbiamente ci sono dei temi comuni con Borges (vi rifate entrambi a Kafka, in un certo senso), mentre con Bolaño ha in comune la stazza delle opere principali e una certa idea che in fin dei conti stiamo vivendo all’inferno… Leggendo Solenoide ho trovato anche una forte presenza di Ernesto Sábato, soprattutto Sopra eroi e tombe, mentre in alcune delle scene scolastiche c’è un realismo magico che richiama Márquez…

Ho letto soltanto due dei libri di Bolaño, del resto quelli più apprezzati e, per quanto mi sia difficile dirlo, confesso che la sua scrittura non mi è piaciuta. Non mi ha attirato, non mi ha comunicato molto… E non c’è neanche da sorprendersi: nessuno scrittore scrive per tutti. Né io vorrei piacere a tutti. Non penso, inoltre, che viviamo nell’inferno, e in quanto alle dimensioni dei miei scritti, vorrei che fosse paragonata a quella degli scritti di altri autori… Sábato, sì, una volta l’ho definito il Dante Alighieri del Novecento. La mia ammirazione per l’autore del Rapporto sui ciechi non conosce limiti. Lo stesso vale per il Carlos Fuentes di Terra Nostra e per il Thomas Pynchon di V. Borges, d’altra parte, è sacrosanto per me: non rassomiglia a nessuno della letteratura moderna, per me è il più originale autore che ci sia. Conosco a memoria i suoi racconti, così come tanti di Cortázar: quando ho letto Axolotl avevo appena dieci anni e non dimenticherò mai quella lettura.

In uno dei suoi interventi in Italia ha detto che la Romania potrebbe essere un paese latino-americano sperduto nel mezzo dell’Europa: cosa voleva dire?

Non voglio appropriarmi di una battuta tanto bella quanto vera, in Romania essa è nell’aria e sono in molti a utilizzarla. Infatti il mio paese colpisce per quanto è “latino-americano”: la lingua, l’indole delle persone, il contrasto tra poveri e ricchi, la criminalità, l’appetito per le ideologie e le dittature, e non da ultimo per la sua cultura estremamente immaginativa, predisposta alle allucinazioni, al sogno, alle speculazioni, alla metafisica. Un “paese triste, pieno di umorismo”, come tanti in Sudamerica, come mi sono sembrati il Messico e la Colombia, che ho visitato di recente. E non è un caso che mi ci sia trovato come se fossi stato a casa mia.


VANNI SANTONI (1978), DOPO L’ESORDIO CON PERSONAGGI PRECARI HA PUBBLICATO, TRA GLI ALTRI, GLI INTERESSI IN COMUNE (FELTRINELLI 2008), SE FOSSI FUOCO ARDEREI FIRENZE (LATERZA 2011), TERRA IGNOTA TERRA IGNOTA 2 (MONDADORI 2013 E 2014), MURO DI CASSE (LATERZA 2015), LA STANZA PROFONDA (LATERZA 2017, DOZZINA PREMIO STREGA). È FONDATORE DEL PROGETTO SIC (IN TERRITORIO NEMICO, MINIMUM FAX 2013). DIRIGE LA NARRATIVA DI TUNUÉ E SCRIVE SUL CORRIERE DELLA SERA. IL SUO ULTIMO ROMANZO È I FRATELLI MICHELANGELO (MONDADORI 2019).

 

Ti è piaciuto questo articolo? Da oggi puoi aiutare L’Indiscreto a crescere e continuare a pubblicare approfondimenti, saggi e articoli di qualità: invia una donazione, anche simbolica, alla nostra redazione. Clicca qua sotto (con Paypal, carta di credito / debito)

0 comments on ““Comprendere la realtà”: intervista a Mircea Cărtărescu

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *