L’animalismo non può non tener conto degli umani: il nostro voler “salvare gli animali” potrebbe persino essere dannoso per gli ecosistemi stessi, che vanno considerati come animali e umani allo stesso tempo, tenendo conto di economia, ecologia e culture. E questo per un motivo semplice: anche noi umani siamo animali.
In copertina un’opera di Edward Hicks
Come la crisi climatica avanza, le questioni ecologiche si legano non solo alle sorti delle foreste che ardono o dei ghiacci in dissolvimento, ma a quelle dei popoli che, come i luoghi, hanno subito drasticamente l’impatto dell’avanzata colonialista. A questi popoli dovremmo forse volgerci per immaginare altre vie, forse già indicate o percorse da alcuni. In questo articolo proverò a guardare all’Artico canadese, quel nord da cui l’oceano si alza implacabile, per inoculare alcuni dubbi necessari perfino in quelle convinzioni che sembrano scaturire da una volontà ecologista.
Undici anni fa il governo canadese si è ufficialmente scusato con le popolazioni native per gli abusi commessi, in particolar modo per il dolore causato dalle scuole residenziali, dove i bambini sono stati per lungo tempo allontanati dalle loro famiglie e dalla loro identità, con conseguenze spesso drammatiche. Le scuse, che dovrebbero provenire poi anche dal mondo clericale, sono certo un primo passo, ma non quello definitivo. L’Artico chiede di essere ascoltato ben oltre i confini locali. Non necessita più di un mea culpa, ma di una presa di coscienza.
Una delle attiviste più lucide su questo tema è la regista inuk Alethea Arnaquq-Baril, originaria di Iqaluit nel territorio del Nunavut, il più a nord di tutto il Canada. Se nel suo documentario, Tunniit: Retracing the Lines of Inuit Tattoos (2010), esplorava la tradizione dei tatuaggi facciali per le donne inuit, repressa e quasi dimenticata con l’arrivo delle missioni prima e delle scuole residenziali poi, nel suo secondo documentario, Angry Inuk, del 2016, esce dai confini artici, per richiamare in modo netto le responsabilità di tutti. Tema centrale dell’opera è l’impatto che il bando europeo sulla caccia alle foche, esteso nel 2009 a qualsiasi derivato dall’animale, ha avuto sulla sua comunità. La caccia alla foche, osteggiata da associazioni animaliste fin dagli anni Settanta, è sempre stata il primo mezzo di sostentamento per le popolazioni artiche della costa. Di fatto il bando non proibisce la caccia per il proprio sostentamento agli inuit, riconoscendo apparentemente i loro diritti e anche il loro rapporto “animistico”, con la fauna marina. Uso le virgolette perché questa posizione non fa che rafforzare stereotipi eludendo o minimizzando la realtà contestuale. Il documentario solleva tre punti imprescindibili, che vado ad elencare.
Primo: le questioni animaliste e antispeciste e il loro rapporto con le realtà locali, quindi con la conservazione stessa delle varie specie nelle loro diversità. A livello personalissimo questo mi tocca: sono vegetariana, mi riconosco antispecista, ma trovo strettissime e di frequente ipocrite le pastoie ideologiche delle associazioni a difesa degli animali, per non dire dei singoli sedicenti animalisti, soprattutto quando oppongono in modo dualistico e conflittuale animale e umano, natura e umano. Non trovo, per sintetizzare, in molti di loro una visione basata sulla reciprocità del vivente e sul rapporto indispensabile con il luogo.
Secondo: l’abitudine occidentale a relegare alla leggenda edulcorata le esistenze di altri popoli minoritari o liminali, oppressi e massacrati in modi più o meno noti, durante le varie fasi del colonialismo occidentale, ma tutt’oggi partecipi di questa terra.
-->Terzo punto, che va a braccetto col secondo: la rimozione del dato economico, del coinvolgimento di tutti nell’economia globale, compresi quei popoli che ci piace immaginare dentro universi metafisici, ma fatichiamo a legittimare nelle questioni di sopravvivenza e resistenza, sia fisica che culturale.
Torniamo all’opera. Con l’aiuto di Aaju Peter, avvocatessa e stilista che usa la pelliccia di foca per i suoi modelli, la regista non solo porta avanti interviste nella sua comunità, ma mostra la necessità di una rappresentanza politica forte per il suo popolo (come per tutte le minoranze), seguendo una piccola delegazione inuit, di cui ha fatto parte la stessa Peter, presso la sede dell’UE, prima del voto del 2009. Il risultato, come sappiamo, non è stato per loro positivo. Impossibile competere con la macchina da guerra delle associazioni animaliste, con i teneri peluche di foca bianca regalati ai deputati, con il potere del denaro di cui queste associazioni godono, con la visibilità data loro da artisti e attori, volti della causa fin dagli anni Settanta. Impossibile anche, per il carattere degli Inuit, rispondere alla veemenza dei toni propagandistici di tali associazioni. Il titolo, Angry Inuk, sottolinea proprio questo sentimento di saturazione e di giustizia, nei confronti di chi, nascondendosi dietro il rifiuto della violenza su altri animali, fa della violenza il suo linguaggio. L’Inuk arrabbiato è di per sé un ossimoro. Tradizionalmente quando qualcuno veniva aggredito nella comunità, si ricorreva a un duello musicale, nel quale i due contendenti suonavano il tamburo a vicenda, con un ritmo costante. Chiunque dei due perdesse le staffe, perdeva il duello – il suono del tamburo progrediva finché la pace era ristabilita e i rancori lasciavano posto al riso. “Dobbiamo far capire al mondo che esistiamo”, dice la regista. Qui e ora. Proprio per questo è discutibile (direi insultante) un provvedimento che afferma prodigamente di non avversare la caccia alla foca da parte dei locali, mentre evita di ricordare che il sostentamento degli inuit non proviene solo dall’immediato consumo dell’animale, ma soprattutto dalla commercializzazione delle pelli. Sembra che alcuni ecologisti occidentali siano rimasti al folklore di non precisati tempi remoti, senza chiedersi cosa succede nella contemporaneità di cui tutti facciamo parte, con o senza studi antropologici dedicati. Non mi tiro fuori: perfino io ho pianto per i cuccioli bianchi, ho pensato che era giusto difenderli, mentre da ragazza mi entusiasmavo per i miti della Madre Marina degli Animali e per gli scritti etnografici di Knud Rasmussen. Ancora mi entusiasmano. Ma la nostalgia non è d’aiuto a nessuno, tanto meno al bravo studioso: ogni storia del passato si riattiva nell’incontro con il presente. Quindi il bando dei prodotti nuoce gravemente all’economia di questi popoli ovvero alla loro sopravvivenza. Non solo: in una terra aspra e ostile come il nord, spinge i cacciatori a trovarsi altre professioni, più impattanti e negative per l’ecosistema. Tra i vari momenti duri del film, spicca l’intervista a un cacciatore che si è rifiutato di lavorare per l’industria del gas e del petrolio: si è rifiutato cioè di prendere parte alla trivellazione dei fondali per tramite di esplosioni subacquee che danneggiano l’oceano e gli animali – quelle foche che tanto vorremmo proteggere. Alcuni focidi, come altri animali del mare, diventano sordi temporaneamente o in via definitiva per via del trauma esplosivo; perdono l’orientamento e talvolta la vita. “Noi amiamo i nostri animali”, dice l’uomo, il cacciatore, lo sterminatore di foche. Noi amiamo i nostri animali. Pensate a tutte le altre parole che sono in questa semplice frase: sono i nostri compagni, la nostra carne, la nostra luce, i nostri vestiti, sono le creature a cui torniamo quando moriamo. Sappiamo che hanno paura, perché anche noi temiamo.
A differenza di tanti occidentali, sradicati dalla terra che abitano, la comunità inuit è intrinsecamente consapevole del ciclo esistenziale di umani e non umani, cacciati e cacciatori, continuamente mutati gli uni negli altri. Così andrebbe interpretato l’animismo, quale riconoscimento di quelle “persone oltre l’umano”, come scrive l’antropologo Irving Hallowell, che introduce il rispetto nelle relazione vita-morte, unendoci oltre la specie nella catena alimentare come in quella spirituale.
Perché non preoccuparsi dei tanti allevamenti intensivi, dove gli animali sono deprivati di ogni decenza, prigionieri dalla nascita al decesso? È certo più utile una lotta ferrata a questo sfruttamento, fra le cause primarie della desertificazione della terra. Che lo si faccia per amore dell’animale o per amore della terra, un’azione mirata alla liberazione di quelli che nemmeno chiamiamo animali, ma bestiame, sarebbe più utile, nobile, perfino più animista. Certo, nessuna povera mucca possiede il fascino della fauna selvatica, che abbiamo ampiamente decimato pur senza cacciare foche, ma che ci lascia vagheggiare intorno a un nostro spirito indomito, perduto nei boschi e nelle savane. Nessun pollo e nemmeno pulcino colpisce il nostro immaginario di second’ordine come i grandi occhi di un cucciolo bianco sulla banchisa. Non farebbero la stessa figura su un qualche manifesto pubblicitario, non produrrebbero i soliti introiti per nessun movimento. Perché va ricordato che non tutti i firmatari di petizioni sono vegetariani, vegani, vinciani: senza soffermarmi oltre sulle molteplici criticità di simili scelte etiche, basta dire che vari consumano carne. Mi chiedo se sanno da dove proviene.
La risposta delle associazioni alla richiesta della regista e degli attivisti inuit di un confronto è indicativa: si sono sempre negate. Non sono invece mancati gli attacchi sui social a personaggi noti, come la cantante di gola Tanya Tagaq, forte sostenitrice della caccia alla foca per il suo popolo. Da una parte quindi nessun punto d’accordo, dall’altra violenza reiterata. Proprio Tanya Tagaq nel 2009 è stata la protagonista del cortometraggio Tungijuq – what we eat, “Ciò che mangiamo”, prodotto da IsumaTV, primo sito web al mondo a promuovere le arti visive e multimediali delle popolazioni indigene. Il video è radicalmente animista: varie creature mescolano le loro sorti nella caccia e si risolvono nello sguardo dell’umano, che è sia preda che predatore – lupo, foca, caribou. Non c’è tempo per distinzioni sul merito delle vite – ognuna fa la sua parte, ognuna degna e prossima al respiro come alla fine.
La prospettiva mitica del video si fonde con la dimensione personale che apre e chiude il cerchio di Angry Inuk, raccontando l’esperienza familiare di Arnaquq-Baril, e ricordandoci che le nostre sensibilità dovrebbero sempre cercare un affondo nell’esperienza per non risolversi in un superficiale quanto dannoso sentimentalismo.
Al termine del documentario restano le domande: cosa significa vivere una vita ecologica? Quali battaglie ci riguardano, quelle che urtano il nostro sguardo disabituato alla crudezza e alla meraviglia del mondo o quelle che ci portano fuori, nelle ragioni degli altri, nelle ragioni di una terra che forse altri immaginano con presenza e partecipazione ignote al modello occidentale? Possiamo permetterci ancora di incorniciare interi popoli in visioni passatiste e fiabesche, con nastri di perline a ornarne i mocassini? Possiamo davvero permetterci di escludere le loro voci nelle questioni che più da vicino li coinvolgono? Possiamo escluderli dal quadro economico, dalla grande comunicazione, in nome dei nostri occhi miopi e feriti? E, scrupolo strettamente animalista, come si ama l’altro animale: dimenticandosi le migliaia di vittime da allevamento e combattendo la caccia, senza profferire parola però sulla distruzione degli ecosistemi e quindi di intere specie; o perseguendo una visione olistica, che integri umano e animale, cominciando a rendere dignità a chi lo ha sempre fatto, a quei popoli che stanno rischiando esattamente come gli animali da loro cacciati, i territori da loro vissuti, lontano dalle nostre precarie poltrone? Amaramente mi risuonano le parole sarcastiche dell’occidentalissimo Jacques Prévert, poeta da grande pubblico, inviso agli specialisti:
Uccelli a migliaia volano verso le luci
a migliaia cadono a migliaia s’urtano
a migliaia accecati a migliaia colpiti
a migliaia muoiono.
Il guardiano non può sopportare cose di questo genere
agli uccelli vuole troppo bene
e allora dice “Tanto peggio, me ne frego!”.
E spegne tutto
Naufraga lontano un cargo
un cargo che viene dalle isole
un cargo carico d’uccelli
migliaia d’uccelli delle isole
migliaia d’uccelli annegati.
Molto molto interessante. Devo ammettere di conoscere troppo poco i movimenti ambientalisti ma mi illudevo che non tutti avessero questa ottusità.
Corretta formazione di dubbi migliorativi. Il problema è che in Occidente ci stiamo abituando a fare ambientalismo nel salotto di città. Al massimo con leggi e cortei. Ma i cortei non durano che un mese o poco più, vedi i Friday for future di cui oggi non si parla nemmeno più…
C’è bisogno di una nuova consapevolezza scientifica e di meno waltdisneismo.
Al di là della contraddizione di un tempo che incastra questi popoli dentro e fuori il mercato, dentro e fuori la tradizione, quindi dentro e fuori l’uomo cacciato allo stesso modo che cacciatore (ma davvero?), sono d’accordo che non bisognerebbe imporre l’ipocrita legge “occidentale” al popolo Inuk. Questo non è un pensiero ecologico. Siamo d’accordo. Fuori da questo genere di contesti però, il principio utilitarista filosofico del diritto alla vita di un animale è ancora lì, intatto.
Notevole il concetto antropico di LUOGO, qualche perplessità sulle scelte poetiche… Ad maiora-
Ciao Giovanni e grazie. A dirtela tutta non leggo Prevert da decenni… è stato relegato a un amore adolescenziale, non figura nemmeno fra i miei poeti di ispirazione, che sono altri. Però quel testo immediato mi è venuto subito in mente e ho deciso di usarlo.