Pubblichiamo un libro inedito Meltemi dell’antropologo Franco La Cecla a puntate: Surrogati di presenza. Il saggio svela la dimensione animista delle relazioni digitali che intratteniamo con i media: il mezzo principale con cui, oggi più che mai, intratteniamo i nostri rapporti di presenze-assenti.
IN COPERTINA: Rosy cell phone, di Dan Witz
Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.
di Franco La Cecla
L’ho visto fare la prima volta nella metropolitana di Hong Kong. I vagoni erano attrezzati – era il 1998 – per ricevere le on de magnetiche dei cellulari. In metropolitana, sottoterra, grandi flussi di persone. Una di queste, una ragazza, aveva passato parecchi minuti al telefono; prima di chiuderlo – era un apparecchio “a conchiglia”– lo aveva baciato. Chi aveva baciato? Ovviamente non la superficie liscia del monitor, ma chi vi stava dentro, lì, fino a qualche secondo prima. Ne aveva baciato l’assenza.
Poi, sempre di più, il telefonino – le portable, el mobil, the handy – è diventato normalmente presente nei nostri gesti quotidiani, è parte dell’eleganza di certe culture, come in India lo è la pratica dei gesti, parte della grande funzione sociale dell’attesa. Ecco un’altra componente animista dei media: il telefonino contiene in potenza la presenza altrui. Uno si porta appresso, nell’agenda del cellulare, buona parte dei suoi contatti, si porta appresso gli SMS della sua storia recente. Nulla come il telefono portatile ha sublimato la funzione dell’attesa: in potenza sono in contatto con chi per me è importante. Il telefonino ha sostituito il diario della propria vita, le pagine su cui uno scriveva le proprie impressioni sono sostituite dal recording del proprio traffico di SMS. Un caso significativo: se ci rubano il cellulare, o se ce lo sequestrano come accade a chi viene messo dentro nelle famigerate 48 ore di garde à vue (fermo di polizia), ecco che tutto il nostro mondo svanisce, capiamo che siamo tagliati fuori, che il mondo degli amici e degli affetti non è più a portata di mano. Non c’è cosa più spaventosa per un adolescente che essere privato d’un tratto del proprio cellulare. Lo racconta bene il film L’Esquive, La schivata, e questo dramma non riguarda i figli viziati dei ricchi, ma proprio quei poveri ragazzi di banlieue di cui il film ci parla. Credo che poche volte nella storia i sociologi non abbiano capito nulla di un salto tecnologico; ma ricordo ancora la spocchia di sociologi e filosofi francesi e italiani di fronte all’avvento del telefonino. Prenderlo per un “optional per ricchi”, che stupidità! Che vacanza dalla storia! Invece il telefonino sta dentro al più profondo sentimento di compagnia, quel volersi portare in tasca il mondo degli affetti e delle relazioni che contano. Vi sembra una pretesa stupida, superba? Sì, lo è, non meno di quanto lo fosse serbare le lettere della fidanzata sul cuore, la ciocca di capelli dell’amato o la sua foto nel portafoglio.
Il telefonino non è comprensibile alla sociologia contemporanea perché essa esula dal mondo del feticismo degli affetti. Povera lei!
Un altro grande assente da questa rivoluzione rappresentata dal telefonino è la città. La tecnologia del portatile postula, prevede e prepara una città dove sia possibile accedere alla velocità delle comunicazioni individualmente e da ogni punto. Postula una città in cui ci si possa fermare per una telefonata, un messaggio, un video, un messaggio multimediale.
La città dei telefonini è una città di panchine, una città in cui la gente passeggia guardando lo schermo del telefono, come se, andando a spasso, leggesse il telefono al posto del giornale, una città che consente ai presbiti di abbassare le lenti per focalizzare ora i messaggi sul video, ora i passanti. Una città senz’auto, senza pericoli per chi si distrae, una città del passeggio e dell’andare a zonzo. Chi degli urbanisti si è accorto di questo cambiamento? Chi fra gli stupidi ingegneri che progettano le auto? Viviamo nel secolo più sclerotico che abbiano mai inventato!
Il saggio che segue accompagnava il video Vieni via con me pro dotto per la mostra DDay tenutasi al Centre Pompidou di Parigi nel settembre 2005. Il saggio e il video sono il prodotto di due viaggi, uno in Senegal e l’altro in India. Durante questi viaggi Stefano Savona, la videoartista Sara Donati e io abbiamo esplorato le dimensioni di una modernità che si esprime in un’apparente periferia, ma sembra invece dettare regole al centro. In Senegal la gente aspettava seduta che qualcuno la chiamasse al telefono dall’Europa. Attendeva, e l’attesa era già segno di status, dato dal fatto di avere qualcuno in Europa con cui potersi connettere e a cui affidare i propri progetti di ponte tra due mondi. In India il telefono portatile era già entrato profondamente nella vita di milioni di persone, come se ci fosse sempre stato. Era stato assorbito nelle relazioni di parentela e di casta, nelle ambi zioni di ascesa sociale e nella sua ritualità.
-->L’India ha dimostrato per l’ennesima volta che la tecnologia è accessibile a chi ha una struttura culturale capace di sottometterla e di risignificarla.
Vieni via con me. Corpi e telefoni portatili
Biglietteria della stazione di Lille. Il bigliettaio, un giovane con orecchino dall’aria simpatica, mi sta stampando la prenotazione del treno per Parigi. Nel frattempo scambia SMS con qualcuno dall’altra parte del suo cellulare. Nessuno di noi è stupito, né io, né gli altri in coda, né lui, che fa tutto questo come una cosa ovvia, un’attività che non toglie nulla al suo servizio clienti. Fino a qualche tempo fa non sarebbe stato accettabile. Qualcuno si sarebbe lamentato, avrebbe parlato di interferenza del tempo personale sul tempo del lavoro. Oggi ci sembra ovvio che lo spazio del “frattempo” sia un diritto personale. Il soldato nella guardiola, il taxista in vettura, il capotreno, lo studente all’università e perfino il professore in cattedra hanno diritto di tenere il cellulare acceso per essere avvertiti in casi di urgenza personale o per utilizzare l’apparecchio nei tempi morti delle attese. Si rimane “on line” anche se, facendo tacere la suoneria, ci si riserva di rispondere più tardi.
Nessuna innovazione tecnologica ha cambiato così tanto il nostro senso del presente e della contemporaneità. Grazie al cellulare possiamo essere simultaneamente padroni di più mondi, quello pubblico e quello privato, gli amici e il lavoro, e nello stesso tempo siamo presenti fisicamente e insieme potenzialmente presenti on line.
La società “resiste” ancora un poco a questa rivoluzione. Appelli patetici sui treni in Francia chiedono che il cellulare sia usato solo negli appositi spazi. Ci si chiede perché. Perché una discussione al cellulare dovrebbe disturbare più di una discussione vera? Il cellulare ha fatto emergere, al suo arrivo, tutto il conservatorismo delle nostre società. Si è detto che traviava i giovani e li distraeva da attività più proficue; nel Parlamento italiano c’è stata una discussione (condotta da Alleanza Nazionale) sul fatto che il cellulare, vera anticamera dell’adulterio, costituisse una spinta all’immoralità. Illustri sociologi ne hanno sottolineato il carattere futile e infantile, la perdita di socialità che esso comporterebbe. Eppure a me era già successo dieci anni fa, agli albori del fenomeno, di osservare in Sicilia una giovane filippina che lo usava su un autobus pubblico per cercare lavoro. Si lamentava con la ex datrice di lavoro che la chiamava e cercava la solidarietà delle connazionali.
Pochi allora si erano resi conto della rivoluzione che questo strumento consentiva, una rivoluzione non del superfluo, ma dell’essenziale. La cameriera filippina non aveva domicilio e stava cercando una nuova sistemazione. Aveva però il telefono.
Questa tecnologia porta con sé tre formidabili innovazioni:
1) Il cellulare ha reso superflua l’esistenza di un domicilio. Con sente di portarsi appresso la sfera dei rapporti personali, dappertutto.
2) In più, cosa su cui pochi hanno posto l’accento, è personale, non è un numero a cui possono rispondere altri al posto nostro. Per questo certamente facilita l’adulterio (ma già il telefono fisso è nato con la connotazione di strumento della menzogna perché “mente” sulla presenza di qualcuno, che può fingere di chiamare da dove vuole).
3) L’ultima grande innovazione è che non ci sono elenchi telefonici per i numeri di cellulare e, a meno che non siamo la polizia o un abile hacker, non è possibile conoscere il numero di un cellulare che non ci è stato confidato.
Queste tre caratteristiche sono il contorno della sostanza: la mobilità. Il cellulare si muove con noi, fa effettivamente parte della nostra identità, ci consente di essere raggiungibili da chiunque. Non è come un capo di vestiario, somiglia piuttosto a un documento di identità. Il cellulare contiene il nostro universo di relazioni.
Noi siamo le persone che conosciamo, che amiamo, che corrispondono al nostro mondo, noi siamo il nostro mondo. Uno se ne rende ben conto in carcere quando la prima cosa che gli tolgono, oltre alle stringhe delle scarpe, alla cintura dei pantaloni e ai documenti, è proprio il portatile. Adesso non è più libero. Libertà è la possibilità di chiamare, all’occorrenza, qualcuno che possa venire in aiuto, ascoltare o dare dei consigli.
Sarebbe interessante capire come con l’avvento del cellulare sia cambiata l’intensità d’uso del telefono. Certamente chiamiamo di più. Perché questa appendice che ci segue ci consente i mezzi pensieri, le mezze intenzioni, ci consente di articolare e sfumare la nostra voglia di relazione, di declinarla con uno squillo, come tra adolescenti senza soldi, con un SMS – che compromette meno l’intimità, o molto di più, a seconda dei casi – o con una vera chiamata. Contrariamente a quello che pensano i sociologi, la ricchezza della comunicazione si è ampliata e diversificata.
La prova lampante è che gli unici che sanno che cosa farsene della tecnologia sono gli utenti e che gli stessi inventori sono balbuzienti. Basta dare uno sguardo alle pubblicità di reseaux e portatili per accorgersi di come le compagnie telefoniche e le industrie di cellulari pensino che la società sia formata da giovani deficienti che si inviano foto dalle spiagge della Côte d’Azur o da manager incalliti che confidano segreti di borsa prima di salire su un aereo. La dimostrazione è che la gente non usa la funzione foto per mandarsi scatti, ma per compilarsi un proprio album di ricordi.
In Italia la principale compagnia telefonica della rete fissa pensa che sia una grande innovazione offrire il videotelefono, ed è seguita in questa idea dalla telefonia mobile. Chi può pensare che sia sempre bello vedere la faccia della persona a cui si telefona? Nella pratica, il pubblico ha già deciso, e questa è l’innovazione meno opzionata.
Il telefono rimane un telefono, cioè un dispositivo di “dilazione della presenza”, con tutti i vantaggi che questo comporta. La mia telefonata mi rende più vicino, sì, ma non fisicamente accessibile, e questo costituisce una notevole differenza. La promessa di presenza è una delle caratteristiche della nostra società. La posta, il telefono, l’email sono forme di surrogati di presenza che consentono di sapere che l’altra persona c’è, ma non di esservi accanto davvero. Per quanto si parli oggi di confusione tra virtualità e realtà, gli utenti di un cellulare sanno bene che ogni telefonata accelera o frena la possibilità della presenza reale. L’appuntamento, il momento della verità fisica, sia esso un dating tra adolescenti, un appuntamento di lavoro o il rendez vous di una coppia divorziata, è ben altra cosa. Solo chi non ha mai cercato un appuntamento galante per email o per telefono può credere che la virtualità sostituisca la realtà.
Per tutti questi motivi il cellulare ha avuto una diffusione popolare così ampia. Ed è diventato uno strumento essenziale per le società che hanno solo l’essenziale. È notizia recente che i paesi “in via di sviluppo” (developing countries) hanno superato quelli “avanzati” per quanto riguarda la percentuale di telefoni e di abbonamenti su rete mobile.
Il cellulare, inizialmente strumento degli emigrati, è poi divenuto la base del loro collegamento con la società d’origine e in seguito, in queste stesse società, la chiave di un rapporto rivoluzionato con il resto del mondo. È forse l’unico strumento della globalizzazione dal basso, quello che consente un incremento dei diritti individuali in paesi fino a poco tempo fa isolati o caratterizzati da un regime economico o politico difficile. Insieme a Internet, il cellulare costituisce l’unica e fragile risposta individuale allo strapotere della mondializzazione imposta dalla finanza e dai mercati. Diciamo che il telefono portatile è veicolo di un diritto a cui pochi oggi fanno riferimento: il diritto all’ubiquità, a non dover vivere per forza e sempre nel posto in cui si è nati, un luogo spesso diviso da frontiere e spaccato da ingiustizie mondiali e guerre insensate. Il diritto all’ubiquità è un coro che da varie parti del mondo si è levato come non mai negli ultimi vent’anni e che ha reso obsoleti gli altri diritti: che senso ha parlare di libertà senza diritto all’ubiquità? Che senso ha parlare di uguaglianza senza il diritto a una mobilità generalizzata? Che senso ha parlare di fraternità in un mondo in cui l’accesso alle persone care è proscritto da inique leggi che impediscono alle famiglie degli emigrati di ricongiungersi?
Per capire la rivoluzione del cellulare occorre tenere conto della dimensione mondiale della sua espansione. Seconda numericamente solo al balzo degli apparecchi televisivi, pari al balzo degli utenti di Internet, la diffusione del cellulare sta prendendo una dimensione inaspettata in paesi molto poveri.
In questi ultimi come in moltissimi altri il cellulare presenta caratteristiche che sono specifiche della cultura locale. In Senegal è, per esempio, un chiaro indicatore di status, nel senso che il suo possesso dà accesso a uno status nuovo rispetto al sistema delle caste o delle ripartizioni del potere e del prestigio che esistono nella società tradizionale. Il cellulare indica il contatto con connazionali, parenti o membri della famiglia allargata che stanno in Europa; a volte indica che ci si è stati e che ci si tornerà. Coloro che hanno un portatile in Senegal per lo più non lo usano per chiamare, ma per essere chiamati dall’estero e si assiste, in molti luoghi di Dakar ma anche in angoli lontani del paese, come nelle gares routières polverose che conducono in Gambia o in Casamance, a lunghe scene di attesa. Lui o lei stanno seduti per ore, su uno scalino, sotto un albero, tra le merci di un mercato, ad attendere di essere chiamati. Simbolo vivente di una condizione più ampia, quella dell’economia di un intero paese appesa al filo delle rimesse degli emigrati, al filo della dipendenza da un altrove che si fa aspettare. La paradossalità dell’innovazione che il cellulare rappresenta si mostra in una scena a cui ho potuto assistere sul fiume Gambia, alla frontiera tra Senegal e Gambia. Il traghetto, malandato e macilento, che si rompeva più volte al giorno, era collegato con una ufficialessa di polizia che con il suo portatile dirigeva da terra le operazioni.
Il portatile assume in mondi difficili il valore di nuova metafora dell’attesa e della speranza. Un lottatore della tradizionale lotta libera senegalese ha preso come nome di battaglia quello della compagnia telefonica locale Alize. Alla domanda di chiarire perché si fosse fatto ribattezzare come una compagnia telefonica, risponde: perché lui “ha sempre campo, ha sempre réseau”, nel senso che sa trovare nella maniera migliore gli appigli per fare cadere l’avversario, ma anche nel senso più ampio per cui il “campo” e il potere sono le ramificazioni a cui può arriva re per difendersi dal malocchio e dall’invidia altrui.
Il cellulare è un nuovo grigri da portare al collo, difende nella vita al pari di un rosario da preghiera, della collana con la foto dello sceicco o del marabout ispiratore.
E in effetti ha la stessa funzione di protezione. È il réseau che protegge, assicura contro gli infortuni della vita, dà forza ed energia.
Nella tecnologia del corpo che il cellulare comporta ci sono movenze diffuse, quelle dell’attesa o della chiamata, ma anche gesti e posture diversi a seconda delle culture e però così significativi del valore che il corpo ornato da questo dispositivo assume. Con il cellulare il corpo è antenna, il corpo nella sua interezza è una stazione ricetrasmittente. Per questo se ne possono ampliare i gesti, si può evidenziare come lo si tiene in punta di dita, come lo si apre a mo’ di ostrica, come lo si fa suonare, come lo si tiene al collo, al pari di uno strumento musicale o di uno stereo. Le suonerie dei cellulari prendono corpo, connotano la musica individuale delle proprie connessioni in una folla a cui allo stesso tempo si vuole e non si vuole appartenere.
E poi si parla, si sussurra, si ride, si piange, si litiga, si spiega, ci si dilunga, si prende tempo, si fanno pause, si intrattiene l’altro con i propri suoni gutturali o i propri sì e no a dire che ci siamo. Questo fatto di parlare da soli con un apparecchio è passato da una fase in cui sembrava che ogni utente fosse un folle che parlava da solo, all’impressione, di cui siamo diventati tutti maestri, di una pluralità di mondi contemporanei. Perfino Baye Fall, la figura tradizionale del buffone cantastorie, ha un cellulare tra le mani e insieme alla ragazza nera con le trecce tra la folla che compra pasta di tamarindo è qui e allo stesso tempo anche altrove, laddove sta parlando. Se non si sente l’ebbrezza della pluralità e contemporaneità dell’agire – mondi individuali nelle loro diverse articolazioni, mondi collettivi nelle loro complicate interazioni – non si capisce che la società in cui viviamo oggi è davvero la realizzazione di una follia e di un sogno allo stesso tempo. La folliasperanza è l’attivazione delle molteplici possibilità di essere presenti che sono date a ogni essere umano.
Gli uomini, le donne in carne e ossa non hanno il sogno di divenire immortali, essi sognano di potere divenire mondo, di poterselo mangiare, di esservi presenti il più possibile, di poterci avere a che fare, di potersi ampliare e rinnovare, di frammentarsi e ricomporsi. Non è certamente un sogno tradizionale, se non nella pratica di sciamani e stregoni, mistici e curanderi (e quindi molto più diffuso di quanto si pensi), ma è comunque un sogno antico dell’umanità, che oggi si manifesta in modo dirompente.
Per questo motivo alcuni popoli sono più capaci di altri di servirsi del cellulare. Sono culture abituate a portare avanti più attività allo stesso tempo. “Nel frattempo”, mentre parlo con te, cucino, penso, faccio gesti a un amico che passa, urlo ai bambini di stare buoni, ecc… Nelle società tradizionali la contemporaneità delle funzioni prevale sulla loro unicità. Sono queste le società che hanno inventato i gesti come maniera di intrattenere – di sospendere per renderle parallele sur place – le relazioni, di rendere la propria presenza efficace e attiva nei confronti di una moltitudine. Il portatile entra a far parte di questa competenza discorsiva che alcune culture più di altre possiedono. Non c’è bisogno di una scuola per imparare a usare un telefono portatile. Perché? Perché esso si inserisce perfettamente nelle protesi della gestualità che il corpo ha sempre inventato, fosse lo scettro del re, il bastone del pellegrino, il legno per lavarsi i denti da tenere in bocca, il rosario da tenere in mano e far girare (con un gesto vagamente simile a quello che compiamo per comporre i numeri telefonici), la sigaretta.
La gestualità serve a disequivocare l’uso del portatile. Con i gesti indico ai circostanti che sono impegnato contemporaneamente in una conversazione telefonica. I gesti sono la cabina telefonica di un telefono che è diventato autonomo da muri. Bisogna
vedere con quanta ricchezza nelle culture tradizionali che hanno ricevuto il portatile i gesti ampliano, coprono, rivelano, intrattengono i circostanti, in qualche modo rimandandoli al momento in cui la conversazione telefonica sarà finita. La gestualità legata al cellulare fa parte di quella tattilità di cui parla Walter Benjamin come prima presa sul mondo, come un confondersi quasi con esso (la conoscenza tattile è un essere toccati che si con fonde con il toccare).
Strano parlare di tattilità a proposito di uno strumento che rimanda a onde, campi e altrove intangibili. Però di questa pasta è fatta la nuova umanità, di un uso della tecnologia che la strappa quasi immediatamente ai centri del potere che l’hanno inventata per ridurla alle dimensioni corporee dove ad avere la meglio sono le energie, i lamenti, gli effluvi, il toccatocca delle pratiche propiziatorie.
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