Cosa ci insegna sulla memoria la letteratura cilena

Quasi tutta la letteratura cilena è fortemente impregnata con la memoria della dittatura, ma segue percorsi strani, che si riverberano in tutta l’arte di questo paese.


in Copertina: una foto di Francesca Iovene

di Silvia Pelizzari

Nell’ottobre 2022, un mese e mezzo dopo il risultato del referendum cileno in cui la cittadinanza ha rifiutato la nuova Costituzione, sulla rivista online Revista Anfibia è uscito un lungo articolo in cui Roberto Fernández Droguett ne analizzava l’esito a partire dalle rivolte del 2019. Tra le prime cose che affermava c’era quella per cui il Cile sarebbe un paese senza memoria. È una frase che si è spesso letta negli approfondimenti di attualità cileni, soprattutto negli ultimi mesi, quando era diventato chiaro il risultato del referendum e sulla quale io, dall’esterno, non riuscivo a farmi una ragione.

Un breve riepilogo dei fatti recenti.

Il 4 settembre 2022 il 60% dei votanti cileni (il voto era obbligatorio) rifiutava la nuova Costituzione che avrebbe dovuto sostituire quella del 1980, scritta durante la dittatura di Pinochet. Il disastro era abbastanza annunciato eppure ha suscitato stupore e imbarazzo il fatto che a tre anni dalle rivolte e a seguito dell’elezione del Presidente di sinistra Boric, quello che era il grande progetto di riforma del Paese venisse bloccato proprio dai cittadini.

Nel 2019, a partire da un aumento del prezzo del biglietto della metro pari a 30 pesos, in Cile si era infatti scatenata la più grande protesta degli ultimi decenni. Un milione di manifestanti si riversava nelle strade di Santiago al grido di “No son 30 pesos, son 30 años”, “Non sono 30 pesos, sono 30 anni”, denunciando decenni di crisi sociale generata dal neoliberismo. L’allora presidente Sebastián Piñera annunciò lo Stato di emergenza e il coprifuoco (il primo dopo la fine della dittatura) autorizzando le forze dell’ordine all’uso della violenza. 

Ciò che seguì fu un rimpasto del gabinetto con elementi più moderati, l’elezione del giovane Presidente Boric, le elezioni della convenzione costituente, l’elezione alla sua guida di Elisa Loncón, indigena Mapuche e accademica, la scrittura della costituzione più femminista e progressista mai scritta, il referendum, il disastro.

Si dice che il Cile sia un paese senza memoria in quanto non imparerebbe dal passato. Non riuscirebbe cioè a trasformare la commemorazione in una visione prospettica che segni un percorso per il presente e per il futuro “per pensare e agire politicamente con senso storico”. 

Faticavo ad assimilare quello che sembrava un dato di fatto. Leggendo molta letteratura cilena, mi sembrava che il tentativo fosse opposto: le storie avevano praticamente quasi sempre a che fare con il trauma collettivo della dittatura e le sue drammatiche e violente pratiche e conseguenze. 

Gli eventi dell’11 settembre 1973, l’attentato a Salvador Allende, il golpe a opera di Augusto Pinochet, i decenni di dittatura militare che hanno portato a una sistematizzazione di torture, omicidi, repressioni e desaparicion, sono fatti talmente radicati e al centro della vita cilena da trascendere la politica, strabordando nel campo della vita – culturale, civile, quotidiana.

Essere una persona cilena significa fare i conti ogni giorno con la memoria, avere cucita addosso la toppa della repressione. Anche leggere la letteratura cilena, quindi, significa fare i conti con la memoria e vedere continuamente applicato l’esercizio del ricordo, della vivisezione degli eventi, della riproposta della storia e delle sue cicatrici sul presente. 

Eppure “da dentro” definivano il Cile un paese senza memoria.

Quanto è grande lo scollamento tra classe intellettuale e classe popolare? Cosa genera lo scarto tra l’elezione di presidenti conservatori, ex sostenitori o vicini a Pinochet, oppure il rechazo (rifiuto) della nuova costituzione cilena e il continuo ripresentarsi della memoria e della Storia nella maggior parte dei libri – siano essi romanzi, saggi o di poesia – e dei film che escono dal paese della cordigliera? A partire da queste premesse ho iniziato un esercizio. Ogni volta in cui leggo (o rileggo) un autore o un’autrice cileni osservo in che modo, in quella storia, si muove la memoria. Qual è cioè la traiettoria – se ce n’è una – in relazione al ricordo della Storia, al trauma personale e collettivo del Cile, nel tentativo non solo fine a se stesso di ricordare, ma in qualche modo di dare una visione al presente e un nuovo spazio al futuro, sia esso relativo alla finzione o alla realtà. Nessuno dei movimenti che riuscivo a intravedere aveva più valore degli altri, né li prevaricava. Anzi, si affiancavano in un disegno generale.

Tempo

Nella maggior parte dei casi mi è parso che il movimento segua una linea che potremmo definire orizzontale, su cui i protagonisti e i lettori si muovono continuamente da un punto A a un punto B. Quando dico “orizzontale” immagino una linea che unisce passato e presente, sulla quale si sviluppano le storie e il cui si muovono e agiscono i personaggi. Potremmo dire che l’esercizio della memoria avviene “nel tempo”, o “attraverso il tempo” che si sviluppa orizzontalmente.

È il caso di Alejandro Zambra che in Modi di tornare a casa (Mondadori, 2013. Traduzione di Bruno Arpaia) racconta di sé stesso e della notte del terremoto del 3 marzo 1985, in cui, bambino, conobbe Claudia, poco più grande di lui, con la quale iniziò una strana amicizia fatta di segreti e avvistamenti. Molti anni più tardi, Alejandro torna nella casa dei genitori e incontra nuovamente la ragazza diventata donna. L’occasione porta il protagonista a conoscere e toccare meglio cose che da bambino non poteva afferrare né capire: chi era davvero lo zio di Claudia che la ragazza gli aveva chiesto di spiare, cosa significasse vivere in incognito o scomparire. Zambra, ora adulto, cammina sul filo del tempo anche per provare a fare pace con il padre, che non ha mai preso una posizione politica chiara, che non hai mai condannato davvero Pinochet, pur non supportandolo, esaltandone comunque “l’ordine” e il “rigore”. 

“Poi era arrivato il tempo delle domande. Gli anni Novanta sono stati gli anni delle domande, pensa Claudia, e subito dopo dice scusa, non mi va di sembrare come quei sociologi mezzo ciarlatani che a volte vanno in televisione, ma quegli anni sono stati così: mi sedevo a parlare per ore con i miei genitori, chiedevo dettagli, li costringevo a ricordare, e poi mi ripetevo quei ricordi come se mi appartenessero. In un modo terribile e segreto, cercava il suo posto in quella storia.

Non domandiamo per sapere, mi dice Claudia mentre ritiriamo i piatti e sparecchiamo; domandiamo per riempire un vuoto”.

Prima attraverso il ricordo, poi provando a ripercorrere gli stessi luoghi della sua infanzia, Zambra si muove avanti e indietro – e fa muovere Claudia – su un asse basata sul tempo, in un continuo movimento tra passato e presente che riesce a toccare l’attualità e la politica, citando per altro la frase “È evidente che abbiamo già perso la memoria” a proposito dell’elezione di Sebastián Piñera. “Consegneremo placidi, candidamente, il paese a Piñera, e all’Opus Dei e ai Legionari di Cristo”. 

Il movimento temporale si può rintracciare anche nelle opere di Nona Fernández, scrittrice e sceneggiatrice tra le più significative della sua generazione, che nei suoi romanzi – da Mapocho a La dimensione oscura, da Voyager a Fuenzalida – indaga il tema del ricordo unendo la memoria individuale a quella collettiva, la memoria all’immaginazione.

Ne La dimensione oscura (GranVia, 2018. Traduzione di Carlo Alberto Montalto), Fernández parte da un fatto realmente accaduto, ricostruendo la vicenda di Andrés Valenzuela Morales, militare che nel primo decennio della dittatura di Pinochet è stato un torturatore dei prigionieri e che nel 1984 decide di autodenunciarsi rilasciando una lunga testimonianza a Cauce, una rivista cilena tra le poche che si opponevano dichiaratamente alla politica del generale durante gli anni della dittatura. Dalla sua storia e da questo evento, Fernández narra i pensieri e le storie che gravitano attorno ad alcune delle sue vittime, sui ricordi d’infanzia, sulla fallacia della memoria, mescolando storia, fiction, diario dove tutto si muove nel tempo. La storia del passato – di Morales, delle vittime, di un paese intero – si intreccia con quella del presente, in cui la scrittrice si muove per scavare e fare luce su ciò che è nascosto, in un costante movimento tra i due tempi e tra realtà e immaginazione. 

In Space Invaders (Edicola ediciones, 2020. Traduzione di Rocco D’Alessandro), la memoria e la traiettoria temporale si modellano nel Sogno.

La storia – novanta pagine di brevissimi e folgoranti capitoli – è infatti raccontata attraverso i sogni di un gruppo di amici, ora adulti e lontani, che erano bambini durante l’ultimo decennio della dittatura, e ruota attorno a una bambina, Estrella González, che durante la narrazione intuiamo essere figlia di un uomo vicino al regime e che è scomparsa misteriosamente.

Ognuno di loro sogna qualcosa di diverso, ma che sempre ritorna in forma memoriale all’infanzia, all’orrore vissuto, al comprensibile e all’incomprensibile che abbracciavamo un tempo, in cui ricordo e sogno si mescolano continuamente:

“Non sappiamo se si tratta di un sogno o di un ricordo. A tratti crediamo sia un ricordo che si insinua tra i sogni, una scena che fugge dalla memoria di qualcuno e si nasconde tra le lenzuola sporche di tutti. Potrebbe essere una scena già vissuta, da noi o da altri. Potrebbe essere una rappresentazione o persino un’invenzione, ma mentre ci pensiamo crediamo sia solo un sogno che si è via via trasformato in ricordo. Se ci fosse una differenza tra gli uni e gli altri, saremmo in grado di capire da dove sia uscito, ma nel nostro materasso distratto tutto si confonde e la verità è che ora questo è poco importante.”

L’orrore è raccontato attraverso gli occhi dei bambini, nel ricordo del passato e nel sogno presente, in un Noi vago, generico e sfuggente, che è la somma di tutti gli Io che raccontano la storia, ma anche la somma di tutti quegli Io che non hanno avuto modo di raccontarla e che pure l’hanno vissuta e la conservano traumaticamente nei sogni, o nei ricordi. 

Ispezioni, mani di legno, sgozzamenti, Chevrolet rosse e bambini militanti; immagini oniriche e surreali che intrecciano Space Invaders sugli schermi e la violenza e la repressione fuori dalla finestra, nelle strade, nelle case, nelle persone che scompaiono e non tornano più.

“Dodici ore più tardi la rilasciarono. Con una lametta da barba le avevano inciso delle croci sui capezzoli. Fuenzalida non ricorda quale funerale continua a sognare. Potrebbe essere il funerale dei fratelli di Villa Francia o quello dei professori del Colegio Latinoamericano, o quello del ragazzo bruciato da una pattuglia di militari, o quello del prete ucciso a colpi di pistola nel ghetto di La Victoria, o quello del giovane che cadde crivellato in calle Bulnes, o quello del giornalista sequestrato, o quello del gruppo assassinato nel giorno del Corpus Christi, o quello degli altri, tutti gli altri. Il tempo non è chiaro, confonde tutto, mischia i morti, li trasforma in uno solo, li separa di nuovo, si muove all’indietro, procede al contrario, gira come il carosello di una fiera, come nella gabbia di un laboratorio, ci intrappola in funerali, marce e arresti, senza darci alcuna certezza di continuità o di fuga. Se siamo stati lì o meno, non è chiaro.”

Sia Francesca Lazzarato su Il Manifesto, sia Paola Moretti su Singola, hanno parlato di Nona Fernandez in relazione (tra gli altri e le altre) al regista Patricio Guzman.

Spazio

È proprio a Patricio Guzman che ho pensato, insieme al poeta Raul Zurita, quando mi sono accorta che la traiettoria della memoria cilena in alcuni casi cambiava, abbracciando nell’esercizio della memoria una dimensione spaziale, geografica, passando da orizzontale a verticale, da “temporale” a “spaziale”.

Patricio Guzman è un regista cileno che alla sua terra e alla sua storia ha dedicato praticamente ogni pellicola della sua vita. La sua opera d’esordio è La battaglia del Cile, un film diviso in tre parti – L’insurrezione della borghesia (1975), Il colpo di Stato (1977), Il potere popolare (1979) – che ha raccontato la storia nel suo accadere. Il suo documentario probabilmente più noto è invece Nostalgia della luce, del 2010, in cui torna sul tema della dittatura e della tragedia dei desaparecidos mettendo al centro della narrazione il deserto di Atacama, lungo 1600 chilometri e considerato la più grande distesa salina, con più di 10 miliardi di tonnellate di sale.

Sotto quella terra arida sono stati sepolti decine di migliaia di desaparecidos, persone scomparse e mai ritrovate, persone i cui resti non sono mai stati restituiti alle famiglie. A Calama, città cilena a 2600 metri sul livello del mare, da anni le mujeres del desierto setacciano e scavano la terra arida del deserto sperando di ritrovare i corpi dei loro cari, perfettamente conservati dal sale.

Queste donne, nella ricerca della verità e nell’esercizio della memoria, guardano verso il basso, verso la terra, alla ricerca di una luce che illumini ciò che non sanno sul passato.

Il deserto di Atacama però,grazie alla totale assenza di inquinamento acustico e luminoso e di umidità, è anche la terra perfetta per poter osservare le stelle, ed è diventato un osservatorio astronomico tra i più famosi al mondo. Qui un gruppo di astronomi cerca risposte sul passato guardando verso il cielo, alla ricerca di una luce che provi a raccontare cose ancora sconosciute, stelle esplose migliaia di anni fa che si manifestano sulla terra solo ora.

Verso la fine del documentario viene intervistata una ragazza, figlia di desaparecidos. I suoi nonni, ricattati dal regime, hanno consegnato i genitori della ragazza per salvare la nipote, neonata, alla morte. La ragazza, oggi madre, porta avanti un esercizio di memoria e commemorazione, di ricerca della verità, dichiarando:

“L’astronomia in qualche modo mi ha aiutato a dare un’altra dimensione al dolore, all’assenza, alla perdita. A volte, quando uno è da solo con il proprio dolore, intimamente, il dolore diventa soffocante. Io dico che tutto fa parte di un ciclo, che non è iniziato e non finirà con me. Né con i miei genitori, o con i miei figli. E mi dico che siamo tutti parte di una corrente, di un’energia, di materia che si ricicla, come accade per le stelle. Devono morire perché altre stelle possano nascere, perché nasca una nuova vita”.

Guzman mette quindi in relazione le donne del deserto e gli astronomi. Il loro sguardo in direzioni opposte – chi verso la terra, chi verso il cielo – è in realtà un modo diverso di arrivare al medesimo punto: scoprire qualcosa di nascosto, trovare risposte dove è quasi impossibile trovarne. Verticalizza cioè la memoria, spostando lo sguardo da “prima-dopo” a “basso-alto”, convinto che la memoria “abbia una forza gravitazionale”.

Una cosa simile fa Raul Zurita, poeta e attivista cileno. Il giorno del golpe, l’11 settembre 1973, Zurita aveva ventitré anni e militava nel partito comunista. Venne prelevato e trasferito allo stadio di Playa Ancha, dove verrà ferito e torturato, prima di essere trasferito con altri prigionieri sulla nave cargo Maipo. Verrà liberato solo il mese successivo.

È questo ovviamente un evento che segna profondamente la sua vita e il suo attivismo. Da qui partiranno numerose performance atte a ricordare e testimoniare le brutalità e le violenze del regime, e tutta la sua poesia sarà un continuo riaprire una ferita per non dimenticarne il dolore e le cicatrici.

In INRI, (Edicola Ediciones, 2021. Traduzione di Amaranta Sbardella) che segue la sua trilogia più famosa – formata da Purgatorio, Anteparaíso e La vida Nueva, tre nomi che guardano a Dante e che già volgono lo sguardo verso l’alto – Zurita unisce paesaggio e memoria richiamando l’attenzione sull’ascesa.

In INRI Zurita rende omaggio ai dispersi, agli emarginati, ai soppressi, comparandoli al corpo di Cristo in croce; la sua sofferenza è incomprensibile e inimmaginabile proprio come quella dei desaparecidos (o come quella di chi c’è ancora, e cerca qualcosa che non riesce a trovare).

In INRI il mare cade, le margherite palpano le montagne, l’oceano pacifico giace sotto le pietre, i monti si abbracciano nel fondo, una nave è incagliata in mezzo al deserto, i corpi di chi è scomparso si abbracciano e si alzano dalla terra, diventano fiocchi di neve, si alzano verso il cielo.

Mauricio, Odette, María, Ruben, Susana. Gli scomparsi sono fiocchi di neve e sono fiori, e fiori toccano le montagne, che sono in alto ma si abbracciano nel fondo, nel mare che cade, in un continuo movimento che dal basso va verso l’alto e dall’alto verso il basso.

Per Zurita, scrivere è un esercizio privato di resurrezione, un atto estremo. In un’intervista ha dichiarato: “Per scrivere devi bruciarti interamente, consumarti finché non rimane più un brandello di muscolo, osso o carne. È un sacrificio assoluto e nello stesso tempo è la risurrezione da quella morte. Devi risorgere dalle tue stesse ceneri, ordinare un po’ ciò che è rimasto dei tuoi resti bruciati. Quelle ceneri sono le poesie.”

Rizoma

Nel 1975 Gilles Deleuze e Félix Guattari scrivono un saggio dal titolo Kafka: per una letteratura minore (Quodlibet, 1996. Traduzione di Alessandro Serra). Per i due autori la letteratura minore “non è la letteratura di una lingua minore” (per esempio quella dialettale) “bensì quella che una minoranza fa di una lingua maggiore”. L’esempio che portano all’attenzione è proprio quello di Kafka, ebreo di Praga che scrive in tedesco. La letteratura minore è cioè quella che utilizza la lingua (maggiore) in modo sperimentale, non ordinario, creativo, nuovo. Tutti questi tratti vengono messi “a servizio d’una sobrietà nuova, di una nuova espressività, di una nuova flessibilità, di una nuova intensità”. 

I caratteri di una letteratura minore, l’unica all’interno della quale si prolifera e nidifica il Senso, per Deleuze e Guattari sono tre: la deterritorializzazione della lingua (quindi un movimento di uscita da un territorio ordinario), la politicizzazione di ogni fatto individuale (il fatto individuale si innesta cioè immediatamente sulla politica), il “concatenamento collettivo di enunciazione” (ovvero il mescolamento tra soggetto dell’enunciazione e soggetto che enuncia, quindi tra personaggio e autore).

Ho fatto questa introduzione perché il terzo movimento che mi pare si possa individuare nella letteratura cilena in relazione al trauma collettivo della dittatura, ha molto a che fare con il concetto di letteratura minore proposto dai due filosofi francesi.

Esempi lampanti sono quelli di Pedro Lemebel e Diamela Eltit.

Pedro Lemebel, scrittore e artista cileno, è riuscito attraverso più generi a raccontare il dolore e le paure degli emarginati, le ferite dei dimenticati, la violenza della dittatura sui corpi e sul pensiero. Mescolando registri e stili, ha potuto amalgamare la prosa letteraria a un linguaggio popolare, che gli ha permesso di provocare a partire da una condizione e da un punto di vista di marginalità.

Ma è soprattutto in Eltit, romanziera, artista, intellettuale e saggista, che questo concetto a mio avviso prende forma appieno.

Nei suoi romanzi e nella bellissima raccolta di saggi Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica (Mimesi, 2022. Traduzione e cura di Laura Scarabelli), Eltit dà grande rilevanza al piccolo, al minoritario, convinta che per capire il macroscopico sia necessario entrare nel microscopico, all’interno del quale le trame e la potenza del macro nascono e crescono.

I personaggi di finzione di Eltit sono personaggi ai margini (una coppia di ex militanti chiusi in una stanza, il dipendente di un supermercato, due donne – madre e figlia – vittime dell’esclusione sociale) attraverso i quali è possibile guardare al macro (gli effetti del neoliberalismo, il trauma della dittatura, la disuguaglianza economica e sociale, la Storia cilena).

Nei saggi, il movimento è simile, se non identico. Proprio Scarabelli, nell’introduzione cita Deleuze e Guattari per presentare le tre sezioni in cui il volume è diviso, e ritorna sui tre caratteri che la letteratura minore possiede secondo i due autori francesi.

Soprattutto nella prima sezione, “Spettri della dittatura”, l’autrice si sofferma sul contesto cileno a partire dal Colpo di Stato e da quelli che Scarabelli definisce “due importanti meridiani”: il corpo e la città.

“Corpi, nella loro dimensione più materiale, corpi sottoposti al potere di uno stato incapace di proteggere i suoi cittadini, corpi feriti e lacerati ma anche simbolicamente trasferiti alla scrittura che si fa corpo. Insieme, ambientazioni prevalentemente urbane, periferiche, capaci di mostrare una particolare sete di città, nella sua materialità architettonica, nei suoi elementi materialmente tradotti in testi. Spesso la speculazione parte proprio da un frammento di corpo o di città, capace di funzionare come un frattale, come una scheggia metonimica che riproduce in scala l’intero, dispiegandolo nelle maglie del discorso.” (p.15)

E se nella seconda sezione, “L’archivio e il testimone”, Eltit abbraccia il “concatenamento collettivo dell’enunciazione” sottolineando l’importanza di divenire testimoni, facendo diventare di tutti il destino del singolo in un movimento di deterittorializzazione, nella terza, “Corpo, politica e scrittura”, sono raccolte le riflessioni critiche e creative di Eltit, anche attraverso l’analisi di opere altrui, come per esempio Tejas Verdes, di Hernan Valdes (il diario di un prigioniero in un campo di Pinochet, pubblicato nel 1977 da Bompiani e ora fuori produzione), o il lavoro di Paz Errázuriz, fotografa cilena che ha saputo raccontare attraverso le immagini le comunità emarginate negli anni della dittatura. Anziani chiusi in ospizi, travestiti, nomadi, circensi, omosessuali, “corpi sociali al bordo di un precipizio, che definiscono lo spazio della catastrofe urbana, privati di qualsiasi eroicità, se non la possibilità di catturare brevemente uno sguardo”. (p. 189)

Ma lo fa anche a partire dalla fondazione del CADA (Colectivo de Acciones de Arte), collettivo che fondò con Fernando Balcells, Juan Castillo, Lotty Rosenfeld e Raúl Zurita. 

“Questo collettivo artistico, dal carattere interdisciplinare, si propose di tessere trame tra arte e politica attraverso ciò che definimmo come azione artistica. Le azioni artistiche, strutturate a partire da campi simbolici di produzione di senso, puntavano sull’estetica e sulla possibilità di rendere densa e complessa la superficie del sociale.

(…) Il CADA nacque sotto il segno della restituzione e dell’epica inorganica, rispose al desiderio di parola della città, volle fare del frammento un supporto strategico, trasformare l’inconcluso e il provvisorio in strumenti performativi e con potere di convocazione. Parlare frammentariamente, dettagliatamente, parzialmente della città non fu solamente una pratica, implicò prima di tutto il riconoscimento di una realtà andata a pezzi. Andata a pezzi perché la vita pubblica era stata fatta a pezzi, attraversata da severe inibizioni che impedivano la creazione di una cittadinanza eterogenea”. (p. 154)

Eltit era interessata quindi a ciò che lei definiva “il disperso”, ovvero ciò che è al margine, perché “mette in discussione il centro e la sua unità” e che permette la “frammentazione, la pluralità, il limite”. Ed è da questo margine che guarda al centro, convinta che da questa angolazione sia possibile agire politicamente, divenendo testimone.

È un concetto che si lega molto a quello di Rizoma, sempre portato sulla pagina da Deleuze e Guattari. Per Rizoma i due filosofi intendevano un modello semantico da contrapporre alla gerarchia dell’albero, alla posizione di ordinamento dei significati (vedi radici-tronco-foglie). A differenza degli alberi, “il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. (…). Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante”. (Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, 1980. Castelvecchi).

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Qualche mese fa, dieci giorni dopo il risultato del referendum, in un articolo uscito sul Guardian dal titolo “Want to see political change? Look to the margins”, Rebecca Solnit scriveva: “In questi giorni mi considero una tartaruga in un mondo di efemere. Mi sforzo di vedere da dove vengono i cambiamenti che stiamo vivendo. Ci vuole tempo per vedere un cambiamento, ma la sua comprensione è essenziale per capire la politica e la cultura. Una visione a breve termine genera incomprensione ed è inefficace. Gli eventi, come gli esseri viventi, hanno genealogie ed evoluzioni. Seguendoli in tempo reale o nella documentazione storica si può spesso notare il potere che emerge dal basso, e le idee che si spostano dai margini al centro della scena.”

Solnit non parlava affatto degli avvenimenti cileni ma io non riuscivo a non leggere le sue parole slegate dal contesto della Cordigliera, dall’esercizio della memoria, da come mi sembrava muoversi il ricordo del trauma. Facendo un passo indietro, mi sembrava di vedere tutte le storie di quei libri e di quei film formare un sistema complesso, come gli stormi di uccelli che muovendosi da soli, ma insieme, compongono un disegno collettivo tridimensionale in continuo cambiamento.

Want to see political change? Look to the margins.


Silvia Pelizzari è nata nel 1983 e vive a Milano. Ha scritto di libri su Pagina99, Minima et Moralia, HuffPost e Kobo. Ha co-diretto Finzioni magazine e scritto racconti per riviste online e antologie. Ha ideato, scritto e letto Tiresia, un podcast sulla letteratura queer targato Emons Record.

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