Cosa ci insegna un’illusione ottica sulla natura della realtà e delle nostre credenze

Il primo insegnamento di The Dress è che i nostri disaccordi iniziano al livello delle supposizioni che colleghiamo alle percezioni, perché ogni realtà è virtuale.


In copertina, Keple Gestalt, Victor Vasarely (1968)

Questo testo è estratto da “Come si cambia idea” di David McRaney, ringraziamo l’autore e Aboca Edizioni.

di David McRaney

Ero seduto in un ristorante Knickerbocker di New York e stavo prendendo il burro quando un uomo con la barba e un volto mite alla mia sinistra fece scivolare tra il mio taccuino e il cestino del pane la foto di un uovo fritto, con il tuorlo di un verde fluorescente.

“All’inizio” mi spiegò, tenendo in aria la foto, “abbiamo provato con le uova verdi. Sai, ‘prosciutto e uova verdi’?41 Ma senza prosciutto, solo le uova. Purtroppo non ha funzionato. Perché la gente sa che le uova sono gialle.”

Alzando la voce per coprire il brusio dell’ora di pranzo, il neuroscienziato alla mia destra aprì i palmi delle mani e aggiunse: “Allora, cosa facciamo? Cosa c’è di noto a tutti che non abbia un colore preciso?”.

Mi sforzai di trovare una risposta. La prima cosa che mi venne in mente fu… un pickup? Poi pensai: asciugamani, martelli, biciclette, forse scatole di fazzolettini di carta? Ma dopo aver trascorso una settimana con Pascal Wallisch, un genio frenetico deciso a costruire, per usare le sue parole, “l’equivalente cognitivo della bomba atomica”, pensai che si trattasse di un’altra domanda retorica intesa ad avviare una nuova lezione, come sempre a un ritmo troppo vertiginoso per avere il tempo di prendere appunti. Così mi infilai in bocca un pezzo di pane e lo masticai con aria meditabonda.

“Crocs!” gridò Pascal, facendo sussultare il cameriere che gli stava mettendo davanti un’insalata, rimasta poi intatta. Quando pensi alle Crocs, mi spiegò, quelle specie di zoccoli di resina molto diffusi fra gli infermieri, i giardinieri e i pensionati, non ti viene in mente un colore particolare.

“Prova” disse. “Cosa vedi quando chiudi gli occhi? Sono bianchi, grigi, arancioni, multicolori?” Ognuno pensa a qualcosa di diverso. Gli dissi che le mie non avevano un colore, o forse tutti. Non ero in grado di stabilirlo.

“Interessante” disse soddisfatto, girandosi per vedere la reazione del suo collega alla mia sinistra, lo scienziato cognitivo Michael Karlovich, che stava mettendo in tasca il cellulare. Karlovich alzò lo sguardo, sorrise e spiegò che era del tutto comprensibile che non venisse in mente nulla. Ecco perché erano così eccitati quando avevano pensato ai Crocs. Uniti alle calze, dissero, sotto la luce giusta, questi due capi d’abbigliamento diventavano un unico “oggetto ambiguo dal punto di vista della percezione del colore”, qualcosa che da mesi speravano di trovare nel tentativo di arrivare al fondo di un mistero della neuroscienza che, qualche anno prima, aveva quasi mandato internet in tilt. Un fenomeno passato alla storia con il nome The Dress.

Ero andato a New York per incontrare Pascal e Karlovich perché, se volevo capire per quale motivo le prove che avevano fatto cambiare idea a Charlie Veitch non avevano ottenuto lo stesso effetto sui truther, dovevo prima di tutto rispondere in modo scientifico alla domanda: come si cambia idea? Una domanda che sembrava strettamente collegata a un’altra: che cosa cambia quando usiamo questa espressione? Entrambe le domande sembravano racchiuse in una domanda più grande: come si forma inizialmente quella cosa che chiamiamo idea? Cioè, come viene elaborata la nostra comprensione del mondo in quel materiale viscido e molle che sta dentro il cranio? Volevo, insomma, fare un passo indietro, anzi un migliaio di passi indietro, fino ai neuroni.

Prima di recarmi a New York, avevo posto queste domande a diversi scienziati in modi diversi. Le risposte che avevo ottenuto racchiudevano in genere un paio di avvertimenti: sembravano segnalarmi che quello era un terreno pericoloso, il limite più avanzato delle scienze sociali e degli studi sul cervello. Chiedendo come ci formiamo delle idee, e poi come le cambiamo o le manteniamo, non è granché diverso dal chiedere: qual è la vera natura della coscienza? Una domanda che forse non ha risposta, almeno non ancora, non nei confini delle attuali conoscenze scientifiche e nemmeno nel linguaggio che usiamo per comunicarle. Al di là di tutto, dissero, mi stavo addentrando in una ricerca che si andava affermando da qualche tempo.

Così, oltre a parlare con David Eagleman, che studia la duttilità del cervello e la coscienza, decisi di trovare un neuroscienziato maggiormente concentrato sul perché, in un mondo post-internet, molte persone condividono un fondamentale disaccordo su questioni che per altri sono una certezza. Pascal, con l’aiuto di Karlovich, era inconsapevolmente diventato un esperto di quell’argomento, avendo trascorso degli anni a studiare come mai la gente era impazzita per The Dress, la fotografia di un vestito divenuta virale nel 2015, quando milioni di persone si erano divisi in due schieramenti opposti discutendo del colore di quel vestito, e quindi della realtà in sé, perché non lo vedevano letteralmente nello stesso modo.

Se non sapete cos’è stato The Dress, eccovi qualche informazione.

Nel 2015, prima della Brexit, di Trump, dei troll macedoni, di QAnon e delle teorie complottiste sul Covid, prima delle fake news e dei fatti alternativi, un membro dell’organizzazione nonprofit npr (National Public Radio) definì quello su The Dress “il dibattito che ha mandato internet in tilt”, mentre il “Washington Post” lo descrisse come il “dramma che ha diviso in due il pianeta”.

The Dress era un meme, una foto virale apparsa sui social media per alcuni mesi. Quando guardavano questa foto, alcuni vedevano un abito da donna nero e blu, altri bianco e oro. Qualunque cosa la gente vedesse, era impossibile vederlo diversamente. Se non fosse stato per il carattere diffusivo dei social media, avresti potuto non sapere che qualcuno vedeva quell’abito in modo diverso. Ma siccome i social media sono social, venire a sapere che milioni di persone vedevano un abito diverso da quello che vedevi tu diede origine a una reazione viscerale e straordinariamente estesa. Chi vedeva un abito diverso sembrava ovviamente in errore, e forse anche squilibrato. Quando The Dress iniziò a circolare su internet, una sensazione tangibile di timore sulla natura di ciò che è o non è reale divenne virale come la foto stessa.

Questa singolare crisi epistemica entrò nelle nostre vite grazie a Cecilia Bleasdale, una donna che si stava preparando per il matrimonio di sua figlia Grace.43 Una settimana prima aveva fotografato un abito da 77 dollari in un centro commerciale di Londra. Pensando di indossarlo al matrimonio, aveva scattato quella foto ormai leggendaria e l’aveva mandata alla figlia per avere il suo parere. Ma Grace e il futuro marito, Kier, non furono d’accordo su ciò che vedevano, e così chiesero ai loro amici di risolvere la questione. Che colori vedi? La domanda rimbalzò dagli amici agli amici degli amici e così via. Alcuni vedevano un abito nero e blu, altri bianco e oro. Non c’era modo di trovare un punto d’incontro e tutti erano confusi.

Una settimana dopo un musicista amico di famiglia postò l’immagine su Tumblr per vedere se qualcuno nel vasto mondo fosse in grado di dirimere la questione, ma in realtà non fece altro che spargere la confusione su internet, e internet iniziò a discutere su ciò che si vedeva. Nel giro di pochi giorni The Dress finì su Buzzfeed e su tutti gli altri social media.

A volte, così tante persone condividevano questo enigma della percezione, e ne discutevano, che Twitter non riusciva a caricarsi sui loro dispositivi. L’hashtag #TheDress compariva in 11.000 tweet al minuto, mentre l’articolo più completo su quel meme, pubblicato sul sito di Wired, ottenne 32,8 milioni di visualizzazioni uniche nei primi giorni.

L’attrice Mindy Kaling prese la parola a favore del gruppo nero e blu su Twitter, scrivendo: “È un abito blu e nero! Mi state prendendo per il culo”.45 I Kardashian sostennero il gruppo bianco e oro, i politici si divisero fra i due gruppi, i notiziari locali di tutto il mondo finivano i loro programmi con aggiornamenti sul caso, e per qualche tempo The Dress fu uno degli argomenti preferiti della cultura pop. Ce n’erano altri di tendenza, ma quello era di gran lunga il più popolare del momento.

Per qualcuno fu un’introduzione a qualcosa che le neuroscienze avevano capito da un pezzo (è l’argomento di questo capitolo): il fatto che la realtà in sé, per come la sperimentiamo, non è una descrizione precisa e fedele del mondo che ci circonda. Il mondo, per come lo percepiamo, è una simulazione che si sviluppa dentro il nostro cranio, un sogno a occhi aperti. Ciascuno di noi vive in un paesaggio virtuale di immaginazione perpetua e di illusione auto-generata, un’allucinazione a cui, nel corso della vita, danno forma i nostri sensi e il nostro pensiero, aggiornati di continuo mentre incameriamo nuove esperienze attraverso i sensi ed elaboriamo nuovi pensieri su ciò che abbiamo percepito. Non sapendo questo, a molti The Dress richiedeva di attaccarsi alla tastiera e gridare nell’abisso, oppure di mettersi seduto e riflettere sulla propria posizione nel grande ordine delle cose.

Gli studi scientifici su come il cervello genera la realtà sono sempre stati strani e vagamente surreali. Tutto è cominciato agli inizi del Novecento, quando un biologo tedesco scoprì di non riuscire a togliersi dalla testa l’idea che la vita interiore degli animali dev’essere radicalmente diversa da quella degli esseri umani.

Jakob Johann von Uexküll era affascinato dalle meduse, dai ricci, dai ragni e dai piccoli insetti, e si chiedeva in che modo il loro fangoso sistema nervoso producesse le loro percezioni. Notando che gli organi sensoriali delle creature marine e degli insetti riescono a percepire cose precluse ai nostri, concluse che grandi porzioni della realtà dovevano rimanere escluse dalle loro esperienze, lasciando intendere che lo stesso doveva valere per noi. In altre parole, le zecche non possono godersi un musical di Andrew Lloyd Webber perché, fra l’altro, non hanno gli occhi. Non riescono a vedere il palcoscenico, nemmeno se si trovano in prima fila. D’altra parte, diversamente dalle zecche, molti esseri umani non riescono a sentire l’odore dell’acido butirrico portato dal vento. E questo, secondo Uexküll, è il motivo per cui, indipendentemente da dove ti trovi nel pubblico, l’odore non è un elemento essenziale, o almeno voluto, di una rappresentazione di Cats a Broadway.

Uexküll comprese che l’esperienza soggettiva di ogni creatura vivente era confinata nell’ambiente sensoriale soggettivo, che chiamò “Umwelt” (mondo circostante): organi sensoriali diversi, diverso Umwelt, distinto da quello di un altro animale nello stesso ambiente. Pertanto, ogni creatura è regolata per introiettare solo una piccola parte del quadro generale. Non che un animale possa rendersene conto, è l’altra grande idea di Uexküll. Siccome nessun organismo può percepire la realtà oggettiva nella sua interezza, ogni animale probabilmente dà per scontato che ciò che percepisce è tutto ciò che si può percepire. La realtà oggettiva, qualunque essa sia, non può essere totalmente esperita da nessuna creatura. Ogni Umwelt è un ambiente soggettivo, una diversa esperienza soggettiva idonea alla sua nicchia, un mondo interiore limitato per quanto concerne la percezione. Gli Umwelt di tutte le creature presenti sulla Terra sono come un mare pieno di una straordinaria varietà di realtà sensoriali che scivolano una accanto all’altra, inconsapevoli di essere inconsapevoli e senza sapere quello che non sanno.

Le idee di Uexküll non erano del tutto nuove. I filosofi si erano già posti delle domande sulle differenze fra realtà oggettiva e soggettiva fin dai tempi della caverna di Platone, e se ne pongono ancora oggi. Quando il filosofo Thomas Nagel fece la celebre domanda “Com’è essere un pipistrello?”, suggerì che non poteva esserci risposta perché non sarebbe stato possibile pensare in quel modo. Il sonar dei pipistrelli, disse, è diverso da tutto ciò che abbiamo noi, “e non c’è motivo di supporre che sia qualcosa di soggettivamente simile a tutto ciò che noi possiamo sperimentare o immaginare”.

Per estensione, si può dire che se animali diversi vivono in realtà diverse, allora è possibile che individui diversi vivano in realtà diverse. È un caposaldo di molti psiconauti, da Timothy Leary con i suoi “tunnel di realtà” e J.J. Gibson con la sua “ottica ecologica”, allo psicologo Charles Tart con le sue “trance consensuali”. Da Matrix delle sorelle Wachowski al “noumeno” di Kant, dai robot dotati di coscienza di Daniel Dennet a ogni episodio di Black Mirror e a tutti i romanzi di Philip K. Dick, è da tanto tempo che ci poniamo queste domande. Anche a voi, immagino, è capitato di imbattervi in questi problemi, e vi siete chiesti qualcosa come: “Vediamo tutti gli stessi colori?”. La risposta, come dimostra The Dress, è no.

Quindi, l’idea che realtà soggettiva e realtà oggettiva non siano la stessa cosa, che il contenuto esperienziale nella nostra mente sia una rappresentazione del mondo esterno, un modello e non una replica, era da tempo diffusa fra gli studiosi che riflettono sul pensiero, ma Uexküll l’ha trasposta in un nuovo ambito scientifico: la biologia. In questo modo ha dato origine a una serie di ricerche sulla neuroscienza e la natura della coscienza oggi ancora in corso. Una di queste vi sembrerà vagamente insopportabile, ma vi chiedo di avere pazienza, perché chiarirà qualcosa di importante.

Nel 1970, i fisiologi Colin Blakemore e Grahame F. Cooper allevarono dei gatti in un ambiente privo di linee orizzontali. Al di fuori di quell’ambiente, quando Blakemore e Cooper tenevano un bastone in verticale e lo agitavano in aria, i gatti muovevano tutti la testa su e giù e si giravano simultaneamente per seguire il bastone quando veniva scagliato lontano. Ma appena il bastone veniva tenuto orizzontale, i gatti guardavano in varie direzioni, perdevano interesse e se ne andavano. Il bastone verticale li incuriosiva, quello orizzontale invece no, perché nella loro realtà interiore l’orizzontalità non esisteva.

Nel loro laboratorio alla Cambridge University, Blakemore e Cooper dipinsero di bianco l’interno di grandi cilindri di vetro, poi aggiunsero delle colonne verticali nere. I cilindri si incurvavano verso l’alto formando delle pareti arrotondate. Il tutto era stato progettato in modo che i gatti non vedessero mai i bordi orizzontali, e per esserne sicuri, ai gatti erano stati messi dei collari simili a quelli che usano i veterinari per evitare che si lecchino dopo un intervento chirurgico. Poi allevarono dei gatti nati nell’oscurità più totale e, a due settimane dalla nascita, li misero per cinque ore al giorno in quell’ambiente di righe verticali. I gatti nei cilindri facevano le cose che fanno normalmente i gatti, finché, cinque mesi più tardi, Blakemore e Cooper fecero uscire i gatti e concessero loro di trascorrere del tempo in una stanza con un tavolo e delle sedie per vedere come avrebbero reagito.

Notarono subito che i gatti avevano dei problemi con ciò che i fisiologi chiamano collocazione visiva. Quando li avvicinavano a superfici piatte come il pavimento o il tavolo, i gatti avevano l’aria di non capire. Un gatto allevato in un ambiente normale allunga le zampe per piantarle saldamente su una superficie piana. I gatti di Blakemore e Cooper non riuscivano a farlo. Sbattevano sui tavoli come se fossero trasparenti. Quando camminavano su una superficie elevata e ne raggiungevano il bordo, entravano in confusione. I bordi orizzontali non significavano nulla per loro. Se Blakemore e Cooper mettevano loro un oggetto orizzontale davanti al muso o li lanciavano contro di esso, i gatti non si spaventavano, perché quell’oggetto per loro non esisteva. E quando avvicinavano lentamente un foglio di plexiglas su cui erano state dipinte delle righe orizzontali, i gatti venivano spinti indietro come se investiti da una forza misteriosa, incapaci di notare il muro che si avvicinava finché non li colpiva sul muso.

Blakemore e Cooper ripeterono l’esperimento con un altro gruppo di gatti cresciuti in cilindri con anelli orizzontali e notarono un identico effetto. In questo gruppo i gatti non riuscivano a percepire i bordi verticali. E se i due scienziati provavano a mescolare i due gruppi, il primo inseguiva un bastone orizzontale e cercava di afferrarlo con le zampe finché non veniva posto in verticale. A quel punto smettevano l’inseguimento come se fosse svanito. Nello stesso momento l’altro gruppo entrava in azione e iniziava l’inseguimento come se il bastone fosse comparso dal nulla.

Queste menomazioni, tuttavia, non duravano. Dopo aver passato dieci ore a giocare nella stanza, percependo e interagendo con oggetti orizzontali, il cervello dei gatti iniziava ad aggiungere l’orizzontalità alla loro realtà. I neuroni che non erano mai stati esposti a questo nuovo aspetto del mondo esterno cominciavano a crepitare in risposta e a raccordarsi in modo appropriato. In breve tempo i gatti furono in grado di saltare su e giù da tavoli e sedie con facilità. Iniziarono a distendere le zampe quando si avvicinavano al suolo, e in vicinanza di un muro si allontanavano. Il loro mondo interiore si era fatto più complesso, aggiungendo un elemento ancora inesplorato del mondo esterno alla simulazione che si formava nel loro cervello.

I chirurghi che lavorano in India per organizzazioni nonprofit, facendo interventi di cataratta su persone cieche dalla nascita, hanno notato effetti simili sugli esseri umani. Quando vengono tolte le bende, quelle persone non vedono immediatamente la gente che le circonda. Vedono solo forme e colori, come i neonati. Dopo qualche settimana, tuttavia, possono distinguere gli oggetti e allungare una mano per prenderli, anche se in un primo momento non riescono a capire se quegli oggetti sono vicini o lontani. Hanno bisogno di anni di esperienze che coinvolgono la terza dimensione prima di essere in grado di muoversi con padronanza al suo interno. I loro neuroni hanno bisogno di tempo, come quelli dei neonati, per imparare a elaborare le nuove informazioni fornite dai sensi.

Allo stesso modo, quando persone sorde dalla nascita vengono dotate di protesi acustiche che permettono loro di sentire, in un primo momento sentono solo rumori statici. Se ciò avviene quando la persona è in giovane età, il cervello alla fine utilizza il suono, nota i pattern in esso contenuti e li converte in segnali che distingue da altri. Con le persone anziane, invece, il bombardamento di nuove esperienze sonore può essere un fastidio. Si sono abituate a capire il mondo senza suoni per così tanto tempo che a volte restituiscono la protesi per tornare alla realtà silenziosa, ma gestibile, che hanno sempre conosciuto.

Per il cervello, tutto inizialmente è rumore. Il cervello riconosce dei pattern nei rumori statici e sale di un livello, riconoscendo dei pattern nel modo in cui interagiscono. Poi sale di un ulteriore livello, riconoscendo dei pattern nel modo in cui serie di pattern interagenti fra loro interagiscono con altre serie, e via di seguito. Strati di riconoscimento dei pattern sviluppati su strati più semplici diventano una rudimentale comprensione di cosa possiamo aspettarci dal mondo che ci circonda, e le loro interazioni diventano la nostra capacità di riconoscere il nesso di causa ed effetto. La sfericità di una palla, il bordo solido di un tavolo, il morbido gomito di un animale di pezza, ogni oggetto eccita certi percorsi neurali e non altri, e ogni esposizione rafforza le loro connessioni, finché il cervello arriva a prevedere questi elementi e a inserirli con cognizione in un contesto. Similmente, come le cause portano sempre a degli effetti, il nostro innato riconoscimento dei pattern nota e formula delle previsioni: la mamma verrà quando piango di notte; il purè di patate mi renderà felice; le api fanno male quando pungono. Iniziamo la nostra vita immersi in un caos imprevedibile, ma la regolarità delle nostre percezioni diventa la facoltà di prevedere a cui facciamo ricorso per trasformare quel caos in un ordine prevedibile.

Ma quando ci giungono nuove informazioni attraverso i sensi, qualcosa di insolito o ambiguo, non si aggiungono immediatamente alla realtà soggettiva. Rimangono rumore se non corrispondono a un pattern in quell’archivio stratificato di previsioni. Il cervello ha bisogno di esperienze ripetute in questo caso, come le righe orizzontali per quei gatti menomati nei sensi, o come le forme e i colori per quei pazienti indiani. E siccome ogni realtà è soggettiva, un Umwelt limitato ai sensi di cui dispone quella creatura, i pattern che non vengono riconosciuti non entrano mai a far parte del mondo interiore di quell’animale. Se non possiamo percepire i raggi ultravioletti, possiamo vivere tutta la vita senza sapere che esistono, così come l’universo particolare di uno stomatopoda è pieno di colori che un essere umano non potrà mai vedere né immaginare.

Ciò che dimostrano simili ricerche è che ogni cervello fa il suo ingresso nel mondo intrappolato nella scura volta del cranio, incapace di essere testimone di prima mano di ciò che succede all’esterno. Grazie alla duttilità del cervello e attraverso ripetute esperienze, quando gli input sono regolari e reiterati, i neuroni attivano rapidamente i pattern di attivazione reciproci. Si genera così un modello predittivo unico a ogni sistema nervoso individuale, una specie di potenziale di riposo in cui il neurone, quando stimolato, attiverà il circuito nello stesso modo in circostanze simili.

Insieme formano una rappresentazione interiore, un modello artificiale nell’ignoranza di come può essere il mondo esterno, attraverso le costanti informazioni che giungono dai sensi. Come ha scritto Bertrand Russell: “L’osservatore, mentre crede di osservare un sasso, sta in realtà osservando, se bisogna credere alla fisica, gli effetti che il sasso produce su di lui”.50

Il neuroscienziato V.S. Ramachandran mi disse che gli piace paragonare tutto questo a un generale chiuso in un bunker che dirige una battaglia usando un grande tavolo coperto di modellini di carrarmato e soldatini. Il cervello, come quel generale, dipende dagli esploratori che gli riferiscono la situazione sul campo per aggiornare il modello. Il generale non vede mai il mondo esterno, solo la rappresentazione semplificata che ha sul tavolo. Fra un resoconto e l’altro, può solo utilizzare quella rappresentazione per farsi un’idea della situazione di fatto. Non ha altri strumenti per pianificare, valutare, stabilire degli obiettivi e prendere decisioni per il futuro. Se gli esploratori, per qualunque motivo, non gli forniscono aggiornamenti, il modello resta immutato, rappresentando un mondo che nel frattempo, fuori da quel bunker, è sostanzialmente mutato. E se gli esploratori non gli forniscono certe informazioni, nel modello non compariranno affatto.

Prima di The Dress era chiaro ai neuroscienziati che la realtà è interamente virtuale; pertanto, realtà consensuali sono in genere il risultato della geografia. Individui che crescono in ambienti simili tra individui simili tendono ad avere facoltà cerebrali simili, e quindi realtà virtuali simili. Se sono in disaccordo fra loro, di norma è sulle idee, non sulla nuda verità delle loro percezioni. Ma dopo The Dress arriva Pascal, un neuroscienziato che studia la coscienza e la percezione.

Quando Pascal vide per la prima volta The Dress, gli parve ovvio che fosse un abito bianco e oro, ma quando lo mostrò a sua moglie, lei vide qualcosa di diverso. Gli disse che ovviamente era nero e blu. “Rimasi sveglio tutta la notte pensando come si potesse spiegare questo fenomeno.”

Grazie ad anni di ricerche sui fotorecettori (cellule nervose che si trovano sulla retina) e sui neuroni a cui sono collegati, pensava di aver capito la prima trentina di fasi nella catena del processo visivo, ma “tutto questo venne messo in crisi nel febbraio del 2015, quando The Dress apparve sui social media”. In quanto scienziato che studiava questo genere di cose, si sentì come un biologo nell’attimo in cui viene a sapere che altri dottori hanno appena scoperto un nuovo organo nel corpo umano.

Pascal spiegò il suo disorientamento. Lo spettro luminoso che percepiamo – i colori primari che definiamo rosso, verde e blu – sono specifiche lunghezze d’onda di energia elettromagnetica. Esse emanano da una sorgente, come il sole, una lampada, una candela. Quando la luce urta, ad esempio, un limone, il limone assorbe alcune di quelle radiazioni, mentre le altre rimbalzano. Quello che rimane attraversa un buco nella nostra testa che si chiama pupilla e colpisce la retina sul fondo dell’occhio, dove viene tradotto nel ronzio elettrochimico dei neuroni che poi il cervello utilizza per generare l’esperienza soggettiva della visione dei colori. Poiché la luce naturale è perlopiù una combinazione di rosso, verde e blu, e un limone assorbe le radiazioni del blu, rimangono il rosso e il verde a colpire la retina, che il cervello combina nell’esperienza soggettiva del vedere un limone giallo. Il colore, tuttavia, esiste solo nella mente. Nella coscienza, il giallo è un parto dell’immaginazione. Il motivo per cui tendiamo a essere d’accordo che i limoni sono gialli sta nel fatto che tutti i nostri cervelli generano grosso modo la stessa allucinazione quando la luce colpisce il limone e rimbalza nella nostra testa.

Se non siamo d’accordo su ciò che vediamo, in genere è perché l’immagine è per certi versi ambigua, e il cervello di una persona la disambigua in modo diverso da un altro. Pascal ha detto che nelle neuroscienze gli esempi di disambiguazione a cui riferirsi sono chiamate illusioni visive intrapersonali bistabili: bistabili perché ogni cervello si fissa su un’interpretazione alla volta, e intrapersonali perché ogni cervello si fissa sulle stesse due interpretazioni. Ne avrete viste alcune: l’anatra-coniglio, per dirne una, che a volte sembra un’anatra e a volte un coniglio. O il vaso di Rubin, che a volte sembra un vaso e a volte sembra due volti di profilo che si guardano.

Come tutte le immagini bidimensionali, che si tratti di piccole macchie di vernice o di pixel su uno schermo, se le linee e le forme appaiono abbastanza simili a cose che abbiamo visto in passato, le disambiguiamo nella Gioconda o in una barca a vela, o nel caso di un’immagine bistabile, in anatra o coniglio. Ma The Dress era qualcosa di nuovo, un’illusione visiva bistabile intermedia: bistabile perché ogni cervello si fissa su un’interpretazione alla volta, ma intermedia perché ogni cervello si fissa su una sola delle due possibili interpretazioni. Fu questo a rendere The Dress così disorientante per Pascal. La stessa luce penetrava negli occhi di tutti, e ogni cervello interpretava le linee e le forme come un abito, eppure per qualche motivo i cervelli non lo convertivano negli stessi colori. Succedeva qualcosa fra percezione e coscienza, e Pascal voleva sapere di cosa si trattava. Trovò alcuni finanziamenti e concentrò l’interesse del suo laboratorio alla New York University sul mistero di The Dress mentre era ancora virale.

Pascal sospettava che individui diversi vedevano abiti diversi perché quando non siamo sicuri di ciò che vediamo, quando ci troviamo su un terreno ambiguo e poco familiare, disambiguiamo usando la nostra “distribuzione a priori”, cioè gli strati di riconoscimento dei pattern generati dalla catena dei neuroni, attivati da costanti esperienze nel mondo esterno. L’espressione viene dalla statistica e sta oggi a significare ogni supposizione prodotta dal cervello su come il mondo esterno dovrebbe apparire tenuto conto di come è apparso in passato. Ma il cervello va più lontano di così: in situazioni di quella che Pascal e Karlovich definiscono “sostanziale incertezza”, il cervello userà la sua esperienza per creare illusioni di cosa dovrebbe essere ma non è. In altre parole, in situazioni nuove il cervello in generale vede quello che si aspetta di vedere.

Pascal disse che era sottinteso per quanto riguarda la visione del colore. Possiamo dire che un maglione è verde quando l’armadio è al buio, o che un’auto è blu in una notte nuvolosa, perché il cervello fa un po’ di Photoshop per aiutarci in situazioni dove condizioni di luce differenti alterano l’aspetto di oggetti che ci sono familiari. Possediamo tutti un meccanismo di correzione che ricalibra il nostro sistema visivo per “non considerare la sorgente luminosa e ottenere la costanza del colore al fine di preservare l’identità dell’oggetto anche in condizioni di diversa illuminazione”. Questo avviene alterando ciò che vediamo perché corrisponda a ciò che abbiamo sperimentato in precedenza. Ne è straordinario esempio un’illusione creata dallo studioso Akiyoshi Kitaoka.

Sembra una ciotola di fragole rosse, ma l’immagine non contiene alcun pixel rosso. Quando si guarda la foto, nessuna luce rossa ci penetra negli occhi. Invece, il cervello suppone che l’immagine sia illuminata da una luce bluastra e sovraesposta. Abbassa un po’ il contrasto e aggiunge un po’ di colore dove è stato tolto, e questo significa che il rosso che percepiamo guardando queste fragole non proviene dall’immagine. Se siete cresciuti mangiando fragole e da tutta la vita vedete fragole rosse, quando vedrete la forma familiare di una fragola il cervello supporrà che debba essere rossa. Il rosso che vediamo nell’illusione di Kitaoka viene generato interiormente, una supposizione fatta a posteriori e inconsapevolmente, una bugia del nostro sistema visivo per fornirci ciò che dovrebbe essere la verità.

Pascal pensò che la foto di The Dress dovesse essere una versione rara e non voluta dello stesso fenomeno. L’immagine era stata probabilmente sovraesposta, rendendo così ambigua la verità; il cervello delle persone la disambiguava “non tenendo conto della sorgente luminosa” che ritenevano presente, tutto in modo inconsapevole.

La foto era stata scattata in un giorno di brutto tempo con un cellulare scadente. Una parte dell’immagine era illuminata, mentre l’altra era in ombra. Pascal aveva analizzato questi dettagli freneticamente, uno dopo l’altro, e si era chiesto: “Cosa ci dicono?”.

“Che l’illuminazione era ambigua?” suggerii.

“Esattamente!” esclamò. E mi spiegò che il colore che appariva in ogni cervello era diverso a seconda di come veniva disambiguata l’illuminazione. In alcuni individui il cervello la disambiguava come nero e blu, e in altri come bianco e oro. Come nel caso delle fragole, il cervello arrivava a questo risultato attraverso una bugia, creando un’illuminazione inesistente. Ciò che rendeva diversa questa immagine, disse, era il fatto che cervelli diversi raccontavano bugie diverse, dividendo le persone in due gruppi con realtà soggettive incompatibili. Ma perché erano così diverse? Inseguendo questa ipotesi, Pascal pensò di avere trovato la risposta. Dopo due anni di ricerche con più di 10.000 partecipanti, scoprì un pattern preciso nei suoi soggetti. Più tempo una persona era stata esposta alla luce artificiale (che è in predominanza gialla) – chi lavora in spazi chiusi o di notte – più era probabile che vedesse l’abito di The Dress nero e blu. Questo perché nel processo di elaborazione visiva supponeva, inconsciamente, che fosse illuminato con luce artificiale, e quindi il suo cervello sottraeva il giallo, lasciando solo le tonalità scure e bluastre. Tuttavia, più tempo una persona era stata esposta alla luce naturale – chi lavora di giorno all’aperto, o vicino a una finestra – più era probabile che sottraesse il blu, e quindi vedesse l’abito bianco e oro. In un modo o nell’altro – ed è quello che più conta nella nostra indagine – l’ambiguità non si è mai manifestata.


Qualunque colore le persone vedessero soggettivamente, l’immagine non sembrava mai ambigua perché a livello conscio percepivano solo l’esito del proprio processo, e l’esito differiva a seconda delle precedenti esperienze che la persona aveva avuto con la luce. Il risultato era una bugia pronunciata dal loro cervello che appariva ovviamente vera.

Il team di Pascal coniò una definizione per questo fenomeno: surfpad. Quando combini sostanziale incertezza (Substantial Uncertainty) con ramificata (Ramified) o biforcata distribuzione a priori (Forked Priors) o supposizioni (Assumptions), ottieni disaccordo (Disagreement).

“Le conclusioni possono essere qualunque cosa il cervello mette a disposizione delle esperienze di cui siamo consapevoli: oggetti percepiti, decisioni, interpretazione/i. Gli oggetti sopra la linea tratteggiata spesso non vengono considerati consciamente quando si valutano le conclusioni. Alcuni possono non essere accessibili alla coscienza. Si noti che questa non è la sola differenza possibile fra individui. Si può sostenere che anche i cervelli siano diversi fin dall’inizio. Questo è probabilmente vero, ma non ne sappiamo nulla. Si noti inoltre che supposizioni diverse bastano a produrre differenze nelle conclusioni in questo schema. Ciò non significa che non contino anche altri fattori. Teniamo presente che qui consideriamo due individui. Se ne coinvolgessimo più di due, la situazione potrebbe complicarsi ulteriormente.” (P. Wallisch, Pascal’s Pensées, pensees.pascallisch.net)

In altre parole, quando la verità è incerta, il nostro cervello scioglie quell’incertezza senza che ce ne rendiamo conto generando la realtà più probabile che riesce a immaginare basandosi sulle esperienze precedenti. Gli individui il cui cervello rimuove quell’incertezza in modi simili si troveranno d’accordo, come il gruppo che vedeva l’abito nero e blu. Altri, il cui cervello scioglie quell’incertezza in modo diverso, si troveranno ugualmente d’accordo, come il gruppo che vedeva l’abito bianco e oro. L’essenza del surfpad è che entrambi i gruppi si sentiranno certi, e penseranno che il gruppo opposto, per quanto grande possa essere, sbaglia. A quel punto, in un gruppo e nell’altro, la gente comincerà a chiedersi perché così tante persone non vedono la verità, senza immaginare che forse sono loro stesse a non vederla.

Un esempio di surfpad all’opera ce lo forniscono le diverse reazioni ai vaccini contro il Covid-19 presentati al pubblico nel 2020. La maggior parte delle persone non era esperta di vaccini e di epidemiologia, e quindi le informazioni su come funzionava e su cosa fare erano nuove e ambigue. Per risolvere l’incertezza, la gente ricorreva alle proprie esperienze precedenti con vaccini e dottori, al proprio grado di fiducia nelle istituzioni scientifiche e alla propria disposizione nei confronti del governo. Alcuni arrivavano così alla conclusione che i vaccini erano probabilmente sicuri ed efficaci, mentre altri nutrivano dei dubbi, spesso sfociati in sospetto e ipotesi complottiste. Per entrambi i gruppi, chi vedeva la questione in modo diverso era cieco alla verità.

Quando ci troviamo davanti a informazioni nuove che sembrano ambigue, le disambiguiamo inconsapevolmente basandoci su passate esperienze. Ma partendo dal livello della percezione, esperienze diverse possono condurre a disambiguazioni diverse, e quindi a realtà soggettive diverse. Quando questo avviene in presenza di una grande incertezza, possiamo essere in totale disaccordo con la realtà stessa, ma siccome nessuno è consapevole dei processi cerebrali che spingono a non essere d’accordo, si è indotti a ritenere in errore chi vede le cose in modo diverso.

Dopo le prime ricerche sulla distribuzione a priori nella percezione di immagini ambigue, Pascal decise di testare il surfpad ricreando il fenomeno che aveva osservato con The Dress.

A casa sua, Pascal mi mostrò il sottotetto dove lui e il suo collega Michael Karlovich conducevano la loro ricerca, una zona oscurata piena di Crocs multicolori, calzettoni, varie strisce di led e pile di documenti, tutte prove della felice intuizione che li aveva fatti correre a New York a cercare i materiali grezzi di cui avevano bisogno per costruire la loro “bomba atomica cognitiva”.

Muovendosi sulla sua poltrona girevole, mi disse di aver scelto quella definizione perché la scala della comprensione scientifica è fatta di descrizione, spiegazione, predizione e creazione. Per esempio, parlando di erba, prima si descrivono i vari tipi di erba trovati in zone aride, poi se ne realizza una tassonomia, poi si spiega perché hanno quell’aspetto, e alla fine si usa tutto questo per predire cosa possiamo trovare in una zona arida ancora inesplorata. L’ultima fase, la creazione, è possibile solamente quando abbiamo capito qualcosa così profondamente da poterla ricreare in laboratorio.

Non siamo ancora in grado di creare erba da zero, ma siamo capaci di creare bombe atomiche. Per creare una reazione nucleare, abbiamo dovuto capire fino in fondo i principi scientifici che la governano: il processo di descrizione, spiegazione, predizione e creazione. Questo non significa che non ci resti ancora molto da imparare. Dobbiamo sempre imparare. Ma significa che la fisica, a questo riguardo, è andata oltre la predizione, cosa che non si può dire per gran parte della psicologia.

Pascal si appassionava molto a questi temi. Voleva che le scienze sociali tornassero agli inizi e conducessero le loro ricerche nello stesso modo in cui la fisica progetta i suoi esperimenti. Pensava che ci fosse bisogno di un reboot, di un ritorno ai principi fondamentali. The Dress era l’occasione per farlo, perché era un’immagine unica: Pascal mi stava descrivendo qualcosa che avviene in una condizione specifica e probabilmente molto rara. Per mettere veramente alla prova la sua ipotesi avrebbe dovuto raggiungere un grado di comprensione scientifica superiore. E quindi, essendo ormai descritta e spiegata la scienza che stava dietro a The Dress, doveva muoversi verso la predizione e la creazione. Lui e Karlovich avrebbero costruito l’equivalente cognitivo di una bomba atomica usando Crocs e calzettoni.

Per replicare The Dress, dovevano fotografare un oggetto che avesse un colore ambiguo: vedendo un’immagine di esso in bianco e nero, si sarebbe dovuto riconoscerlo, ma indovinandone il colore in base alla distribuzione a priori. In secondo luogo, dovevano trovare il modo di fornire un indizio allo spettatore con la luce. Esperienze diverse con la luce comportano risposte diverse, e diverse realtà. Karlovich aveva già studiato la visione dei colori e così ipotizzò che se avessero accoppiato un oggetto dal colore ambiguo con un altro dal colore ovvio, la gente avrebbe usato il colore apparentemente non ambiguo come segnale per disambiguare l’altro.

Karlovich passò intere settimane alla ricerca di un oggetto che potesse soddisfare entrambi i presupposti. Ne provò di tutti i tipi, dalle uova, pensando, grazie al Dr. Seuss, che alcuni supponessero fossero gialle, e altri verde, a finti fenicotteri, che forse qualcuno avrebbe visto bianchi, e qualcun altro rosa. Ma non trovò nulla che funzionasse, finché un giorno si ricordò di quando, a scuola, aveva aiutato un compagno a coltivare delle piante in una serra illuminata solo di luce verde.

Karlovich spiegò che le piante verdi assorbono la maggior parte delle onde luminose, riflettendo alcune di quelle che il cervello interpreta come verde, e che penetrano nell’occhio. Quindi, usando una luce verde di una specifica lunghezza d’onda per farle crescere, le piante verdi reagiscono come se fossero al buio. Le piante verdi non “vedono” il verde. In questo modo si può lavorare in una luce verde e in una notte artificiale senza disturbare il ritmo circadiano delle piante. Era stato con un amico che stava facendo proprio quello, quando aveva notato qualcosa di insolito. Il suo amico indossava dei Crocs che Karlovich supponeva fossero grigi perché così apparivano alla luce verde che illuminava la serra. Ma fuori, alla luce del sole, erano rosa. La cosa strana, ciò che lo colpì, era che quando rientravano nella serra gli apparivano rosa! Non le vedeva più grigie, in nessun modo.

In quanto esperto di percezione del colore, immaginava con una certa sicurezza cosa stesse accadendo. Se si illuminano dei Crocs rosa con sola luce verde, appaiono grigi, perché non riflettono qualunque tipo di rosa. Alla luce del sole, tuttavia, in cui è contenuta la lunghezza d’onda del rosa, li si vede del loro vero colore. Il fatto che i Crocs non apparissero più grigi nella sua mente quando tornava nella serra significava che, nonostante la realtà oggettiva non fosse mutata, era mutata la sua realtà soggettiva. Le fasi intermedie del processo producevano qualcosa di nuovo. Come nel caso delle fragole, siccome ora si aspettava che i Crocs fossero rosa, li vedeva rosa anche se onde di quella lunghezza non penetravano nei suoi occhi. Cercando un oggetto che potesse sostituire The Dress, qualcosa di ugualmente ambiguo dal punto di vista della percezione, gli tornò in mente l’esperienza fatta nella serra, e la risposta gli parve ovvia. Basta andare in un supermercato e si vedono i Crocs accoppiati a delle calze, in genere bianche. Ecco la soluzione: le calze. Ma non da sole, bensì combinate con i Crocs.

Era questa l’idea: accoppiare dei Crocs rosa con delle calze bianche e illuminarli con luce verde. A quel punto i Crocs sarebbero sembrati grigi, come nella serra, ma le calze avrebbero riflesso la luce verde e sarebbero sembrate verdi. Se uno avesse pensato che le calze erano di colore verde, avrebbe supposto che non c’era nulla fuori posto con la luce e avrebbe accettato l’immagine senza elaborarla. Ma se quella stessa persona si fosse aspettata che le calze erano bianche e le avesse viste di quel colore, inconsapevolmente il suo cervello avrebbe rielaborato l’immagine, sottraendo la sovraesposizione verde e aggiungendo il rosa alle scarpe. Se Karlovich e Pascal avevano ragione, la gente, in base a ciò che inconsciamente supponeva, non sarebbe stata d’accordo su ciò che vedeva.

Considerata valida la loro ipotesi, girarono per i negozi di Manhattan comprando ciò di cui avevano bisogno, poi portarono tutto nel sottotetto di Pascal, dove Karlovich indossò le calze e i Crocs mentre Pascal li fotografava sotto la luce verde della serra. Poi mostrarono le foto ad alcune persone e chiesero loro cosa vedevano. Il risultato? Era esattamente quello che avevano immaginato. Alcuni vedevano Crocs grigi e calze verdi, altri Crocs rosa e calze bianche. Come con The Dress, chi vedeva in un modo non poteva vederlo nell’altro.

Avevano la loro bomba atomica. Avevano creato da zero qualcosa che fino a quel momento si produceva in natura in circa una su dieci miliardi di fotografie. Sarebbe bastato questo per far gridare al trionfo, dal punto di vista della metodologia scientifica e del modello sperimentale, ma per Pascal e Karlovich questa era una prova, a livello dei neuroni, del fatto che il surfpad era corretto, perché c’era qualcosa di più profondo nei dati: le persone anziane vedevano più probabilmente i Crocs rosa, mentre i più giovani li vedevano tendenzialmente grigi.

Perché? Perché gli anziani avevano maggiore esperienza di calze bianche, e quindi questo si aspettavano di vedere. Supponevano che le calze fossero bianche, e così disambiguavano l’ambiguità in questa direzione. Il loro cervello partiva dall’assunto che la luce fosse verde, il che significava che i Crocs dovessero essere rosa nella realtà. E siccome i giovani avevano maggior esperienza di calze colorate, la loro distribuzione a priori li induceva a ritenere verdi le calze, e quindi vedevano l’immagine senza operare inconsciamente alcun genere di elaborazione.

Pascal proiettò l’immagine su un gigantesco schermo tv appeso a un muro sopra la scrivania nel suo ufficio alla New York University, e disse: “Se si prende ciò che colpisce la retina alla lettera, si vede grigio, ma gli anziani dicono: ‘Oh, no. Conosco quelle calze, le ho già viste, devono essere bianche! La luce dev’essere bianca.’ E così, inconsciamente, tolgono il verde all’immagine, facendo diventare i Crocs rosa nella loro mente”.

A complicare le cose c’è il fatto che i Crocs sono rosa alla luce naturale, e così la gente che li vedeva di quel colore vedeva la verità dietro l’immagine. Ma siccome non ci sono pixel rosa nell’immagine, le persone che li vedevano grigi vedevano la verità della foto. Stessa immagine, due verità, in base alla passata esperienza con i calzettoni. Allora, quale delle due verità soggettive dobbiamo considerare la più vera?

Pascal era eccitato pensando alle implicazioni. Nessuno dei due gruppi aveva ragione o torto, e quindi sostenere la tesi dell’uno o dell’altro non avrebbe portato a una comprensione più profonda: realtà oggettiva e realtà soggettiva possono non andare d’accordo. Solo le due verità combinate, l’associazione di prospettive condivise, avrebbe fatto capire alla gente che c’era una verità più profonda, e solo attraverso la conversazione avrebbe potuto sperare di risolvere il mistero.

“Le credenze di una persona possono chiaramente colorare le percezioni” disse con una certa sfacciataggine parlando della sua ricerca. “Abbiamo scoperto un principio insito nella natura del disaccordo” aggiunse, permettendo agli scienziati di creare disaccordi simili in futuro, “e, a nostra volta, abbiamo capito come si produce in genere il disaccordo.” Il gruppo delle calze bianche non aveva aggiornato la sua distribuzione a priori, anzi, aveva fatto combaciare ciò che vedeva con il proprio modello. Vedevano ciò che si aspettavano di vedere. L’illusione delle calze e i Crocs, semmai, rafforzavano le loro supposizioni.

Pascal passò metà del pomeriggio che trascorsi con lui e Karlovich esaminando perché ciò che avevano dimostrato con le calze e i Crocs era di fondamentale importanza per capire come e perché la gente cambia o non cambia idea quando viene messa di fronte ai semplici fatti. Credevano che ciò gettasse letteralmente una luce su altri tipi di disaccordo polarizzato in materia di politica, teorie complottiste, attualità e negazione della scienza.

“Ci sono più di trenta fasi nel processo visivo prima che un’immagine raggiunga la coscienza” disse Pascal. Siamo consapevoli solo del risultato, non dei processi. In nessuna fase del processo l’immagine di The Dress faceva avvertire lo spettatore dell’incertezza che lo costringeva a disambiguare. È proprio il fatto che questa incertezza viene eliminata in modo così furtivo – che questi processi sono sia inconsci, sia indiscutibili – a provocare le discussioni più violente. Quando le nostre esperienze e le nostre motivazioni soggettive ci portano a disambiguare in modo diverso, non possiamo fare altro che dissentire con assoluta certezza. Ma quando dissentiamo in questo modo, non sappiamo perché lo facciamo. Il risultato è che discutiamo all’infinito in base alla nostra soggettività, per convincerci a vicenda di qualcosa che non pare soggettivo, che, anzi, sembra la nuda verità, non filtrata e inattaccabile.

In psicologia esiste un’espressione per definire questo punto cieco cognitivo, quando le nostre disambiguazioni ci sembrano incontestabilmente vere. Si chiama realismo ingenuo, ed è la convinzione che percepiamo il mondo com’è davvero, libero da supposizioni, interpretazioni, bias, o limiti dei nostri sensi. Lo psicologo Lee Ross, che contribuì a rendere popolare questa espressione, mi disse che porta molti di noi a credere di avere maturato le nostre credenze, il nostro modo di pensare e i nostri valori, dopo un’attenta analisi razionale, attraverso pensieri e percezioni non mediati. Inconsapevoli del fatto che esperienze diverse possono condurre a disambiguazioni diverse, crediamo di avere introiettato la pura realtà per anni, e che è stato il semplice studio dei nudi fatti a portarci a tutte le nostre conclusioni. Secondo Ross, è questo il motivo per cui i gruppi antagonisti sono convinti di essere gli unici radicati nella realtà.

Quando le disambiguazioni si scontrano, come nel caso di The Dress, le persone trovano difficile capire come mai l’altra parte non riesce a vedere le cose in modo diverso, quando l’evidenza sembra sotto gli occhi di tutti.

Pascal e Karlovich spiegarono in un saggio perché questo lavoro era così importante: “Il grado di polarizzazione nel caso di eventi legati all’attualità è al livello massimo mai raggiunto”. Uno studio della Pew Research lo conferma. Stando alle sue conclusioni, “Repubblicani e Democratici sono più divisi su argomenti di natura ideologica – e l’antipatia di parte più profonda ed estesa – di quanto non lo siano stati negli ultimi vent’anni”.

Dal cambiamento climatico al fracking, alle frodi elettorali, alla riforma sanitaria, si direbbe che vivono in realtà completamente separate. La rappresentazione più evidente di questa netta divisione l’abbiamo avuta col Covid-19. Secondo un sondaggio effettuato dalla Pew Research negli Stati Uniti, quasi il 75% dei Repubblicani sosteneva che il governo aveva operato bene nel gestire la pandemia nei mesi peggiori, mentre solo il 30% dei Democratici e degli indipendenti si diceva d’accordo. Quando i Democratici si sono insediati alla Casa Bianca, i no mask si sono letteralmente scontrati con i favorevoli all’uso delle mascherine, mentre i no vax sostenevano con i pro vax, a volte anche sul letto di morte, la loro diversa interpretazione della stessa realtà.

Parlando delle implicazioni della loro ricerca, Pascal e Karlovich dissero che la scienza aveva bisogno di “capire più a fondo il dissenso per evitare spiacevoli conseguenze”. Il problema per chi studia il dissenso politico, tuttavia, sta nel fatto che, per quanto il risultato sembri semplice – due schieramenti ideologici ai due estremi di una gamma di credenze – i sistemi di interazione umana che producono quel risultato sono immensamente complessi. Una spiegazione esauriente della polarizzazione interpretativa richiede una comprensione gestaltica non solo della politica, ma anche della psicologia che studia il ragionamento, la motivazione, la ricompensa e i costi sociali, i criteri, le credenze, il modo di pensare e i valori, non tanto a livello delle interazioni umane, ma nel cervello individuale, e giù fino ai neuroni, agli ormoni e ai gangli nervosi.

“Una strategia di ricerca praticabile per raggirare il problema è quella di esplorare, invece, i disaccordi nelle percezioni” hanno scritto Pascal e Karlovich nella loro ricerca su calze e Crocs. “Essi sono sufficientemente liberi da preconcetti – del tutto innocenti – e le persone sono aperte ai risultati di una simile ricerca. Per una fortunata combinazione, abbiamo potuto giovarci di The Dress, un’immagine che evoca profondo disaccordo a livello di percezione.”

Il primo insegnamento di The Dress è che i nostri disaccordi iniziano al livello delle supposizioni che colleghiamo alle percezioni, perché ogni realtà è virtuale; ma non si fermano al disaccordo nella percezione. Come ha detto Pascal, siccome il mondo nella testa di una persona è una raccolta delle sue esperienze, una gerarchia di crescenti astrazioni illusorie che chiamiamo credenze, modi di pensare e valori, “i principÈ a quel punto che uno dei misteri principali cominciò a sembrare meno misterioso: perché i fatti che avevano fatto cambiare idea a Charlie Veitch non avevano funzionato con gli altri truther, o la comunità di teorici del complotto che alla fine l’aveva scomunicato. Sarebbe diventato ancora più chiaro quando, come vedremo nelle pagine che seguono, iniziai a capire come le forze culturali e la conoscenza motivata siano in gioco nel momento in cui persone che hanno modelli diversi si incontrano e cercano di disambiguare qualcosa che entrambi trovano ambiguo.

Quando ci scontriamo con l’incertezza, spesso non ci accorgiamo di essere incerti, e quando tentiamo di scioglierla, non ricadiamo semplicemente nella nostra diversa distribuzione a priori, ma la cerchiamo, spinti dalla nostra identità e dal bisogno di appartenenza, dai costi sociali, da questioni di fiducia e reputazione, e così via.

Gli psicologi parlano di conflitto di frame quando si è d’accordo sui fatti (per esempio che gli omicidi di massa sono un problema) ma non lo si è sull’interpretazione di questi eventi (la causa è X / no, la causa è Y).

Come predice il surfpad, è questo il motivo per cui spesso siamo in disaccordo su argomenti che, per entrambe le parti, sembrano ovvi. Inconsapevoli del processo che porta a tale disaccordo, sembrerà una battaglia che ha per oggetto la realtà stessa, la verità che sta sotto i nostri occhi. Disaccordi di questo genere spesso si trasformano in disaccordi fra gruppi, perché le persone con esperienze e motivazioni simili tendono a disambiguare in linea di massima nello stesso modo, e sia che si ritrovino online o in presenza, il fatto che dei loro simili degni di fiducia vedano le cose allo stesso modo sembrerà la prova di cui hanno bisogno: hanno ragione, e gli altri hanno torto relativamente ai fatti, sbagliano moralmente o per qualche altro motivo.

“Introdurre delle prove che potrebbero farli dubitare non cambia le loro credenze. Semmai le rafforza” spiegò Pascal. “Potrà sembrare sconcertante, ma ha un senso quando lo inseriamo nella cornice del surfpad.” Mi disse di pensare a una fonte di informazioni affidabile che mette in cattiva luce un personaggio politico. Se un’altra fonte lo dipinge in una luce positiva, il cervello non si aggiorna. Fa invece quello che faceva nel caso delle calze bianche: suppone che la luce sia spenta e la cancella, così che la soggettività sembrerà oggettività.

Questo ci porta al secondo insegnamento. Poiché la soggettività si trasforma in apparente oggettività, il realismo ingenuo dà l’impressione che il modo per far cambiare idea alla gente sia quello di mostrarle i fatti a supporto del tuo modo di vedere, perché chiunque abbia letto ciò che tu hai letto, o abbia visto ciò che tu hai visto, vedrà fatalmente le cose come le vedi tu, dato che ha meditato sull’argomento con la stessa profondità che ci hai messo tu. Pertanto, supporrai che chiunque sia in disaccordo con le tue conclusioni probabilmente non ha ancora a disposizione tutti i fatti. Se li avesse, vedrebbe già il mondo come lo vedi tu. Ecco perché si continua inutilmente a fare un copia e incolla di link delle fonti di cui ci si fida maggiormente quando si sostengono i propri argomenti con persone che sembrano sviate, folli, disinformate, quindi in errore. Il problema è che l’altra parte pensa che questa stessa cosa funzionerà con te.

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