Cosa distingue meditazione e mindfulness?



La pratica della meditazione buddista, in occidente ripresa spesso sotto forma di “mindfulness”, non è solo un modo per ridurre lo stress e migliorare le proprie prestazioni sociali – anzi, non lo è affatto: è piuttosto una via per comprendere la sofferenza e la cessazione della sofferenza.


In copertina: Antonio Sanfilippo, Senza titolo (1966) – Olio su tela – Asta Pananti in corso

Questo testo è tratto da “La meditazione tra essere e benessere” di Raffaella Arrobbio. Ringraziamo Le Lettere per la gentile concessione


di Raffaella Arrobbio

I praticanti della mindfulness – il movimento di meditazione laica che si è diffuso con estrema velocità nel contemporaneo mondo occidentale – e i praticanti della meditazione tradizionale buddhista, se guardati esteriormente, appaiono simili. 

L’apparenza esteriore non rileva differenze: la postura del corpo e l’atteggiamento di concentrazione sembrano indicare similarità. 

Allo scopo di scorgere differenze che a un primo sguardo superficiale potrebbero sfuggire, dobbiamo interrogare i praticanti delle due vie meditative riguardo l’orizzonte di senso a cui essi fanno riferimento. 

Nell’insegnamento tradizionale si considerano tre parti tra loro interdipendenti: la Visione filosofica riguardo la natura della realtà; la Meditazione che trova il suo significato a partire dalla visione la quale, a sua volta, si approfondisce sempre più tramite la meditazione stessa; e l’Azione che va a rinforzare in ogni circostanza della vita i frutti della meditazione e della visione. 

Per scorgere similarità autentica o differenza tra meditazione tradizionale e contemporanea dovremo quindi osservarle entrambe sotto il profilo di Visione, Meditazione e Azione. 

Iniziamo il nostro esame prendendo in considerazione la visione: a quale Visione filosofica ognuna delle due vie di pratica meditativa fa risalire la pratica della meditazione? Quale visione dell’essere umano troviamo sullo sfondo dell’una e dell’altra? 

1. Il gioiello prezioso 

La visione filosofica nel Dharma, pur nelle differenze di elaborazione nei tempi e nelle varie scuole è una sola: la visione della Vacuità, l’assenza di sostanzialità, permanenza, autonomia nei fenomeni interni ed esterni o, in altri termini, la visione dell’interdipendenza del tutto. 

A partire da questa prospettiva filosofica, quale è l’orizzonte in cui il vivente è posto? 

Nell’insegnamento delle Quattro Nobili Verità del buddismo il vivente emerge come quell’essere che ha la possibilità di uscire dalla situazione di sofferenza, Duhkha, e accedere a una dimensione di consapevolezza libera e illimitata. 

Nell’elaborazione filosofica del Dharma insegnato duemilaseicento anni or sono dal Buddha Sakyamuni in India, si è giunti – a partire da premesse già presenti nell’insegnamento originario – alla formulazione di un concetto chiave: il Tathāgatagarbha, il seme del Risveglio o Natura di Buddha, il potenziale dell’illuminazione che è da sempre presente in tutti gli esseri viventi.

Se non fosse già presente nel vivente il potenziale del Risveglio, la Natura di Buddha, allora non sarebbe possibile risvegliarsi dal sonno dell’ignoranza e realizzare lo stato al di là della sofferenza. In altri termini: se il divino non giacesse al fondo dell’essere umano, non potremmo mai realizzare la natura divina in noi. 

Qualora ci si chiedesse se gente sofferente come noi potrà mai raggiungere, con i propri sforzi, quest’insuperabile illuminazione liberandosi così dal Samsara che è per sua natura smarrimento, possiamo rassicurarci ricordando che, se l’illuminazione può essere ottenuta con duro lavoro, essa è necessariamente alla nostra portata: poiché in tutti gli esseri, come in noi, è presente la motivazione di Buddha, il Tathāgatagarbha. 

Il Tathāgatagarbha qui è chiamato “motivazione” nel senso di una spinta verso uno scopo, un dinamismo che muove verso qualcosa, il dinamismo evidenziato anche nella traduzione “seme del Risveglio”: un potenziale che muove verso il conseguimento del Risveglio. 

L’essenza dell’Illuminazione, la Natura di Buddha è inerente ogni essere vivente, è onnipervadente come lo spazio, potenziale di risveglio da sempre presente, unica garanzia che il passaggio all’altra riva – il Nirvana – sia realmente possibile. 

Naturalmente, nella visione filosofica che è propria del Buddhadharma il potenziale del Risveglio, la natura ultima o Natura di Buddha, non è da intendersi come qualcosa di sostanziale: esso è onnipresente in tutti gli esseri in quanto Vacuità. 

Non ci addentriamo oltre in difficili riflessioni filosofiche, teniamo soltanto presente alla mente che, per il Buddhadharma, ogni essere è permeato dalla Natura di Buddha, la quale, in quanto Vacuità, è onnipresente. 

Tradizionalmente, nel Buddhadharma vengono descritte tre differenti fasi in cui la Natura di Buddha può trovarsi nell’essere vivente. 

Non è la Natura di Buddha a cambiare in qualche modo passando da una fase a un’altra: essa è descritta come immutabile, senza cambiamento da sempre, onnipervadente come lo spazio che ovunque è sempre uguale a se stesso. La Natura di Buddha è da sempre libera da oscurità, non è inquinata dalle macchie avventizie che la velano, così come un gioiello resta un gioiello prezioso anche se sommerso dall’immondizia. 

Ciò che passa attraverso tre stadi è piuttosto la rivelazione, lo svelamento dell’essenza illuminata nell’essere vivente: i tre stadi non implicano tre differenti modi di essere della Natura di Buddha ma indicano tre modalità differenti in cui essa viene percepita e manifestata nei viventi. 

Ricordiamo cosa significa il vocabolo, tradotto in genere con “sofferenza”, Duhkha: spazio ostruito, bloccato che, attraverso la pratica del sentiero insegnato dal Buddha, può ritrovare la dimensione di armonia, pace, felicità, Sukha, grazie alla completa cessazione di tutte le distorsioni che lo ostacolano. Questo “spazio” nell’elaborazione filosofica dei secoli successivi è stato anche definito “Natura di Buddha”, la nostra autentica natura che è immutabile come lo spazio: il Dharma insegna la via per riportare alla luce la nostra autentica natura che è da sempre, come lo spazio, libera da qualunque impurità ma è purtroppo quasi sempre nascosta alla normale percezione. Non perché voglia di per sé nascondersi, ma perché – a causa di tutti gli ostacoli che i viventi frappongono alla possibilità di incontrare la natura autentica – è per essi estremamente difficile iniziare a intravederla. 

Nel Buddhadharma, dunque, si parla di tre differenti modalità nello svelamento della Natura di Buddha inerente ogni vivente: tali tre modalità dipendono essenzialmente da quanto il potenziale del Risveglio sia stato liberato da ciò che lo ostacola o, al contrario, da quanto esso sia sommerso dall’ignoranza generatrice dell’illusione e della sofferenza. 

Le tre situazioni possibili sono: la prima di totale oscurità, in cui il seme del Risveglio è totalmente sommerso; nella seconda situazione la Natura di Buddha comincia ad apparire alla coscienza, il seme inizia a germogliare e la consapevolezza di ciò che siamo al fondo di noi stessi inizia a farsi strada, e, infine, la terza modalità è il completo Risveglio dell’essenza di Conoscenza e Amore che è la Natura di Buddha, la sua completa liberazione dai veli che la oscuravano. 

Per quanto riguarda la fase in cui la Natura di Buddha è completamente oscurata, essa è spiegata nei testi buddhisti per mezzo di analogie. Ad esempio: «Nel sottosuolo della casa di un uomo povero c’è un inesauribile tesoro sepolto, né l’uomo povero potrebbe saperlo, né il tesoro potrebbe dirgli “Sono qui!”». Anche se sotto la sua casa giace un tesoro, quest’uomo vive una situazione di povertà poiché ne è inconsapevole e, finché non lo scoprirà, nulla potrà liberarlo dallo stato di povertà. «Allo stesso modo, sebbene gli esseri viventi possiedano il potenziale del Risveglio, essi continueranno a sperimentare sofferenza finché la Natura di Buddha non sia realizzata». 

Questa è la situazione in cui, secondo il Buddhadharma, ordinariamente gli esseri umani vivono: ignari dell’immenso potenziale che li abita, inseguono effimere speranze di felicità e di pace cercate in oggetti esteriori di vario genere, sperimentando delusione e sofferenza e una continua sensazione di deprivazione, di essere privati di qualcosa di essenziale… da ciò riparte incessantemente la ricerca dell’oggetto che si spera sarà salvifico, in un circolo vizioso che soltanto la scoperta della ricchezza già presente spezzerà in modo definitivo. 

Un altro esempio paragona la Natura di Buddha a un seme: anche un seme molto piccolo può dar vita ad un albero molto alto. Osservando il seme noi non ci rendiamo conto dell’albero che sarà, tuttavia nel seme esso è già potenzialmente presente. «Allo stesso modo, molte qualità giacciono addormentate nell’essenza illuminata, ma al presente non sono riconosciute». 

Dunque, un tesoro sepolto e ignorato, un seme di cui non si vede attualmente il frutto pur esistente in potenziale: due tra le diverse analogie che l’insegnamento del Buddhadharma usa per mostrare come la condizione umana ordinaria per lo più sia avvolta dal buio dell’ignoranza dell’autentica Natura – il potenziale di pace, conoscenza, felicità, amore e compassione – che È al fondo di ogni essere vivente. 

In questa situazione, in cui la Natura di Buddha è oscurata dall’errata percezione che ci fa scambiare per Reale ciò che tale non è, si genera il groviglio di sofferenze individuali e collettive che caratterizzano l’esistenza dei viventi. 

Il passaggio alla seconda condizione si ha nel momento in cui alla coscienza, anche solo per un istante, inizia a baluginare lo splendore di una condizione “altra”, diversa dall’abituale oscurità: il seme inizia a germogliare, il tesoro sepolto è intravisto, secondo la bella metafora Evangelica (il cui insegnamento in tal senso non è dissimile dal Buddhadharma): «Il Regno dei Cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo che un uomo, trovatolo, nasconde; poi tutto contento va a vendere tutto ciò che possiede e compra quel campo». 

La Realtà infinitamente altra viene scoperta come l’autentica Natura, un’identità aperta e libera dalla piccola identità egoica a cui si era fino a quel momento attaccati, e inizia così la fase in cui l’essere umano – non più “ordinario” nel senso di accecato dall’ignoranza – lavora per portare sempre più alla luce l’autentica Natura, il potenziale del Risveglio.

Qui si pone il vero significato della sadhana, la disciplina spirituale costituita dalle istruzioni tramandate da ininterrotti lignaggi di Maestri che, pur nella molteplicità di tecniche, ha come obiettivo unico la liberazione dello stato primordiale, la Natura di Buddha, dagli ostacoli che ne impediscono la manifestazione nell’essere umano. 

E qui risiede anche la possibilità di libertà che l’essere umano possiede: se la Natura di Buddha, il Risveglio come esperienza del fondamento assoluto, è già presente nella nostra ordinaria esistenza, benché oscurata e velata dalle dinamiche della coscienza dualista, questo è il fondamento della nostra libertà, la sorgente di qualità positive in quanto libere dal condizionamento egoico. 

Tutto ciò non è soltanto un bel discorso che riguarda mondi lontani o persone eccezionali vissute tempo addietro: anzi, riguarda tutti noi, oggi nel nostro presente. Lo dimostra il fatto che scorgere anche solo per un istante il “tesoro” di solito velato da detriti di varia natura è un’esperienza se non comunissima però abbastanza diffusa: molte persone hanno occasione di sperimentare talvolta – anche solo una volta – uno stato interiore del tutto diverso dall’ordinario, un’apertura senza confine, un senso di unità con un Tutto vivente, onnipervadente e sempre Presente. 

Chi è stato tanto fortunato da poter scorgere per un momento la Realtà come è, ha poi la responsabilità verso sé stesso, e non solo, anche verso tutti gli altri suoi simili, di non arrestarsi a quell’unica esperienza ma di mettersi al lavoro per allargare il piccolo spazio che si è aperto, tenerlo aperto, impedire che si richiuda condannando all’oblio la dimensione appena intravista, dimensione che è potenziale di felicità per sé e per gli altri, date le qualità di bellezza, saggezza, amore, compassione, gioia, coraggio, creatività che le sono di ornamento. 

Quando la Natura di Buddha – il Regno dei Cieli, l’Isola Incomparabile del Nirvana – è scorta per un istante nel fondo di sé, come il tesoro sepolto che appare lavorando in un campo, allora è richiesta una scelta: gettare qualche palata di terra e ricoprire il tesoro lasciandolo nascosto nel campo, continuando la solita vita come se niente si fosse intravisto, oppure dedicarsi all’opera di portarlo alla luce, lasciando da parte tutto il resto? 

Questa scelta è un atto di libertà, è una decisione, caratterizzata da fiducia e coraggio, che introduce alla sadhana, il lavoro su di sé che non si arresterà fino alla perfetta attualizzazione del potenziale del Risveglio. 

E si arriva così, infine, alla terza condizione in cui si può trovare la Natura di Buddha: il Risveglio perfetto delle qualità di Conoscenza e Amore, lo svelamento dello stato da sempre esistente al di là della percezione dualista. 

Riguardo la Natura di Buddha, la condizione che auspicabilmente dovrebbe riguardarci è la seconda. 

Infatti la prima, totale inconsapevolezza e oscurità, non permette alcuna scelta verso un mutamento e, in questo senso, è assenza di libertà, esistenza agíta da condizionamenti sorti dall’ignoranza primordiale che vela e nasconde l’essenza autentica del Reale. 

La terza situazione in cui si può trovare la Natura di Buddha, il totale disvelamento, il Risveglio perfetto della potenzialità inerente l’essere vivente, è la condizione del Risvegliato, del Santo, di colui che esiste e opera per il bene altrui. 

La seconda situazione, in cui la Natura di Buddha, l’essenza illuminata, è in parte vista ma in parte ancora nascosta, è la situazione in cui viene a trovarsi ogni ricercatore spirituale, a qualunque Via appartenga, che sia impegnato in un percorso di svelamento dell’Essere, un percorso di purificazione e liberazione dell’oro dal fango che lo ricopre. Secondo la metafora del ripulire l’oro dal fango, la sadhana consiste in un processo di eliminazione incessante. 

Eliminare ciò che ostruisce lo svelamento della Natura di Buddha inerente ogni vivente ma nascosta come da un velo di polvere: l’eliminazione dell’attaccamento alla visione egoica, il distacco dall’identità limitata e limitante che è scambiata per unica realtà di sé. 

La Natura di Buddha si svela soltanto quando si solleva il velo dell’ignoranza che ci fa scambiare per realtà l’illusione. Secondo gli insegnamenti buddhisti, a causa del velo dell’ignoranza fondamentale e del conseguente errore cognitivo che vede la realtà dove non c’è e non vede l’autentica Realtà, sorgono la visione dualista, le emozioni distruttive e infine le azioni generatrici di sofferenza per sé e per gli altri, tutta la dinamica di appropriazione ed egocentrismo con cui l’essere umano, quando reso cieco dall’ignoranza, si rapporta all’esperienza. 

Lo svelamento della Realtà autentica che splende in ogni vivente è dunque – nel Buddhadharma come in ogni autentica Via sapienziale a Oriente e ad Occidente – il senso e il motivo per impegnarsi in un percorso di ricerca interiore, seguendo la faticosa e stretta via del lavoro su di sé, sollevando a poco a poco ogni velo, ogni ostruzione per aprire la porta sull’infinito, sull’oltre, sullo spazio al di là dei limiti della piccola fortezza in cui l’ego vive rinchiuso, prigioniero delle proiezioni mentali create da attaccamento e paura. 

La pratica spirituale della meditazione in ambito buddhista, dunque, rimanda a una visione filosofica in cui abbiamo due ordini di realtà – realtà relativa, del mondo e realtà assoluta, non del mondo – e, di conseguenza, l’essere vivente è inteso su due piani: il piano relativo, costituito dall’individualità illusoria, restando attaccati alla quale si perpetua la sofferenza personale e collettiva, e il piano assoluto dello stato Risvegliato, al di là dell’individualità illusoria. 

A questi due piani corrispondono dimensioni di consapevolezza differenti: alla realtà relativa corrisponde una consapevolezza che conosce per frammenti, costruiti attraverso le proiezioni egoiche di desiderio e avversione; alla realtà assoluta corrisponde la dimensione di consapevolezza che riconosce l’essenza di ogni manifestazione. 

Un esempio tradizionale paragona la dimensione della consapevolezza frammentaria alla situazione di chi viva in una fortezza: costui conoscerà il mondo soltanto attraverso le strette feritoie della fortezza. Attraverso questa visione a frammenti e sulla base delle proprie paure o dei suoi desideri questo individuo si costruirà un’idea del mondo là fuori. 

Cadendo i muri della fortezza, la consapevolezza diverrà ampia, senza limiti, vedrà la realtà per quello che è: cadranno il senso di separazione, il senso di isolamento e con esso l’idea di doversi difendere. 

Anche questo è soltanto un esempio, un tentativo di mostrare quella condizione illimitata che è propria della dimensione risvegliata, libera dal sogno e dalle sue illusioni. 

Il cammino spirituale così è compreso come la possibilità del passaggio dallo stato illusorio impregnato di sofferenza allo stato risvegliato libero da ogni forma di sofferenza. 

Questa stessa visione filosofica sottende altre grandi Vie spirituali, e la si riscontra nelle parole di mistici orientali e occidentali allo stesso modo. 

La pratica meditativa proposta a partire da questa visione filosofica che indica come meta la liberazione dalla sofferenza o, meglio, l’autoliberazione di ciò che era ostruito – l’essenza autentica –, è una metodica che nasce dalla piena realizzazione di Maestri Risvegliati, e viene trasmessa in modo ininterrotto attraverso millenni, passando di maestro in discepolo fino ad oggi. 

Antonio Sanfilippo, Senza titolo (1966) – Olio su tela – Asta Pananti in corso

2. La prospettiva bidimensionale 

Venendo adesso a considerare la visione sottesa alla meditazione laica contemporanea, essa appare centrata su un’idea di essere umano bloccato per lo più nella prima delle fasi che abbiamo visto sopra: una fase in cui si scambia per reale ciò che reale non è e non si scorge la possibilità di uscire da questa gabbia, nemmeno ci si chiede se esista una possibilità diversa. Si tratta della situazione, vista sopra, dell’uomo povero che non sa di possedere un ricco tesoro nel sottosuolo della sua povera casa, e così continua a vivere in stato di privazione. Quest’uomo, possiamo immaginare, magari cercherà modi per star meglio, essere meno bisognoso, ma nessun modo darà quella definitiva ricchezza che produrrebbe l’estrazione del tesoro che sta nelle fondamenta di casa sua. 

Le varie offerte di protocolli di mindfulness che vengono proposti secondo un’ottica laica, avulsa da contesti religiosi, filosofici e sapienziali, hanno come obiettivo una migliore capacità di gestire lo stress, l’acquisizione di un miglior benessere personale, di una migliore capacità di concentrazione, di una maggior efficacia nel lavoro, di una vita relazionale più soddisfacente, o altri conseguimenti simili. Alcune persone praticano meditazione, ad esempio per abbassare la pressione del sangue, o per combattere stati depressivi o ansia ma, con le parole del monaco Theravada Ven. Panna Sara: 

La meditazione può aiutare la gente in molti modi, sì, ma il suo obiettivo è oltre il semplice far fronte ai problemi che si incontrano. E questo è qualcosa che la gente deve ancora capire. […] La meditazione non è per ridurre lo stress ma per comprendere la sofferenza e la cessazione della sofferenza. 

La meditazione viene oggi proposta come un modo eccellente per superare problemi e difficoltà contingenti: l’immenso infinito potenziale del Risveglio resta ben nascosto, e tuttavia chi segue istruzioni di mindfulness si convince di star camminando verso pace interiore, felicità, gioia… 

Purtroppo questi stati positivi – quand’anche succedesse a qualcuno particolarmente predisposto di poterli sperimentare – saranno stati emotivi momentanei, sperimentati per un momento più o meno lungo, ma mai confondibili con la pace dell’autentico Risveglio. 

Con un’immagine buddhista tradizionale: si tratta di esperienze simili alla nebbia che a tratti si alza e poi ritorna, mentre il Risveglio definitivo è come il sole che risplende senza nubi. 

Ciò dipende essenzialmente dal fatto che la visione che sta dietro l’offerta di corsi di mindfulness è una prospettiva piatta: non prevede un passaggio a un piano ulteriore, diverso da quello ordinario, non immagina, o non vuole prendere in considerazione, che esista una simile possibilità.

È una visione triste, che postula un essere umano bidimensionale, un insieme psicofisico dove ciò che comanda è la materialità, sia pur travestita per vender meglio il prodotto a persone che, comunque, forse, più o meno consapevolmente aspirerebbero a un passo fuori dal buio. Cercando la luce del sole, purtroppo incontrano venditori di candele! 

La visione filosofica, brevemente descritta, che fa da sfondo alla pratica tradizionale buddhista – e a ogni altra visione sapienziale – si rivolge invece a un essere umano a tre dimensioni. La terza dimensione, lo spirito, è l’unica che ha la facoltà di dirigersi verso la luce e, alle opportune condizioni, ha la possibilità di ricevere la Luce, il Risveglio, diventare Luce, trascendendo la materialità egoica e divisiva.

Ogni pratica meditativa o ascetica autentica, in ogni Via di ogni tempo e luogo, ha l’obiettivo di “ripulire l’oro dal fango”: lasciare spazio alla possibilità di rivolgere lo spirito verso la luce, eliminando l’attaccamento all’illusione con tutte le sue conseguenze creatrici di conflitto e sofferenza. 

Nello stato di coscienza ordinario si vive in base al desiderio di soddisfazione e piacere e al suo opposto, il rifiuto di ogni forma di non soddisfazione: purtroppo questo atteggiamento, come mostra la vita di tutti ogni giorno, non produce soddisfazione sicura e permanente. 

Gli insegnamenti tradizionali – di cui il Buddhadharma è eminente esempio – ripetono che la soluzione sta nel volgere lo sguardo più in alto, verso un’altra possibilità: lasciare l’attaccamento egoico che appesantisce l’essere umano e fare i passi necessari per ritrovare la “patria” spirituale. 

In filigrana si intravede una visione filosofica che apre alla speranza, una visione davvero ottimista per la quale la situazione umana – pur di sofferenza – non è mai disperata anzi, essa può aprirsi a un Oltre, descritto in molti modi, con molte parole e tanti esempi e parabole. 

In ottica tradizionale, quindi, entrare su una via di pratica e di meditazione ha il significato di voler uscire dal cerchio ripetitivo della cieca sofferenza, e mai di “stare un po’ meglio”, accomodandosi meglio all’interno dello stesso cerchio. 

Nell’Introduzione al suo bel libro Non lasciare tracce, Ken McLeod, praticante e insegnante da molti decenni di Dharma buddhista, avvisa il lettore: 

Questo libro tratta di una consapevolezza che va al di là della mente concettuale e come tale si rivolge ai praticanti di molte tradizioni contemplative, dallo zen al sufismo, da Lao Tsu a Meister Eckhart. Se pensate che questa consapevolezza vi renderà migliori, o che migliorerà la vostra vita, allora vi consiglio di chiudere subito il libro e di gettarlo via. Né questo componimento né questa consapevolezza hanno molto a che fare con la mentalità utilitarista che sembra pervadere la vita moderna, una mentalità che […] vede ogni interazione umana come niente più che una transazione, ogni atto di gentilezza come un prestito, e ogni trasgressione morale come un debito da ripagare.  Che venga descritta come un risveglio o come una pace profonda, questa consapevolezza dischiude un’intensa libertà. 

È davvero una visione triste quella che non esce dalla prospettiva ordinaria e dalla mentalità mercantile del mondo occidentale contemporaneo. 

Si tratta sempre di acquisire, consumare, produrre: acquisisco una tecnica (facendo un investimento di tempo e denaro), la mastico consumandola rapidamente ogni giorno, e produco un risultato di benessere. 

Questa visione sorregge l’attuale tecnica meditativa laica che – benché pubblicizzata con termini entusiastici e talvolta enfatici – non permette poi realmente di uscire dalla gabbia in cui l’essere umano è rinchiuso dalle sue stesse illusioni… di cui la principale è l’idea “io sto facendo qualcosa per essere più felice”.

Non c’è nessuno che sta facendo qualcosa, non c’è nulla da fare se non eliminare, rilassare l’ansia di acquisire un nuovo metodo, sciogliere l’aggrapparsi a una illusoria speranza di benessere. 

La meditazione che sia priva di una visione filosofica aperta all’oltre rispetto al piano ordinario non può essere liberatrice, non solo rispetto al dolore inerente l’esistenza, ma nemmeno da contingenti sofferenze se non, al massimo, per brevi periodi e comunque al prezzo di aggiungere nella mente una nuova illusione. 

Può darsi che sembri più confortevole seguire una pratica meditativa che ha come obiettivo un semplice benessere ordinario, forse più raggiungibile che non una profonda trasformazione realizzata a prezzo di un cammino faticoso e dell’abbandono delle nostre illusioni. 

L’immensità rischia di spaventarci e, pensiamo, ci è più che sufficiente un po’ di conforto esteriore e interiore. Può darsi anche che noi non siamo consapevoli di valere ben di più. La via spirituale ci annuncia tuttavia questa meravigliosa notizia: noi meritiamo molto di più, infinitamente di più che qualche goccia di benessere e sarebbe davvero un peccato che noi ce ne accontentassimo. 

Il Regno dei Cieli è dentro di noi, la nostra natura è “risvegliata” o “divina”. In un certo senso, questa natura divina ci chiama incessantemente perché la raggiungiamo. Tuttavia, noi le rispondiamo gentilmente: “Grazie, molto gentile, ma adesso io sono occupato con il mio piccolo benessere personale. Anzi, proprio ora ho una sessione di meditazione”. “Perché no? riprende lei. Ma non dimenticare di andare più oltre”. Troppo tardi, abbiamo già chiuso la porta e non la ascoltiamo più. (Lama Cheuky Sengue, Introduction, in La Méditation spirituelle ) 


Raffaella Arrobbio, psicoterapeuta e studiosa del Dharma Buddhista, è entrata, a partire dalla metà degli anni Ottanta, nel percorso di studio e pratica meditativa buddhista tradizionale sotto la guida di qualificati Maestri della scuola Karma Kagyu del Buddhismo Tibetano. Ha pubblicato i libri: Il Tesoro Nascosto – Le vie al benessere interiore (Torino, 2001); Gesù e Buddha in dialogo – Saggezza e Amore nel Buddhadharma e nei Vangeli (Firenze, 2016).

2 comments on “Cosa distingue meditazione e mindfulness?

  1. Bernardo Romiti

    Siccome la mindfulness ha un effetto tenue e non punta al bersaglio grosso, non serve a niente anzi è dannosa. Ma a chi brancola nel buio anche in venditore di candele può essere utilissimo. Da quello che si legge la mindfulness sembra funzionare a livello di prevenzione di stress lavoro correlato e di burnout: anche se intuisco dall’articolo che queste legate al lavoro sono cose volgari ed ininfluenti per chi punta al nirvana. Comunque ci sono insegnanti di mindfulness che sono buddhisti e che usano la mindfulness come livello zero, lanciando lateralmente un seme o una allusione per far capire che c’è altro oltre al metodo. Poi sarà il discente che liberamente deciderà se approfondire altrove il percorso oppure no. Quindi magari è decisiva la lungimiranza o la fortuna di scegliere un insegnante di mindfulness che non sia solo quello ma che sia anche un sanitario (psicologo o psichiatra) o un maestro buddhista non fondamentalista come quelli indicati nel testo.

  2. Valter

    Molto interessante, grazie. Credo che abbiamo bisogno di obiettivi tangibili e che, passo dopo passo, ci portino a una meta. Per esperienza, o per sentito dire, dobbiamo confrontarci anche con la possibilità di essere manipolati da gruppi il cui interesse è il benessere materiale: sette varie di cui esistono abbondanti ricerche.

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