Cosa hanno in comune preghiera e respirazione?



La risposta potrebbe essere: 5,5 secondi. Almeno secondo gli studi sul respiro di James Nestor, che trovano un perfetto contraltare nella meditazione orientale e l’esicasmo cristiano.


In copertina un’opera di Stanisław Ignacy Witkiewicz

di Adriano Ercolani

Se il vostro compagno viene a dormire con del nastro isolante sulle labbra, a mo’ di baffetti alla Charlot o se i vostri amici si aggirano da giorni con le narici tappate di gommapiuma o carta igienica, non preoccupatevi. Non hanno smarrito il senno.

Hanno semplicemente letto L’arte di respirare di James Nestor (edizioni Aboca). Un libro che, dalla sua uscita nel marzo scorso, sta facendo “impazzire”, in più sensi, alcuni tra i ricercatori più aperti della bolla intellettuale nostrana.

Il motivo è più che comprensibile: il libro è scritto in maniera sapiente, coniugando uno stile accattivante con innegabili capacità divulgative, il racconto autobiografico con dotte ricognizioni nella storia della filosofia orientale, il gusto dell’aneddoto con l’indagine terapeutica. Una lettura che è non è forzato definire coinvolgente, non solo perché le pagine si divorano in poche ore, ma perché richiede, in un certo senso pretende, una partecipazione empirica, quasi simbiotica del lettore alle esperienze narrate.

Di cosa parla L’arte di respirare è presto detto: James Nestor, giornalista scientifico per testate come il New York Times e l’Atlantic, ha inteso indagare sul più necessario, e forse per questo scontato, dei processi vitali, ovvero la respirazione. 

Nestor ha rivelato che l’ispirazione per quest’opera, e prima ancora per il lungo percorso di studio di cui è frutto, gli è venuta osservando gli apneisti, in grado di trattenere il respiro per cinque, sei, sette, minuti, immergendosi a oltre 100 metri nelle profondità marine.

Da qui è scaturita l’intuizione che è alla base del libro: cosa accadrebbe se esplorassimo le risorse che una respirazione corretta e consapevole può offrirci?

Un’opera di Gertrude Honzatko-Mediz

Al termine di numerosi anni di studio, interviste a esperti, approfondimenti su antiche fonti sapienziali e  soprattutto esperimenti diretti (e in alcuni casi arditi), Nestor è arrivato alla più spiazzante delle conclusioni: la funzione del corpo che diamo più per scontata nella nostra esistenza è, in realtà, un “superpotere”.

Qualcosa di sorprendente, almeno per il grande pubblico. 

Dopo anni di ricerche, condotte non solo nelle biblioteche ma soprattutto sul campo, l’autore è giunto alla conclusione che il nostro modo di respirare è scorretto e dannoso, con ripercussioni sulla nostra salute, fisica e mentale, sul nostro umore e addirittura sul nostro peso. 

Nestor ha incontrato, di persona o nei suoi studi, una lunga serie di ricercatori da lui definiti “polmonauti”, raccogliendone le intuizioni in tutto il mondo: un chirurgo in tempo di guerra, un atleta olimpico, un insegnante di canto corale, un allenatore di nuoto, un cantante lirico, un parrucchiere, un monaco buddista o un maestro di yoga, figure completamente diverse dal cui contributo viene estratta una tessera preziosa del suggestivo mosaico che compone L’arte di respirare.

Il concetto di fondo è semplice: cambiare il nostro modo di respirare può fortificare il nostro sistema immunitario, influire positivamente sul sistema nervoso e migliorare la nostra salute, anche nei modi più impensabili (non solo guarire l’asma, ma anche curare la psoriasi e perfino la scoliosi).

Un libro, come ha scritto Danilo Zagaria sulla Lettura,“squisitamente ibrido”, che attraversa con disinvoltura culture, epoche e approcci diversi. Come sottolinea Zagaria: «il viaggio dell’autore, ricco di esperienze in prima persona, parte infatti dalla fisiologia del nostro sistema cardio-respiratorio per arrivare a esplorare le tecniche meditative basate su inspirazione ed espirazione che sono state sviluppate nel corso di migliaia di anni, soprattutto in Oriente.”.

In questo risiede il suo fascino, la sua innegabile utilità e, anche, alcune possibili insidie.

Uno dei pregi del testo è sicuramente il rigore scientifico, dote quasi sconosciuta nella letteratura più diffusa sul tema: troppo spesso gli entusiasmi di certa New Age hanno portato a una diffusione indiscriminata di tecniche complesse, decontestualizzate dai percorsi meditativi in cui trovavano il loro pieno senso.

Questo fa sì che anche il lettore più scettico o cauto rispetto alle commistioni ardite che spesso si celano dietro la larga e ambigua definizione di “approccio olistico”, possa seguire con fiducia e interesse lo sviluppo delle argomentazioni di Nestor.

Anche perché l’autore, con lo spregiudicato pragmatismo tipico di certe indagini d’assalto americane, ha avuto il coraggio di sottoporsi in prima persona agli esperimenti, anche quelli più apparentemente rischiosi, che sono oggetto della sua riflessione.

L’esperienza più bizzarra e convincente è sicuramente quello accennata all’inizio, ovvero l’adesione a un esperimento informale condotto dall’università di Stanford, consistente nel tapparsi artificialmente le narici per dieci giorni, sotto controllo medico

I risultati iniziali sono stati inquietanti: nausea, ansia, pressione schizzata oltre i limiti di guardia, aumento del peso, sonno inquieto. La fase successiva, consistente nell’operazione inversa, ovvero imporsi una respirazione esclusivamente nasale, ha ripristinato in brevissimo tempo i valori normali, dimostrando l’assioma che è alla base della testimonianza di Nestor: non possiamo nemmeno immaginare quanto sia dannoso respirare con la bocca.

Per questo duplice pregio, affidabilità scientifica e sperimentazione in prima persona, le tesi proposte assumono una indiscutibile plausibilità anche agli occhi del lettore più sospettoso.

Il libro è, dunque, di notevole interesse per questi due motivi principali: la possibilità di applicazione pratica (con i previsti benefici) degli esercizi descritti (anche se qui sarà necessario un chiarimento); l’interesse che desta il confronto tra tecniche di varie epoche e culture, con uno sguardo laico del tutto distante dal sincretismo iniziatico di certa Tradizione.

Per ciò che riguarda il primo punto, nonostante la responsabile cautela con cui Nestor affronta il tema, terrei a sottolineare come alcune tecniche yogiche di respirazione abbastanza complesse debbano essere sperimentate solo sotto la guida di un maestro esperto.

Come il tummo, ad esempio: un esercizio di Hatha Yoga, molto diffuso in nel buddismo tibetano grazie a Milarepa,  volto a sviluppare calore interno attraverso delle respirazioni controllate, progressivamente sempre più vigorose.

 Ricordo con affetto una conversazione di molti anni fa col compianto Grégoire De Kalbermatten, ricercatore coltissimo e senza dogmi con quasi cinquant’anni di esperienza meditativa (segnalo un suo delizioso racconto di ispirazione tolkieniana, credo disponibile solo in inglese, The Legend of Dagan Trikon), che mi metteva in guardia dall’avventurarmi senza discernimento in simili sperimentazioni.

Per ciò che riguarda, invece, lo sguardo trasversale e spontaneamente sincretico di Nestor, le pagine più interessanti sono senza dubbio quelle che riguardano la preghiera.

Ecco una delle “scoperte” (già nota agli addetti ai lavori) su cui l’autore si sofferma:  il rosario cattolico, i mantra buddisti e quelli indiani, le preghiere degli indiani d’America condividono lo stesso ritmo di respirazione, un andamento lento, ipnotico, “magico”.

Ma non è una mera suggestione, è un dato scientificamente misurabile: 5,5 secondi di inspirazione e il medesimo tempo di espirazione.

Sarebbe questo, per uno sguardo concreto e materialista, il segreto della pace e dell’estasi: il ritmo rallentato della respirazione conduce a una profonda armonia psico-fisica.

Leggiamo direttamente Nestor: «Un’ultima parola sulla respirazione lenta. Ha anche un altro nome: preghiera. (…) Nel 2001 i ricercatori dell’università di Pavia hanno radunato una ventina di soggetti, li hanno coperti di sensori per misurare il flusso sanguigno, la frequenza cardiaca e il feedback del sistema nervoso, poi hanno chiesto loro di recitare un mantra buddhista, oltre alla versione originale latina del rosario, il ciclo cattolico di preghiera dell’Ave Maria che viene pronunciato metà dal prete e metà dalla congregazione. Con loro stupore hanno scoperto che il numero medio di respiri per ogni ciclo era quasi “esattamente” identico” (…) Un decennio dopo i test di Pavia, due rinomati professori e medici di New York, Patricia Gerbarg e Richard Brown, hanno sperimentato lo stesso schema di respirazione su pazienti con ansia e depressione, senza la preghiera. (…) I risultati erano inequivocabili».

Dunque, l’autore conclude: “La preghiera guarisce, soprattutto quando è praticata a 5,5 respiri al minuto.”.

Frase che potrebbe scandalizzare i credenti più fanatici, ma che apre invece un interessante ponte di dialogo sulle pratiche meditative anche con gli scettici più irriverenti.

L’accostamento tra diverse tradizioni spirituali, sulla base del ritmo della preghiera, non è certo inedito, pensiamo all’intero ambito di studi della filosofia comparata.

Già nella Bhagavad Gita compaiono precisi riferimenti alla respirazione yogica, già chiamata Pranayama, ancor prima Lao-Tze aveva affermato: “l’uomo perfetto respira come se non respirasse”. Gli farà eco secoli dopo Galeno, in una frase che potrebbe stare in calce a L’arte di respirare: “Se dunque la vita dipende dal respiro, per quanto tempo ancora resteremo ignoranti quanto al modo in cui il respiro agisce?”.

Solo sul Pranayama, da Patañjali in poi, sono state scritte migliaia di pagine che raccolgono dati ed esperienze accumulati in secoli e secoli di pratiche accertate. Dunque, non si tratta certo di scoperte inedite. Ciò che è interessante, è lo sguardo razionale e l’abilità divulgativa di Nestor.

Come accennato, nel Novecento si sono moltiplicati gli studi tradizionali in questo senso.

Ricordiamo, ad esempio, un testo di Michel Valsan, Sufismo ed esicasmo (Edizioni Mediterranee, a cura di Claudio Mutti), fondatore della prima ṭarīqa sufi islamicamente ortodossa ispirata agli insegnamenti di René Guénon. Siamo, appunto, in una prospettiva pienamente tradizionale, magari più vicina a Frithjof Schuon che a Julius Evola.

Ma al di là della distanza ideologica dagli autori, si tratta di testi notevolmente interessanti dal punto di vista comparativo. Verrebbe, infatti, spontaneo pensare che, mentre in Oriente “l’arte di respirare” sembra far parte dell’educazione fondamentale di ogni individuo, in Occidente non si sia mai riflettuto abbastanza a riguardo.

Ma non è stato sempre proprio così; non mi riferisco solo, ovviamente, allo sport: ogni atleta sa che il respiro è, in un certo senso, il motore del movimento; parlo di importanti scuole spirituali.

Dalla tradizione dossografica che racconta dell’iniziazione egizia di Pitagora, ovvero quaranta giorni di digiuno sostenuto solo dal respiro, fino agli esercizi di Aïvanhov, passando per le estasi di Teresa d’Avila e la scuola gnostica di Konya, il tema è stato sempre presente nelle esperienze testimoniate da “I Mistici dell’Occidente”. Uso un’espressione zolliana, perché fu proprio Elémire Zolla, nell’imponente antologia intitolata proprio in quel modo, a proporre un’interpretazione della più oscura delle beatitudini evangeliche (“Beati i poveri di spirito”) proprio fondata sulla tecnica della respirazione diaframmatica tipica dell’esicasmo: “A considerare la teoria mistica della respirazione s’intende pneuma anche in senso letterale: poveri di spirito, di fiato, sono coloro che per una gran risata o un profondo pianto, hanno espirato completamente e non hanno, immagazzinato fiato dentro di sé”. Un’intuizione “che colpisce dritto al cuore”, come ricorda Silvia Ronchey in un suo articolo a riguardo.

L’esicasmo è sicuramente, nella storia del Cristianesimo, la tradizione più illuminante sull’uso consapevole della respirazione per indurre stati di coscienza “superiori”.

Diffuso fin dal IV secolo tra i Padri del Deserto, che si dedicarono alla via ascetica per vivere, appunto, nelle zone desertiche di Egitto, Palestina e Siria,  e divulgata da Evagrio e Giovanni Climaco, l’esicasmo trova uno dei suoi testi principali di riferimento nella Filocalia, una folgorante antologia di testi mistici dell’ascesi ortodossa, pubblicata a Venezia nel 1782 da Nicodemo l’Agiorita.

Poco meno di un secolo dopo, la pratica esicastica troverà una grande popolarità grazie alla pubblicazione dei Racconti di un pellegrino russo, libro dall’autore ignoto, che conobbe una straordinaria diffusione internazionale e che testimonia proprio l’influenza spirituale profonda dello studio della Filocalia.

I lettori di Salinger non potranno non ricordare come in Franny e Zoey già la giovane protagonista del racconto intuisca la relazione tra la pratica, tuttora viva presso i monaci del Monte Athos, e le citate tecniche di meditazione orientali.

Sui Racconti di un pellegrino russo, lasciamo la parola alla prosa benedetta dalla grazia divina di Cristina Campo, autrice di una memorabile introduzione all’edizione Rusconi (poi ristampata da Bompiani): «“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”. Questa apertura, tra le più ammalianti della letteratura di ogni paese – comparabile a quella dell’Amleto o della Storia del facchino di Bagdad – inaugura insieme un grande trattato spirituale, un romanzo picaresco, un risplendente poema russo e una fiaba classica. Nel misterioso testo anonimo trascritto sull’Athos dall’abate Paissy del monastero di S. Michele Arcangelo dei Ceremissi presso Kazan’ intorno al 1860, la fiaba per una volta si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo “che è dietro quello vero” soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti.».

Il centro del libro è proprio l’insegnamento della Preghiera del Cuore, fondata sulla sincronia di respirazione, battito cardiaco e recitazione.

Come scrive Campo: «Il racconto del Pellegrino russo non è se non la cronaca della sua stupefatta ed ebbra convivenza con la Preghiera del Nome. È questa la gemma portentosa il cui fulgore protegge il corpo e illumina l’intelletto, disvela cose lontane e ammansisce le fiere, vince tutti i cuori, sazia tutti i bisogni e tramuta tutti i paesaggi. Non solo: è anche una presenza, vivente al punto, e al punto dolcemente imperiosa, che un bel mattino “è la Preghiera a svegliarlo”, e dopo sarà sempre lei a sollecitarlo, a stringerlo nel suo anello di prodigi, nella sua mandorla di beatitudine…»

Tornando al libro di Nestor, l’approccio del tutto laico dell’autore non contraddice, in realtà, le altezze mistiche intraviste da Salinger e descritte da Cristina Campo.

Anni di esperienza e divulgazione in ambito meditativo mi hanno persuaso, in barba a ogni fanatismo, di come un approccio laico ed empirico sia il modo migliore per dimostrare l’autenticità di tali esperienze interiori.

Trincerarsi dietro appartenenze settarie e atteggiamenti apostolici non solo non serve a nulla, ma contraddice in pieno quell’ampiezza di sguardo e quel superamento delle etichette mentali che una reale esperienza meditativa dovrebbe donarci.

E ciò vale tanto per le rigidità dogmatiche di chi è preda di esaltazioni parareligiose, quanto per chi stolidamente continua a negare a priori, in nome di una concezione distorta del laicismo, la realtà e la validità di tali ambiti di ricerca.

L’arte di respirare, dunque, è un testo di grande interesse non solo per l’immediato beneficio pratico che, con discernimento, se ne può trarre, ma perché può sgombrare il campo da una serie di stanchi pregiudizi che hanno indotto la cultura progressista a guardare con sospetto e derisione la ricerca mistica.

Anche perché, come ricorda saggiamente Nestor: «L’evoluzione non sempre significa progresso. Significa cambiamento. E la vita può cambiare in meglio o ín peggio».


Adriano Ercolani (Roma, 1979) Si occupa da oltre vent’anni dei rapporti tra cultura occidentale e orientale, esplorandone le diverse manifestazioni artistiche. Tra i fondatori deI movimento internazionale Inner Peace, collabora al progetto filosofico Tlon e pubblica regolarmente interventi e approfondimenti su numerose testate (tra cui Linus, Blog del Fatto Quotidiano, minima& moralia).

 

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1 comment on “Cosa hanno in comune preghiera e respirazione?

  1. Alessandro

    Complimenti, davvero una bella rivista! Ennesimo articolo interessante e ricco di spunti!

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