Cosa leggere a fine anno, secondo noi



Siamo arrivati a fine 2018, e nel il 2019 L’indiscreto avrà qualche sorpresa, cambiamenti che aspettavamo da un bel po’ e che vi riveleremo con calma. Intanto però, come nostro solito, prima di Natale abbiamo riunito le idee per provare a condividere con voi lettori qualche titolo e altre idee di lettura. Sono titoli e nomi che ci piacciono e che pensiamo possano piacere anche a voi, soprattutto se ci leggete da un po’.


In copertina una scultura di Guy Laramee

di Redazione

Qui a L’Indiscreto la si fa solo due volte all’anno, questa riunione delle idee di lettura, poco prima dell’estate e poco prima del natale. Non è una questione di solstizi o di feste religiose e nemmeno un modo per intercettare un hype e avere per qualche giorno dei lettori più numerosi. Semmai è una questione puramente funzionale: arrivano le vacanze e, anche se non tutti, in molti hanno il tempo di leggere qualcosa che non siano solo le notizie del giorno. D’estate c’è il libro da portare in spiaggia, a fine anno c’è quello da sfogliare davanti al camino, o per avere una scusa valida per isolarsi per qualche ora dal caos dei cenoni e dei pranzi di famiglia.

Per leggere cose lunghe, ben scritte e approfondite, non c’è sempre bisogno di comprare i libri di carta. Online si trovano ebook di tutti i tipi, scaricabili sui lettori, sui tablet o direttamente sullo smartphone. E poi ci sono le riviste di approfondimento. Ma torniamo a noi. Qui di seguito ci sono i consigli della nostra redazione. Ogni consiglio ha una doppia funzione, è un suggerimento su cosa comprare, scaricare o prendere in prestito durante questi giorni di festa, ma è anche un modo per approfondire i temi che solitamente tratta chi li suggerisce A L’Indiscreto infatti scrivono da tempo degli autori che sono diventati quasi dei collaboratori fissi e come sa chiunque segua un autore nel tempo, c’è un filo conduttore in ciò che scrive. E visto che ogni cosa scritta è anche il prodotto di ciò che si legge questi elenchi sono anche un po’ una rivelazione del dietro le quinte. Insomma ogni consiglio, se è sincero, dice qualcosa di chi lo dà.

Comunque sia, qualunque cosa leggerete (se leggerete, che mica è obbligatorio), buona feste da tutti noi.


Francesco Ammannati

Quale migliore occasione del periodo natalizio, coi suoi buoni sentimenti e la sua inarrestabile onda consumistica, per parlare un po’ di capitalismo? Per restare nel clima misterioso e ultraterreno delle Feste, sorprendiamolo nella sua manifestazione più metafisica e insondabile, quella finanziaria. Ci viene in soccorso Alexandre Laumonier con il suo 6|5 – La rivolta delle macchine, Nero Editions, 2018, un libro sorprendente e a un tempo angosciante poiché racconta il presente mettendo subito in chiaro che si tratta ormai di passato prossimo, data l’accelerazione tecnologica di cui il settore finanziario è oggetto negli ultimi anni. Gli indiscussi protagonisti, uno di essi è addirittura la voce narrante dell’opera, sono gli algoritmi che controllano, plasmano, determinano il mercato operando a velocità nemmeno concepibili dagli uomini che gli hanno creati. Scritto col piglio del documentario, 6|5 racconta l’evoluzione dell’high-frequency trading attraverso una girandola di comprimari, dagli “squali” vecchia maniera di Wall Street (impressi nel nostro immaginario, ma solo il retaggio di un passato romantico, se di romanticismo si può parlare trattando di finanza) ai “phynanzieri”, pionieri della fisica applicata ai mercati. Con un incedere trionfale e visionario, Laumonier riesce a persuadere su come l’evoluzione delle capacità di calcolo degli strumenti informatici abbinata all’applicazione della matematica e della statistica finanziaria abbia portato a una cesura col passato di dimensioni inimmaginabili solo fino a pochi decenni fa. Significativa e credibilissima l’ammissione secondo cui “l’ingenuità umana ha fatto sì che, ancora alla fine degli anni Ottanta, nessuno (o quasi) avesse idea di cosa sarebbero diventati i mercati finanziari del XXI secolo”. Non si tratta solo di stupire il lettore sciorinando cifre che fanno vacillare chi non è addentro al mondo spietato del trading ad alta frequenza – come nel caso della “Great Fed Robbery” del 18 settembre 2013 quando tra le 14.00.00 e le 14.00.02 furono scambiati tra le piattaforme americane 1 miliardo di dollari, di cui 400 milioni nei primi 100 millisecondi, o dell’illustrazione della vertiginosa caduta dei tempi necessari alle transazioni nell’arco di una manciata di anni: millisecondi fino al 2011, milionesimi di secondo nel 2013, nanosecondi oggi (o ieri?). Uno dei molti pregi del libro è quello di riuscire a mantenere una continua tensione narrativa, pur trattando di argomenti apparentemente aridi e da specialisti, raccontando in modo convincente l’evoluzione non solo della tecnologia applicata alle transazioni finanziarie, ma anche della tecnica, mi spingerei a dire della mentalità, economica retrostante. Godibilissime sono infatti le incursioni nell’Ottocento, coi suoi finanzieri in frac e l’introduzione del telegrafo, che segnò la nascita del “più grande mercato del mondo”, gli Stati Uniti d’America, e la piena consapevolezza, forse il grande insegnamento che pervade tutto il libro, per cui non solo “time is money”, quanto “speed is money”.

Laumonier getta il filo che conduce alla contemporaneità collocandone il punto di caduta verso la fine del Settecento. Evitando accuratamente di addentrarsi qui nel dibattito secolare sulla nascita del capitalismo, per non parlare di una definizione stessa del termine, mi sembra suggestivo abbinare alla lettura del suo libro un’opera che non vuole raccontarne il presente, ma riepilogarne alcuni aspetti evolutivi. Espansione europea e capitalismo, 1450-1650, Il Mulino, 1999, agile saggio di Fernand Braudel destinato ai giovani universitari e composto nel periodo intercorso tra le sue due opere principali (“Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” del 1947 e ” Civiltà materiale, economia e capitalismo, XV-XVIII secolo” del 1979), rappresenta un’utile sintesi che non solo postula l’esistenza di un “lungo XVI secolo”, ma afferma che proprio in questo periodo venne a strutturarsi il moderno capitalismo. Non dimenticando l’apporto tecnologico, ideologico e organizzativo dei secoli XII-XIV (per chi scrive, altrettanto determinante e vero primum movens), e con uno sguardo che parte dall’Europa, ma finisce presto ad abbracciare tutto il globo terrestre in quella che può essere considerata la “prima globalizzazione”, Braudel condensa in meno di cento pagine due secoli di storia economica e sociale fondamentali per la comprensione del mondo come lo conosciamo oggi. Un pianeta che nel “lungo XVI secolo” è “molto diverso dall’attuale, abitato da uomini che, pur avendo talvolta problemi sostanzialmente uguali ai nostri, non dispongono però dei mezzi per risolverli”. Proprio per questo la storia di questo periodo combina elementi di assoluta modernità, come la necessità percepita dagli imprenditori di strutturare tratte commerciali aventi respiro globale o l’estrema raffinatezza dei mercati finanziari, rotti “a tutti i trucchi ed espedienti che si praticano oggi nelle nostre borse”, a vistosi freni imposti da uno sviluppo tecnologico arrancante. Fino alla rivoluzione industriale (che Braudel chiama “a getto continuo”, definizione che oggi potrebbe essere ridiscussa) “ad ogni tappa del progresso economico l’uomo [era] costretto ad imporsi sforzi poderosi che raggiung[eva]no presto un limite insuperabile”, cioè la mancanza di un’energia asservita ai suoi bisogni. Ma fu la mentalità retrostante, del tutto moderna, che permise la futura evoluzione in chiave industriale: la determinazione dei mercanti ad accumulare risorse commerciando ogni prodotto ovunque si intravedesse un profitto, speculando in valute o in titoli, invischiandosi in prestiti a privati o ai nascenti Stati nazionali, mettendo in campo ogni strategia, introducendo ogni innovazione nella pratica degli affari che permettesse e facilitasse l’accrescimento della propria ricchezza.

Dal basso medioevo alla contemporaneità, quindi, una lunga accelerazione del capitalismo, sostenuta dalla necessità di sfruttare le informazioni prima della concorrenza, da una ricerca spasmodica della velocità e dell’abbattimento dei tempi morti, infruttuosi e antieconomici, secche in cui lasciare gli avversari nella guerra senza prigionieri di un mercato in crescente globalizzazione.


Andrea Cassini

David Benatar, Meglio non essere mai nati: il dolore di venire al mondo – Carbonio, 2018

Quando veniamo al mondo, sostiene il filosofo antinatalista David Benatar, subiamo un oltraggio. La sua voce è una delle più abili nell’indagare gli orrori della contemporaneità, e Benatar è tra i principali artefici, insieme a Thomas Ligotti e Eugene Thacker, dello sconfinamento di pessimismo e nichilismo nella cultura popolare. La tesi di Meglio non essere mai nati, esposta con chiarezza analitica, ha forti implicazioni bioetiche e suggerisce una consapevolezza tragica: l’uomo sopravvaluta la qualità della propria vita, e nel propagarla si macchia di una colpa indelebile perché condanna alla sofferenza vittime innocenti – un crimine che si allarga a comprendere l’intero ecosistema, nella prospettiva antispecista dell’autore. Quest’ultima si fa particolarmente controversa se inserita nello spirito del tempo che s’interroga su antropocene, cambiamento climatico e ruolo dell’uomo nel mondo.

Kareem Abdul.Jabbar, Sulle spalle dei giganti, la mia Harlem: basket, jazz e letteratura – Add Editore, 2018

Kareem Abdul-Jabbar è molte cose. Il miglior realizzatore di tutti i tempi nella NBA. Un americano nero che si è convertito all’Islam riscoprendo le sue radici africane, come Muhammad Ali. Uno storico, giornalista, scrittore e opinionista che è diventato figura culturale di riferimento, anche al di fuori del mondo della pallacanestro, grazie alla coerenza delle sue posizioni – assai scomode in questa temperie politica. Il suo ultimo libro, appena tradotto in italiano, rappresenta il suo modo di ripagare il debito verso la storia di Harlem, il luogo che lo ha cresciuto. Dentro c’è un viaggio appassionante, lungo un secolo, nell’America delle minoranze, delle discriminazioni e delle lotte per i diritti civili. Il sottofondo, però, è quello gioioso del jazz, della letteratura e della pallacanestro: da sempre motori e chiavi identitarie per la comunità afroamericana.

Fumiyo Kono, Hiroshima, nel paese dei fiori di ciliegio – KappaLab, 2018

Se bazzicate su Netflix forse avete visto Questo angolo di mondo, film di animazione giapponese tratto da un manga di Fumiyo Kono: la storia, delicata e struggente, che precede e vive in presa diretta il lancio della bomba atomica su Hiroshima. Ma la precedente opera dell’autrice, una graphic novel “alla occidentale” che nasce come racconto compiuto (due volte nominata ai prestigiosi Eisner Awards), offre un ritratto ancora più originale, uno su cui spesso chiudiamo gli occhi: la vita quotidiana nella Hiroshima che sopravvisse a quel 6 agosto 1945, la forza e il dolore della ricostruzione attraverso gli occhi di Nanami, che vive e s’innamora – nonostante le ferite – in una città che vuole essere ricordata per i fiori di ciliegio, prima che per la bomba. Per il taglio discreto e il tratto dell’autrice, il manga ricorda i lavori dello Studio Ghibli, ma è più vicino a Isao Takahata che al maestro Miyazaki: linee sottili e grandi spazi bianchi, a simboleggiare il vuoto che non può essere colmato.

The Eternal War Stories (Civilization II)

Nel 2012, l’utente Lycerius pubblica un post sul forum dedicato a Civilization II, storico videogame strategico/militare, raccontando la sua peculiare esperienza di gioco: “Avete presente la Guerra dei Cent’anni? Bene, provate con 1700”. La storia diventa virale e in migliaia si cimentano per trovare una soluzione alla Guerra Eterna, scaricando il file di salvataggio condiviso da Lycerius: uno stallo fra tre superpotenze che hanno ormai nuclearizzato e militarizzato il mondo intero, come in un 1984 ancora più distopico.Tra le invenzioni della community ci fu un vasto numero di racconti, fan-fiction amatoriali ispirate alla vicenda: i migliori testi sono stati raccolti in un eBook, liberamente scaricabile a questo indirizzo, che non ha nulla da invidiare a una rassegna sci-fi.


Francesco D’Isa

Un libro nuovo: Il dono di saper vivere, di Tommaso Pincio (Einaudi). Un romanzo che si autodistrugge a metà lettura, un saggio sulla vita e l’arte di Caravaggio che si stufa di essere un saggio, ed esplode come una matriosca per assolvere a tutte le sue funzioni.

Un libro vecchio: le Operette Morali di Giacomo Leopardi. Vi sembrerà un consiglio cretino, ma non lascia scampo: se come me lo avevate letto solo a scuola, rileggetelo e capirete che dovevate farlo. Se non lo avete letto, fatelo subito. Se lo avete letto più volte, aggiungerne una non farà male.

Un libro vecchio che torna nuovo: Rinascite di Sergio Nelli (Tunué). Un breve diario che restituisce la tragica gloria degli oggetti, banali ed eccelsi. È un’ode poetica a quel che Berkeley chiamava the furniture of the world (“l’arredamento del mondo”, anche se all’epoca del vescovo furniture non aveva questo significato).


Federico Di Vita

Tre libri sulla fine del mondo. Tra le letture che mi sento di consigliare ai lettori dell’Indiscreto per inquadrare al meglio il 2019 ci sono tre libri che parlano della fine del mondo, tra i migliori che mi sia capitato di leggere nel corso dell’anno che volge tanto mestamente al termine. Il primo è Il pianeta tossico di Giancarlo Sturloni, edito da Piano B. L’autore, uno studioso che insegna comunicazione del rischio all’Università di Udine, mette insieme in un catalogo avvincente quanto sinistro, i fattori di rischio ecologico, economico e sociale cui il pianeta Terra sta andando incontro a causa del nostro stile di vita, del continuo consumo di combustibili fossili, e in ultima analisi del riscaldamento globale. Un fenomeno misurato con certezza negli ultimi 170 anni (le prime rilevazioni risalgono a metà Ottocento) e che rischia di innescare reazioni a catena fatali oltre un limite di incremento di 2° sulle temperature medie registrate prima che cominciasse l’impennata nelle rilevazioni. Contenere la corsa del termometro sembra impossibile, non perché lo sia tecnicamente ma per l’ingordigia imposta dalla civiltà industriale: il capitalismo ammette come unico orizzonte quello di una crescita infinita, condizione non conciliabile con la finitezza delle risorse planetarie e col vertiginosamente crescente numero di umani da sfamare su questa biglia lanciata nello spazio. La Terra ha già visto cinque estinzioni di massa, questa sesta – che stiamo già vivendo – è la prima a essere innescata dalla volontà autodistruttiva di una sola specie e, soprattutto, è quella che ci riguarda. Coi suoi tempi geologici in qualche milione di anni il pianeta si sarà già dimenticato del nostro maldestro passaggio, ci saranno altre specie a popolarlo e un nuovo equilibrio ambientale avrà preso il posto di quello che conosciamo oggi. Insomma, per farla breve e ripetendo le parole dello strillo del volume: “Se la Terra si scalda, è il nostro culo che scotta”.

Il secondo libro che giungo a segnalare è Iperoggetti di Timothy Morton. Il volume, portato finalmente in Italia da NERO, è stato scritto da uno dei filosofi più rilevanti nel panorama internazionale e divulga in modo lisergico (e a volte dispersivo) l’interpretazione del mondo della Ontologia-orientata-all’oggetto (OOO), la corrente filosofica fondata da Graham Harman e che per Morton vede proprio negli inafferrabili ‘iperoggetti’ il grimaldello decisivo per l’interpretazione del reale. E indovinate un po’ qual è il principale degli iperoggetti? Ancora lui: il riscaldamento globale.  Come osserva l’autore “il riscaldamento globale non è qui. Gli iperoggetti sono non-locali. Le radiazioni non sono visibili”. La loro natura sfuggente e pervasiva opera un cambio di paradigma circa la nostra possibilità di lettura della realtà: per la OOO col riconoscimento degli iperoggetti l’uomo non può più essere al centro neppure dal punto di vista dell’interpretazione filosofica del mondo: ci sono una serie di relazioni che gli oggetti hanno tra loro e che ci risultano inaccessibili, ma che pure investono con la loro portata l’intero ecosistema in cui viviamo.

Infine è la volta di un romanzo, Cometa di Gregorio Magini, uno dei migliori dell’anno che volge al termine. Il tema della fine del mondo non è quello dominante nella poetica maginiana, seppure la sventura per i destini inconcludenti di una generazione (quella dei nati negli anni ’80) aleggi più volte nel corso del volume. È interessante notare tuttavia come la scena finale del libro si svolga al cospetto – benché frutto di una probabile ossessione – di uno sciame di astronavi aliene che si nasconderebbero nella scia di una cometa, non promettendo (ma questa forse è solo una mia proiezione) di portare nulla di buono al destino di un pianeta sempre più avvolto in una dimensione tecnologia straniante e solipsistica.


Carla Fronteddu

Maeve Brennan, La sposa irlandese, BUR, 2011

Per i miei primi consigli di lettura su L’Indiscreto ho deciso di cominciare dalla mia scrittrice di racconti preferita, Maeve Brennan (1917-1993) dublinese trapiantata negli Stati Uniti. Ogni articolo su di lei è anticipato da una premessa sulla sua inconfondibile bellezza e la sua esistenza travagliata (classica accoppiata). William Maxwell, il suo editor, scrive nella prefazione a Il principio dell’amore che “molti uomini e donne trovavano Maeve incantevole, ma non era possibile fare molto per salvarla da se stessa”. Dopo il matrimonio con St.Clair McKelway (“forse non fu il peggiore dei matrimoni possibili, ma non lasciava molto alla speranza” sempre Maxwell), si era trasferita da un appartamento all’altro, accumulando debiti, finché non aveva eletto a sua dimora la toilette del New Yorker, manifestando spesso un atteggiamento “allucinato, che poteva diventare anche violento”. Proprio in una toilette per signore è ambientato il mio racconto preferito, Un sacro terrore, contenuto nella raccolta che vi consiglio per queste letture natalizie, La sposa irlandese. Si tratta di uno dei primi racconti che il New Yorker le pubblicò e comincia così:

“Era l’addetta alla toilette per signore del tranquillo Royal Hotel di Dublino. Mary Ramsay, voce ruvida, mani ruvide, maniere ruvide in tutti i modi possibili. Con quella lingua ti scorticava vivo, dicevano all’hotel. Tutti avevano paura di lei.”

Brennan costruisce un ritratto accurato di Mary, fotografando dettagli che ci avvicinano al mondo di questa donna di cui tutti avevano il terrore e accostando l’orecchio per afferrare anche l’ultimo dei suoi pensieri.

Mavis Gallant, altra autrice che amo molto, ha definito le sue storie “vere e incantevoli” e lo sono. L’occhio di Brennan entra negli interni, scivola sulle superfici, sugli oggetti che li compongono, e poi si posa su un’azione qualsiasi, su un momento qualunque della vita quotidiana. Lì, inizia a punzecchiare il suo personaggio con la punta della penna, finché non esce, come un succo, tutta la sua complessità. Una complessità così ben descritta che che non potremo mai dire di conoscere veramente i suoi personaggi, proprio come nessuna delle persone che ci circonda nella vita reale.

Benedetta Craveri, Amanti e regine. Il potere delle donne, Adelphi, 2005.

“Nel 1586 il celebre giurista francese Jean Bodin non esitava a confinare le donne ai margini della vita civile, ritenendo che dovessero essere tenute lontane da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli perché si occupassero solo delle loro faccende domestiche e donnesche”. Niente di sorprendente per l’epoca; la convinzione della debolezza intellettuale, morale e psichica delle donne è antica quanto la società occidentale stessa. Eppure, a clamorosa smentita del povero Bodin, “mai come nell’Europa del cinquecento un numero tanto rilevante di donne- figlie, sorelle, madri, amanti- ebbe accesso ad altre responsabilità, influì sulla politica, governò in prima persona”. Il libro di Benedetta Craveri è dedicato a loro, alle regine e alle potenti favorite reali della corte di Francia che “forti della loro ambizione, della loro intelligenza, della loro bellezza, sono riuscite a dispetto dei pregiudizi maschili ad approfittarsi delle circostanze favorevoli e a farsi valere”. Dalla giovane Caterina de’ Medici a Maria Antonietta- armata di disprezzo fino all’ultimo istante- passando per Madame du Barry- prima maîtresse en titre– è evidente come questo potere non fosse la conseguenza di un’ondata di uguaglianza nella società dell’epoca. La Storia era ancora convintamente appannaggio degli uomini e per entrare nei suoi ingranaggi le protagoniste di questo libro (e non solo) hanno dovuto giocare di astuzia, “mascherarsi, distribuire favori, sedurre, corrompere, punire e sapere, al momento giusto, ritirarsi”. Amanti e regine è un gustosissimo spaccato di storia europea narrato da una prospettiva inedita, quella di chi ha saputo trasformare una condizione di inferiorità in una carta vincente con creatività e coraggio.

Valeria Palumbo, Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle, Enciclopediadelledonne.it, 2018.

Natale è il periodo dell’anno in cui i giornali ripropongono articoletti in cui spiegano ai single come essere felici durante le feste. Almeno per quanto riguarda l’orizzonte femminile non è di questi ricettari che si sente la necessità. “Odiavo quando le mie eroine si sposavano” afferma nel suo libro All the single ladies. Il potere delle donne single (Fandango, 2016) Rebecca Treister. “Il matrimonio- scrive- è stato una necessità per così tanto tempo per le donne. Hanno fatto affidamento sul matrimonio per la stabilità economica e per avere una vita sessuale o una famiglia in un modo socialmente sancito. Ma quando si elimina quel modello, non devi solo considerare alternative radicalmente opposte bensì un’infinità varietà di alternative.” Ecco rispetto a queste possibilità i modelli a cui far riferimento sono tristemente scarsi. É qui che entra in scena il mio ultimo suggerimento di lettura, Piuttosto m’affogherei di Valeria Palumbo, un lavoro archeologico, di recupero – con incursioni del mondo del mito, della fiaba e del fumetto – di personaggi femminili che non hanno fatto quel che ci si aspettava dal loro sesso, scrivendo una storia alternativa. “Da oltre due millenni le donne sono state indirizzate verso un unico, doppio destino: quello di spose e madri. Ma da quando, in un passato mitico, Artemide ha chiesto e ottenuto dal padre Zeus di restare vergine e di non doversi sposare mai, fino a quando Virginia Woolf, a inizio Novecento, ha scritto che ognuno deve essere libero di scegliere, si è snodata la complessa vicenda di chi non ha camminato lungo il binario definito.” Chi erano queste donne? Dobbiamo credere alla vulgata che le voleva come scarti del genere femminile? Erano “semplicemente” ribelli? E che nesso c’era tra questa scelta e la castità o le inclinazioni sessuali?


Ilaria Gaspari

Rebecca – Daphne Du Maurier
Una tenuta fiabesca in Cornovaglia, su cui regna una governante devotissima e dittatoriale, un vedovo dal cuore triste, una giovane sposa insicura e remissiva: è la seconda moglie di lui, ed è così diversa da Rebecca, morta giovane e bellissima, come, con molto tatto e molta crudeltà, gli ospiti di Manderley non mancano di farle notare. Potrebbero sembrare gli elementi di un romanzetto romantico, e invece, da questo libro splendido ma conosciuto soprattutto per una bellissima trasposizione cinematografica che ne ha involontariamente offuscato la fama puramente letteraria, si sprigiona una tensione psicologica fortissima. Un libro che racconta con finezza incredibile la complessità dei rapporti di forza, la crudeltà della memoria, la tortura delle assenze e delle omissioni.

Storie ciniche – William Somerset Maugham
Una raccolta di racconti che è anche una piccola galleria di ritratti perfetti, spietati e insieme stranamente teneri, proprio come i personaggi di queste storie: raccontati senza nessuna indulgenza, se non quella più profonda di tutte, che nasce da uno sguardo disilluso e cinico, per l’appunto, sulle piccole, ridicole vanità e manie, tic e frustrazioni che ci accomunano tutti. Un libro di un’arguzia commovente.


Francesca Matteoni

Da sostenitrice della stagione fredda non posso che iniziare con L’invenzione dell’inverno del canadese Adam Gopnik (Guanda).  Il libro si apre in cinque capitoli/finestre, raccontando come la passione per l’inverno si sia sviluppata in poco meno di tre secoli nel nord Europa… grazie al riscaldamento che ha permesso di ammirare paesaggi incantati e brumosi da dietro una finestra, magari sedendo accanto al fuoco.  Artisti, scrittori, esploratori, ma anche giocatori di hockey e pattinatori, trovano spazio in questa lettera d’amore all’inverno e alle sue nevi. Non necessariamente invernale, ma importante per riflettere sul disastro ambientale che siamo ancora in tempo per fermare, è tutto quello che fa Wendell Berry – scrittore, poeta, agricoltore del Kentucky. Quest’anno per l’editore Piano B è uscita la raccolta di saggi e discorsi L’unico mondo che abbiamo. Berry scrive di comunità, economie locali, della Natura stessa come bene economico, della conoscenza dei luoghi in cui abitiamo, dedicandosi al particolare, non per mancanza di visione, ma al contrario per comprendere l’indispensabile legame fra tutte le creature. Da qui alla poesia, come radicamento nella sostanza di cui siamo fatti. Cenere, o terra, è il titolo dell’ultimo, splendido libro di Fabio Pusterla (Marcos y Marcos), preso da un verso del Purgatorio di Dante. Strutturato secondo i quattro elementi, il libro è un cammino fra terra, aria, acqua, fuoco, collegati da ponti e sprazzi di sogno. Ciò che si vede ha l’aspetto insieme fantasmatico e presente della realtà conosciuta nei suoi luoghi remoti o più dimenticabili – nei residui di un ghiacciaio, nella pietà negata a chi migra per mare, nel funerale di un passero, nell’infantile rivolgersi alla luna come a una persona, nel volo della rondine che apre il libro e che vogliamo sia un ritorno a certi nidi, certe speranze preziose. La rondine, di tutti i volatili, è quello forse più vicino alla fede che crediamo propria dei bambini. E con o per alcuni bambini scelgo gli ultimi tre libri.  Per primo il capolavoro, a mio avviso, di Antonia S. Byatt, Il libro dei bambini (Einaudi). L’opera, ambiziosa per numero di personaggi e intreccio, racconta l’Inghilterra dal 1895 alla fine della prima guerra mondiale, passando per le famiglie di due artisti, una scrittrice per bambini e uno scultore, e parlando di fabianesimo,  socialismo,  movimenti per l’emancipazione delle classi subalterne e delle donne. Personaggi reali (fra tutti, il cameo di Wilde dopo il carcere) si mescolano all’invenzione narrativa; i bambini del titolo saranno mutati dal fato, dalla guerra, dall’estro feroce di genitori tanto talentuosi quanto incapaci di vero amore.  Bambini nel bosco, di Beatrice Masini (Fanucci), è invece un bel romanzo per ragazzi di ogni età, ambientato su un altro pianeta, in un tempo vago che segue un disastro nucleare.  Qui un gruppo (o grumo, secondo il libro) di bambini  sorvegliati nel Campo Base e drogati quotidianamente con medicine che tolgono i ricordi, riesce a fuggire e a ricreare un nucleo familiare grazie a un residuo del passato conservato da uno di loro: un libro di fiabe.  Infine, un albo illustrato che proviene da una storia di Astrid Lindgren del 1965, più volte riproposta in altre lingue e formati. La volpe e il tomte, con le illustrazioni di Eva Eriksson (Il Gioco di Leggere), è una fiaba che dimostra come la magia sia fatta di piccole cose e accortezze, piccoli silenzi in cui si muovono gli animali e le creature dell’immaginario. Protagonisti una volpe affamata, un folletto domestico a guardia della fattoria e naturalmente la notte innevata degli inverni nordici. 


Gabriele Merlini

Dopo una vita trascorsa a mentire riguardo conoscenze radicate e dettagliatissime del «Philip Roth delle origini» leggo per la prima volta, quarantenne, il suo primo romanzo lungo, Lasciar andare (Letting Go, edito come l’intero catalogo da Einaudi) che risale al 1962 ed è di poco successivo a Goodbye Columbus, raccolta di racconti del 1959. Testo dalla notevole stazza (circa 800 pagine belle compatte) e intreccio strutturato, potrebbe definirsi la lunga ricerca della serietà e della stabilità che una vita adulta deve comportare, portata avanti da un individuo propenso alla insicurezza e ai dubbi di posizionamento. La relazione con una compagna entrante e poco stabile, l’incontro con una coppia che in qualche modo lo obbligherà a rivedere aspetti centrali dell’esistenza e la condizione di orfano di madre non agevolata dal genitore rimasto vivo, un ingestibile padre dentista.

Articolata teoria dei temi più cari del Roth che verrà – in breve: l’ebraismo, la vita, la morte, il sesso, la storia americana del secondo dopoguerra, le famiglie disarticolate, la paternità, i rapporti amorosi tormentati – tinteggiata con l’alternanza di stili che, nella stragrande maggioranza della produzione successiva, saranno utilizzati: caustico, cupo, farsesco, intimo, mucchio di dialoghi, scarne descrizioni. C’è però in Lasciar andare anche qualcosa di particolare, forse dettato dalla contiguità anagrafica del tempo tra autore e attori in commedia: i fari puntati sul delicato ingresso di varie categoria di (ex) ragazzi tra i grandi, un sistema complesso e strambo nel quale purtroppo le forti letture o lo studio accademico – incluso l’Henry James adorato dal protagonista – aiutano pochino. Sbagliare manovra significa diventare individui nevrotici e dalla difficile catalogazione, ovvero le tipologie umane per le quali Roth da sempre va matto.

In ambito musicale invece diversissimi ma al pari degni di segnalazione – entrambi pubblicati nel 2018 – Bowie. Una biografia (Solferino) e Britannica. Dalla scena di Manchester al britpop (Vololibero). Il primo una riuscita ibridazione tra illustrazioni e cronaca della vita del Duca Bianco nelle innumerevoli trasformazioni della sua ineguagliabile carriera (María Hesse firma sia disegni che testo), il secondo una puntuale analisi di una decade che è stata centrale per l’Inghilterra dei movimenti artistici, dal 1988 al 1998 le vicende di band quali Stone Roses, Joy Division e altre, assieme ai locali nei quali sono esplose. Il sound e il lascito per i nascenti Blur e Oasis nel contesto di un periodo dinamico sia socialmente che politicamente. Spunti meritevoli anche per chi non trascorra le proprie giornate a catalogare i dischi dei New Order o spolverare cofanetti di Morrissey.


Roberto Paura

I napoletani imparano a convivere con il Vesuvio da bambini, con le prime prove di evacuazione all’asilo o alle scuole elementari. Lo temono e al tempo stesso ne sono affascinati, non riescono a stare troppo lontani da quella che, racconta Maria Pace Ottieri, alcuni – quelli che vivono alle sue pendici – chiamano familiarmente ‘a muntagna. Ma il Vesuvio è una montagna fino a un certo punto. Nel suo bellissimo libro Il Vesuvio universale, una delle cose migliori pubblicate quest’anno in Italia, la scrittrice milanese si trasferisce a Napoli per studiarla in tutte le sue declinazioni, in particolare il complesso rapporto che gli abitanti dei paesi vesuviani – la “corona di spine” che circonda il Vesuvio, per usare la metafora che Francesco Saverio Nitti applicò all’hinterland napoletano – hanno con ‘a muntagna. Come l’Egitto è, nell’efficace espressione di Erodoto, il “dono del Nilo”, la provincia napoletana è il dono del Vesuvio: ne trae sostentamento in tutti i modi, dal pomodoro del piennolo al Lacryma Christi, dall’abusivismo edilizio al business dei locali per matrimoni. Fin sulle pendici, da Pompei ed Ercolano alle Ville Vesuviane, tra cui quella di Leopardi, che l’autrice visita con una guida improbabile quanto oleografica. Come tutto lo straordinario mondo di mezzo che vive, in un’eterna attesa, alle pendici del formidabil monte, Sterminator Vesevo.

A proposito di attesa, quest’anno ho recuperato un romanzo bellissimo di Julien Gracq, La riva delle Sirti, premio Goncourt (rifiutato dall’autore) nel 1951. L’ho trovato in una vecchia edizione Guida, ma è tornato da poco sul mercato grazie a L’Orma editore, che quest’anno ha pubblicato anche un altro suo titolo, Acque strette. La riva delle Sirti, che nell’inizio riprende La figlia del capitano di Puskin e negli sviluppi Il deserto dei tartari di Buzzati, è ambientato in un paese immaginario, Orsenna, ricalcato sul cliché della Repubblica Veneziana, ma in epoca contemporanea; il protagonista, Aldo, figlio di una famiglia aristocratica, si trasferisce all’Ammiragliato, sulla riva delle Sirti, di fronte alle coste del Farghestan, l’acerrimo nemico di Orsenna, con cui da trecento anni vige una sorta di tacito armistizio. La disillusione dei suoi superiori, i discorsi dell’affascinante Vanessa, le voci inquietanti che girano intorno all’Ammiragliato spingono però Aldo all’azzardo: spingersi in ricognizione fino alle rive del Farghestan, stimolando una reazione. È quello che tutta Orsenna, inconsciamente e segretamente, spera e attende da secoli: il ritorno della guerra, una rivoluzione, un sommovimento che permetta alla decadente repubblica di reagire al suo inesorabile declino. La splendida traduzione di Mario Bonfantini (che conferma il fatto che solo gli scrittori possono tradurre altri scrittori) restituisce intatta la prosa di Gracq sospesa nel tempo, rifulgente di riflessi dell’acqua, di grandi palazzi in disfacimento, di solitudine e sensualità.

Concludo con un terzo titolo per concludere questa ideale “trilogia dell’attesa”. Lettura scientifica dell’anno è senza dubbio Lost in Math di Sabine Hossenfelder, di cui si attende una pronta traduzione italiana. Fisica tedesca impegnata nell’ambito della gravità quantistica, acerrima critica di una fisica teorica a suo dire andata “fuori strada” inseguendo la bellezza della matematica, Lost in Math è un duro attacco alla pretesa di un’imminente “teoria del tutto”, una messa in discussione delle categorie mentali dominanti nei dipartimenti di fisica teorica e un monito a intraprendere una seria messa in discussione dell’intera impresa scientifica. Hossenfelder non ha la prosa elegante di John Horgan, giornalista scientifico autore (nel 1996) dell’ormai classico La fine della scienza, ma ne riprende le tesi e lo fa dall’interno, rendendo la sua critica – analogamente a quelle di Lee Smolin, Roger Penrose, Jim Baggott, Peter Woit – particolarmente incisiva: l’attesa della supersimmetria, della scoperta della materia oscura, della teoria “finale” della fisica, potrebbe essere destinata a durare per sempre.


Vittorio Ray

Io ho ragione e tu hai torto, T. Williamson, il Mulino, 2016.

C’è una via di mezzo molto intelligente tra il burionismo d’accatto e l’Università della Strada. Timothy Williamson, professore di Logica ad Oxford e (mi dicono) uno dei più lanciati filosofi dell’accademia contemporanea, mette in bocca a quattro passeggeri in treno un brillante tetralogo sul rapporto con la verità. In un momento storico di grande cambiamento e/o smarrimento, di vulnerabilità e perdita di senso, questo piccolo volume ha il merito di saper asciugare parecchia acqua al mulino del relativismo. Con il cesello concettuale dei logici, e senza la pesantezza della forma saggio, chiarifica e denuda posizioni con cui tutti ci confrontiamo in modo confuso ogni giorno, in ogni discussione. Segnalibri personali: p. 122 (“rischiare di avere torto è il prezzo che si paga per avere ragione”), pp. 144-145, 152-155 (“se la scienza dovesse continuamente dimostrare tutto quello che dice, non potrebbe mai avere inizio”).

Tempi storici, tempi biologici, E. Tiezzi, Donzelli, 2005.

Enzo Tiezzi, buonanima, chimico e per un breve periodo anche politico italiano, negli anni ottanta ha lavorato con i più importanti scienziati del mondo sulla definizione del concetto di sviluppo sostenibile. Questo libro è una buona summa introduttiva a quel dibattito, elegantemente a cavallo tra la divulgazione di problemi termodinamici, un po’ di analisi politica e momenti di grande umanismo.

Oggi che la transizione energetica stenta ancora a decollare, i climatologi sono sempre più disperati e le Nazioni Unite per ogni passo avanti ne fanno due indietro, regalare questo libro non risolverà niente (anche perché la prima versione è uscita 35 anni fa), però è un bellissimo regalo.


Edoardo Rialti

Okakura Kakuzo, Lo zen e la via del the, Lindau

È al tempo stesso un trattato di estetica, filosofia morale, storia della cultura, scritto da uno dei grandi intellettuali nipponici della fine dell’800, che voleva sottrarre le tradizioni del suo paese ai facili e consumistici fraintendimenti che già all’epoca le insediavano. Il the e la sua cerimonia si rivelano non solo una disciplina di attenzione cura rigorose, l’introduzione a un altro modo di concepire il tempo, lo spazio, le relazioni personali e persino il rapporto con se stessi, ma, attraverso tutto questo, un percorso che mira alla stessa ambizione del taoismo, ossia renderci “padroni dell’arte di vivere”. Un libretto magnificamente ben scritto, capace di fondere intuizioni sull’arte e gastronomia, giardini e picchi innevati, detti sapienziali e morti memorabili. Perché il the insegna anche a morire.

Boris Pasternak, Il Dottor Zivago, Feltrinelli

Confesso di averlo letto a 16 anni perché E. Zolla, nella sua celebre prefazione a Il Signore degli Anelli di Tolkien, sosteneva che il fratello di Zivago assomigliava a Gandalf. Ciò ha contribuito a un secondo elemento emotivo e immaginativo che da allora si è sempre accompagnato alle mie riletture di questo grande romanzo, ossia che ogni volta che lo riapro, so che, in quelle pagine, mi aspettano sempre comunque anche i miei sedici anni. Credo sia un elemento comune a molte nostre riletture, e non sufficientemente contemplato. Come scrisse C. Doherty nel bel trattato sull’eremitaggio interiore Pustinia “credo che gli orientali confiderebbero normali molte cose che gli occidentali qualificherebbero come mistiche”. Quello che da noi parrebbe opposto o alternativo, nell’immaginazione russa può misteriosamente coincidere senza sforzo alcuno: così questa grande storia d’amore-passione è anche una contemplazione iconologica, è un testo in prosa ma scritto da un poeta e che racconta un poeta, e intesse una grandioso scenario collettivo col mistero irriducibile d’una esistenza assolutamente individuale. Un grande inno alla gioia di esistere, anche dentro la tragedia e il disfacimento, scritto da chi Cristina Campo definiva “un re sconosciuto del nostro tempo”.

E a proposito di Cristina Campo, il terzo suggerimento sono proprio le sue Lettere a Mita, Adelphi. Cristina De Stefano l’ha definito uno dei grandi epistolari della letteratura italiana, paragonabile per intensità, ricchezza, bellezza stilistica a quelli di Tasso e Leopardi. Aveva pienamente ragione. Amori spezzati, letture entusiasmanti, ironia, traduzioni, il rapporto con Dio e con gli amici, il terribile nodo della morte, intuizioni così limpide e insondabili che si possono contemplare come poesie, perché la forma per la Campo era il linguaggio della fedeltà all’unico livello emotivo ed espressivo che conta veramente. Come ho scritto altrove sui Taccuini di Camus, nella marea fangosa di messaggi che ci assedia quotidianamente, riesporsi ai diamanti che persone simili sapevano inviare è un dono, che consente di osservare con rinnovata e diversa attenzione la trama della nostra stessa esistenza quotidiana. Si guarda diversamente, e ci si esprime diversamente.

Charles Dickens, Il Circolo Pickwick, Einaudi

In sorprendente affinità con successive scoperte e teorie scientifiche, a inizio ‘900 G. K. Chesterton illustrava la verità d’una misteriosa affermazione biblica (secondo cui Dio crea la luce prima del sole) proprio commentando il Pickwick di Dickens. Questi sarebbe infatti il Big Bang da cui scaturisce la luce di tutte le sue singole stelle successive, soli come Oliver Twist, Grandi Speranze e David Copperfield. Questa è il mare spumeggiante che li comprende già tutti, una sfilata di avventure esilaranti (che però sanno comprendere anche momenti di tragedia e commozione, come nella rievocazione delle prigioni per famiglie e bambini), capace di farci affezionare ai due protagonisti con la stessa dedizione che tributiamo a Don Chisciotte e Sancho Panza, sentendoli vivere con noi ben oltre l’ultima pagina, l’ultima avventura. Dickens sa riconciliarci con l’ordinario, col ridicolo, persino col noioso e prevedibile, mostrandocene tutta la gloriosa pazzia. Come disse Lewis, egli è l’apostolo dello storge, l’affetto. Impossibile leggerlo (e consiglio la bella traduzione di Rossari) senza sorprendersi, chiuso il capitolo, a guardare con rinnovata e persino grata simpatia all’aneddoto ripetuto per la millesima volta da qualche parente al pranzi di Natale. Il che da solo dimostra quanto sia una lettura decisiva per guardare meglio le festività in arrivo.

1 comment on “Cosa leggere a fine anno, secondo noi

  1. […] «Dopo una vita trascorsa a mentire riguardo conoscenze radicate e dettagliatissime del Philip Roth delle origini leggo per la prima volta, quarantenne, il suo primo romanzo lungo, Lasciar andare – Letting Go, edito come l’intero catalogo da Einaudi – che risale al 1962 ed è di poco successivo a Goodbye Columbus, raccolta di racconti del 1959.» Il resto qui. […]

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