Cosa leggere durante le feste, secondo noi

Nei giorni che seguono tutti noi avremo qualche momento libero in più e quindi perché non passarlo a leggere? Ecco quindi una lista di consigli di lettura da parte di alcuni nostri autori. Insieme, ovviamente, all’augurio di buone feste.


In COPERTINA, un’opera di Glennray Tutor

Eccoci arrivati a fine anno e quindi alla lista con cui noi della redazione de L’Indiscreto vi consigliamo qualche lettura per i prossimi giorni, quelli delle vacanze e della fine dell’anno. Sono – come al solito – titoli pensati per chi legge la nostra rivista, i temi e gli argomenti spesso li abbiamo già trattati nei nostri articoli e approfondimenti.


Francesco Ammannati

Quest’anno voglio lasciare sotto l’albero de L’Indiscreto tre consigli per tutti i gusti, tre libri che tra loro non hanno niente in comune, ma proprio per questo adatti ai nostri tempi confusi. Per la quota narrativa, segnalo un titolo che ha fatto parlare di sé negli ultimi mesi vincendo diversi premi prestigiosi (uno per tutti il Campiello 2022), ma a cui sono giunto del tutto per caso, rimanendone folgorato. I miei stupidi intenti (Sellerio 2021), opera prima di Bernardo Zannoni, è il romanzo di formazione di una faina, un animale umano troppo umano alla scoperta di Dio, della vita, dell’amore e della morte, delle gioie e degli orrori della famiglia. Un gioco di metafore, o piuttosto un’allegoria, mai stucchevole che oscilla abilmente tra la narrazione del mondo animale della sopravvivenza e dell’istinto, e quello umano della conoscenza e della consapevolezza come condanna.

E a proposito di conoscenza, il recentissimo saggio di Angela Orlandi, La ricchezza del debito pubblico (Il Mulino 2022) promette di apportarne molta su un tema ostico e spesso distorto nel passaggio tra lo studio degli specialisti e la divulgazione al grande pubblico, quando non brandito per motivi ideologici. Docente di storia economica, Orlandi riesce con questo agile volume a riannodare i fili di un fenomeno complesso inquadrato nell’arco di quasi mille anni (dal Dodicesimo secolo ai giorni nostri), trattandolo in modo sorprendentemente chiaro e piacevole, ma sempre rigoroso. Oltre alla ricostruzione delle forme di indebitamento degli stati, che rapidamente assunsero caratteristiche simili a quelle del mondo attuale, ne viene discussa l’utilità e la nocività, riprendendo i concetti di Mario Draghi di debito buono e debito cattivo.

Per finire, un po’ di jazz. Non tutti sanno, o almeno non lo sapevano quando uscì in Italia nel 1963 col titolo Il mondo del jazz, che dietro lo pseudonimo dell’autore della Storia sociale del jazz (titolo con cui fu ristampato nel 1982) Francis Newton si nascondeva nientemeno che Eric J. Hobsbawm, uno dei più importanti storici del Novecento (sì, quello de Il secolo breve o de Il trionfo della borghesia). Dal 1955 al 1965 il buon professore aveva infatti tenuto sotto mentite spoglie una rubrica mensile per il New Statesman sul jazz, musica che amava da quando l’aveva scoperta da ragazzo nel 1933 (“l’anno in cui Adolf Hitler prese il potere in Germania”). Passione più deformazione professionale lo portarono quindi nel 1959 alla scrittura di una storia critica, The jazz scene, che dopo inevitabili vicissitudini editoriali è oggi rintracciabile nelle librerie nostrane grazie a Mimesis (2020), in una versione arricchita dalla prefazione di Massimo Donà.


Andrea Cafarella

Punacci, storia di una capra nera di Perumal Murugan

Trad. Dorotea Operato (Utopia edizioni)

La Letteratura di ogni tempo e luogo è costellata di magnifiche storie che hanno come protagonisti animali non umani. Bisognerebbe tornare ai primordi della narrazione orale, immaginare un legame quasi ovvio con l’arte preistorica, e poi inoltrarsi vertiginosamente in un fitto bosco di fabule di ogni tipo, fino alla perfezione, di gusto tutto novecentesco, del racconto più emblematico della letteratura moderna, ovvero La Metamorfosi; tutto ciò solo per dare una minima idea della tradizione in cui affonda le sue radici una evidente, nuova e benvenuta, ondata di interesse editoriale per questo genere di racconti. Ecco, a partire da questa idea possiamo leggere oggi in lingua italiana (nella prima traduzione dal Tamil apparsa nel nostro paese) Punacci, un libro memorabile, che non solo sovrasta la maggior parte dei libri animali (chiamiamoli così per praticità) pubblicati negli ultimi anni, ma che è anche una perla di una letteratura ancora tutta da scoprire per il lettore italiano; caratteristica che conferisce al racconto un sapore esotico alla Mille e una notte, ed eleva le vicende di questa eccezionale capretta nera alla dimensione eterna del mito. Una storia che ci fa riflettere sul presente, che ci scuote dall’interno, ma che ci parla dal passato, o meglio, dal mondo sospeso nel tempo dei sogni, dove vivono gli spiriti e gli dèi.

Horizon di Barry Lopez

Cura e trad. Davide S. Sapienza (Black Coffee edizioni)

Per la gioia di tutti gli appassionati, finalmente è arrivato in Italia il grande capolavoro di Barry Lopez. Il libro al quale lavorò per trent’anni e che riuscì a vedere pubblicato in vita, per lasciarci poco dopo, nel 2020. Un vero e proprio libro-testamento di uno dei grandi scrittori del nostro tempo. Non solo uno scrittore di viaggio, un geografo narrativo, un camminatore e viaggiatore instancabile, un romanziere, un uomo che ha avuto anche il coraggio di raccontare la sua storia personale per denunciare una dinamica di abuso domestico abbastanza comune e supportare chi come lui ha vissuto e vive certi traumi. Una persona straordinaria – dai racconti di chi lo ha conosciuto – che ha saputo trovare uno strumento potentissimo per comunicare lo splendore del paesaggio e i messaggi che possono essere trovati, conchiusi nei dettagli, e magari seguiti, per sentire e vedere oltre ciò che è visibile. Horizon è il suo ultimo dono per chi abbia voglia di rivelare il significato dei luoghi che abitiamo con occhi nuovi e tracciare percorsi mentali diversi nel tentativo di immaginare e ricreare il Mondo che verrà.

Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni di Giovanni Attili 

(Quodlibet)

Vorrei lasciare il lettore a questo libro, come recita il sottotitolo, «senza aggettivi e senza altre specificazioni», perché più di altri libri credo che il riassunto dell’argomento di cui tratta depisti fortemente il curioso lettore. Altrimenti si dovrebbe semplicemente dire che parla di una località che ha per nome Civita di Bagnoregio (dove di recente è stato organizzato un festival “immaginario” chiamato Civitonia). Il libro sarebbe perciò un’inchiesta, storico-architettonica, su questo paese dalla storia singolare. Eppure, questo testo multimediale non si ferma qui, al contrario, è da qui che si slancia in un balzo concettuale in avanti – o meglio: verso l’alto, e quindi anche verso il basso – per «riscrivere la fine» tramite «l’arte del rovesciamento» (come recita lo slogan del “festival” di cui sopra). Civita è un’opera soprattutto immaginale e linguistica, evocativa, oscura nella sua conturbante chiarezza. Un testo dalla forza enciclopedica, ricco di un linguaggio raffinato e preciso, dove la prosa è composta come un mosaico d’altri tempi, un organismo complesso; Civita è un oggetto inclassificabile, inebriante, che potrebbe avere anche un effetto benefico, seguendo il percorso di catabasi senza risposte che propone. Un libro potente, affascinante e generativo. Non certo un libro necessario, anzi, un libro totalmente inutile, e forse anche per questo: essenziale per immaginare l’inimmaginabile.


Gianluca Didino

Da qualche anno Utopia sta ripubblicando Massimo Bontempelli; quest’anno è stato il turno di Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930), un romanzo che nelle atmosfere mi ha ricordato il Ballard degli anni Sessanta: è un racconto allucinato sulla bellezza come forza distruttrice, realista e surrealista al tempo stesso, conturbante e disperato, leggendo il quale si ha l’impressione disturbante, comune in Bontempelli, di essere imprigionati da qualche parte in un passato alternativo. Nel tentativo di capire a livello psicologico l’invasione russa dell’Ucraina mi sono deciso a leggere un libro che avevo sul comodino virtuale da anni, Un terribile amore per la guerra (2007) di James Hillman: ultimo lavoro di quello che considero il miglior scrittore tra i grandi psicologi, questa estesa, spietata, profonda e personale analisi del ruolo di Marte nelle nostre vite ha il pregio, raro in Hillman, di essere tanto poetico quanto comprensibile; una lettura fondamentale per capire cos’è questo bisogno di distruzione reciproca dentro e fuori dalle nostre anime. Non avevo mai letto invece César Aira, e l’ho fatto quest’anno iniziando da Un episodio en la vida del pintor viajero (2000), tradotto nel 2018 da Fazi con l’abominevole titolo di Il pittore fulminato: questo breve romanzo saggistico fa parte di due tradizioni letterarie che adoro, quella della biografia condensata (sullo stile di Michon, Jaeggy, Schwob) e quella del viaggio enumerativo in America latina (qui basta aprire un diario qualsiasi di un viaggiatore del XVIII o XIX secolo, da Humboldt a E.B. Taylor), a cui si potrebbe aggiungere a buon diritto la theory-fiction; si parte come il resoconto quasi documentaristico di un momento dell’arte e dell’esplorazione occidentale e si finisce nell’allucinazione più totale, un piccolo gioiello.


Francesco D’Isa

Lutti e malattie potrebbe sembrare il titolo di un libro che suggerisco, magari un inedito di Cioran, ma è una breve descrizione del mio 2022 – un anno difficile che riconosco anche allo specchio delle mie letture, più scarne e sparpagliate del solito. D’altra parte che avesse ragione Buddha lo sapevo già – leggetevi Una storia del buddismo di Bee Scherer (Ubiliber) se volete una panoramica – e questo mi ha molto aiutato. Una bella scoperta nel difficile ambito della filosofia perenne invece, del tutto priva delle sue semplificazioni, è Sufismo e taoismo di Toshihiko Izutsu (Mimesis); un parallelo tra due tradizioni apparentemente lontane di un autore di cui consiglierei praticamente qualunque libro. Il 2022 è anche l’anno della popolarizzazione delle intelligenze artificiali, che intelligenti non sono, essendo strumenti, ma che ancora non hanno un sinonimo comodo. Molti ne parlano e pochi le conoscono, perciò consiglio a chiunque il breve libro L’estetica dell’intelligenza artificiale, di Lev Manovich (Sossella), pioniere del mezzo che vi consiglio di seguire anche sui social. Se invece volete un’esplorazione più visiva, Fastwalkers (D Editore), imperdibile libro d’arte del greco Ilan Manouach; un hentai scritto e disegnato con questi strumenti che più che dimostrare dove arriveranno nel prossimo futuro ci indica la loro autentica natura.


Alessia Dulbecco

Come ogni volta in cui l’Indiscreto mi coinvolge per stilare i consueti consigli, provo a proporre a chi mi leggerà titoli e suggerimenti nel solco di quella “pedagogia weird” che tanto mi è cara. 

La selezione si orienta intorno a testi in cui l’evidente portata educativa si intreccia con questioni proprie del femminismo, della tanatologia, dei diritti civili e della crescita personale. Per questo non posso partire se con “Da che parte stiamo”, testo di bell books che Tamu edizioni ha portato in Italia da poche settimane. Si tratta di un volume importante perché coniuga femminismo, razzismo e lotta di classe in una prospettiva inedita e indispensabile se vogliamo leggere i fenomeni sociali nella loro complessità. Come sempre, hooks propone la sua visione pedagogica fatta di impegno e responsabilità collettive. Un testo fondamentale, soprattutto in un periodo storico come quello che stiamo vivendo.

Libreria Cortina Milano ha pubblicato “La materia per pensare la morte”, un testo nato da un workshop tenutosi a Milano nel 2018 che aveva lo scopo di continuare il dialogo avviato dall’antropologo Ugo Fabietti sul rapporto tra la materialità, la vita e la morte. Il volume si compone di molteplici saggi che affrontano aspetti diversi (dal lutto perinatale ai rituali funebri, fino al Covid alla sua eredità in termini di morti) offrendo suggestioni per (ri)pensare la morte nel suo complesso rapporto con il lutto e, per chi resta, la conseguente ripartenza.

Come graphic novel suggerisco “Barba”, pubblicato recentemente da Larterza, è insieme un memoir e un testo utile per fare chiarezza attorno a identità e espressione di genere, sesso biologico, orientamento affettivo e sessuale. Alec Trenta narra la storia di Ale, un ragazzo che ci racconta come abbia fatto a nascere due volte. Si tratta di un volume capace di rappresentare, con ironia e leggerezza, la complessità di un processo delicato come quello della transizione, mettendo bene in luce la fragilità e la forza necessari a sostenerlo soprattutto quando il contesto sociale non sembra ancora in grado di coglierlo per ciò che è, ossia un’esigenza e non una velleità.

L’ultimo suggerimento è un manuale pensato in particolare per chi si occupa di design e comunicazione, ma che si rivela una buona lettura per tutti/e. Extra Bold, pubblicato da Quinto Quarto, è un volume che prova a raccontare come il patriarcato suprematista bianco abbia condizionato il mondo dell’arte, della progettazione e della grafica. Gli spazi in cui ci muoviamo, gli oggetti che usiamo e il modo in cui ci vengono proposti sono dominati da una norma che va riscritta seguendo una logica inclusiva, capace di tener conto delle esigenze di tutte le soggettività indipendentemente dal genere, dal colore della pelle o dal corpo che abitano. Riconoscerne l’origine e ascoltare le voci di chi ci sta provando è il primo passo, quello più difficile ma necessario.


Adriano Ercolani

Anime, Roy Chen, Giuntina, 2022

Libro appassionante, rocambolesco, proteiforme, ardita quanto solida metafora della tradizione (in tutte le sue accezioni) della cultura ebraica: la trasmigrazione di un’anima attraverso la stratificazione storica, un romanzo che diventa testo teatrale, una vita che si reincarna in destino di un popolo. Da leggere con trasporto.

Monte Verità. Back to Nature, a cura di Nicoletta Mongini, Chiara Gatti e Sergio Risalti

Quando alcuni mesi fa Grazia Marchianò mi parlò delle Conversazioni di Eranos nella storica Libreria Rotondi di Roma, rimasi folgorato. Ora Lindau ci offre un libro, ben documentato e corredato da foto eccezionali, che testimonia la straordinaria esperienza del “Monte Verità”, come la comunità di intellettuali ribattezzò il Monte Monescia, sul Lago Maggiore, nel Canton Ticino. Una comunità fondata sul ritorno alla Madre Terra, tra vegetarianesimo, naturismo e danze rituali.

Una comunità formata da nomi straordinari, nel corso dei decenni, da Carl Gustav Jung a Martin Buber, da Herman Hesse a Paul Klee, passando per i fondatori della Bauhaus e Isadora Duncan (per tacere di Kropotkin e, si dice, forse anche Lenin e Trotskij). Un’esperienza culturale da approfondire assolutamente.

Storia del Necronomicon di H.P. Lovecraft, a cura di Sebastiano Fusco, Venexia

Lovecraft è uno degli autori più vertiginosi e abissali degli ultimi due secoli. Il Necronomicon è la sua invenzione più misteriosa, vertiginosa e letterariamente feconda, in grado di ispirare, concettualmente e operativamente, menti geniali e incendiarie, da Jorge Luis Borges ad Alan Moore, per tacere di un consistente numero di attivi cultori di sperimentazioni occultistiche.

Sebastiano Fusco, figura vulcanica e dalla impressionante erudizione in ambito esoterico, è uno dei massimi esperti dell’opera di Lovecraft, non solo in Italia. Devo aggiungere altro? Il saggio pressoché definitivo su uno dei più grandi misteri letterari degli ultimi secoli.


Ilaria Gaspari

Fiabe, di Hans Christian Andersen, trad. Anna Cambieri, Mondadori.

Sono le fiabe dell’infanzia, ne conosciamo un’infinità, spesso in versioni distanti dall’originale. In una bella libreria di Roma, su via Panisperna, ho visto l’edizione completa Mondadori, un volumone spesso e scritto piccolo piccolo. Non ho resistito e l’ho comprato, e ora mi leggo una fiaba al giorno. I vestiti nuovi dell’imperatore l’ho letta a una prima elementare durante un progetto che mandava scrittrici e scrittori nelle scuole: hanno riso molto all’idea dell’imperatore nudo. La Sirenetta, letta qui, strazia il cuore. Sono fiabe crudeli e trasparenti, leggerle è come guardare in fondo a un lago gelato e avere paura, ma sentire, insieme, una leggera ebbrezza.

I Buddenbrook, di Thomas Mann, trad. Anita Rho, Einaudi. 

Mi è successo recentemente di parlarne con qualcuno, e mi sono resa conto con orrore che, del romanzo tanto amato nei miei quindi anni, ricordavo solo scene sparse, i nomi dei personaggi, l’atmosfera. L’ho ripreso e ci sono piombata dentro, perché è un romanzo che fin dalla prima scena ti fa precipitare all’indietro nel tempo, in un palazzo elegante di Lubecca. In una famiglia di cui ti ritrovi a vivere ascesa e caduta come se fosse una famiglia che conosci dall’infanzia, come se tutto fosse vero. Perché lo è, vero: è quello che succede con i romanzi mastodontici come questo, quei romanzi dentro cui puoi agevolmente abitare. 

Ti seguo, di Sheena Patel, trad. Clara Nubile, Atlantide. 

Un romanzo che parla di social, e lo fa con cattiveria sardonica, con divertimento, con crudezza. Mi è piaciuto molto, perché mentre leggi ti fa entrare in un lieve delirio narcisistico, ti tiene in tensione come un buon thriller psicologico, e ti costringe a riflettere su cose che nelle nostre vite occupano uno spazio talmente flessibile da risultare impercettibili, e invece sono come rampicanti, aggettano raspi dappertutto.


Francesca Matteoni

Ronald Hutton è uno dei più notevoli storici della stregoneria, che ha per primo rivolto il suo interesse alla Wicca e al paganesimo contemporaneo, meritandosi il rispetto sia della comunità scientifica sia di quella neopagana. Lo si può leggere in traduzione italiana nel suo Streghe. Una storia di terrore dall’antichità ai giorni nostri (Il Saggiatore), spaziando nell’antichità e nel contesto universale, per fermarsi sulla soglia dei processi moderni. Hutton ricostruisce le caratteristiche della strega, fornendo strumenti per comprendere le ragioni dello stereotipo (donna e anziana) e delle credenze comuni ancora diffuse. Magia egizia, demoni babilonesi, cacce selvagge nei cieli invernali, l’affascinante, presunta connessione fra streghe e sciamani formano gli ingredienti del saggio, oltre a un’esaustiva bibliografia per continuare a interrogarsi sulla creatura umana più temuta al mondo. 

Gwenn Rigal è stato per anni la guida delle grotte di Lascaux, nella Francia sud-occidentale. Nel suo Il tempo sacro delle caverne (Adelphi) ci conduce là dentro, in un sogno di bestie ed esseri teriomorfi, evocati nella mente dal paesaggio quotidiano dei nostri antenati. Perché ci riguarda? È la domanda che riaffiora fra gli uri, i cavalli, i rinoceronti, i tori dipinti di nero e d’ocra, pronti a fare un salto di secoli per toccarci. Sfogliate questo libro immergendovi in tutte le possibili risposte. Forse la sostanza sfuggente di cui siamo fatti è davvero dipinta nel mistero buio del paleolitico. Pensate con il corpo. Leggete animali. 

Tempo profondo è anche il tempo dell’infanzia, quell’assoluta presenza nelle cose che si farà memoria e racconto, invecchiando. Concludo quindi con un classico personale, letto accanto a una stufa molti inverni fa: Infanzia berlinese (Einaudi) di Walter Benjamin, autobiografia per frammenti epifanici dove gli oggetti e i luoghi di un bambino si rianimano e soffiano la loro realtà indistruttibile sulla precarietà dell’età adulta.


Enrico Monacelli

bell hooks, Da che parte stiamo: la classe conta (Tamu, 2022, traduzione di Marie Moïse)

“Oggi va di moda parlare di razza o genere, l’argomento impopolare è la classe: ci rende tesi, nervose, in dubbio quando ci chiediamo da che parte stiamo”. bell hooks scrisse questo incipit all’inizio di questo nostro ventunesimo secolo, ma non molto è cambiato da allora: la classe sociale è la cosa che tutti abbiamo, ma che, per un motivo o per un altro, tutti vorremmo dimenticare. Se volete generare imbarazzo, anche fra i vostri conoscenti più radicali, parlate schiettamente e apertamente delle divisioni di classe che spaccano la nostra società. Il pregio del libro di bell hooks è la capacità di esplorare questo imbarazzo con fermezza e lucidità, raccontando il suo e il nostro vissuto all’interno del capitalismo.

Cynthia Cruz, Melanconia di classe: manifesto per la working class (Atlantide, 2022, traduzione di Paola De Angelis)

Continuiamo a parlare di cose imbarazzanti, continuiamo a parlare di classe. Il libro di Cruz – pubblicato in inglese da Repeater, la fu casa editrice di Mark Fisher – non è certamente una lettura rassicurante: il tema portante sono le passioni tristi che caratterizzano la vita emotiva collettiva della working class. Il senso di impotenza e abiezione, ma anche la vergogna e il risentimento di chi riesce a lasciarsi la sua posizione di classe alle spalle. Un martirologio della classe operaia, zeppo di working class heroes e vite sommerse sotto il peso dell’ingiustizia sociale.   

Gloria Anzaldùa, Terre di confine/La frontera (Black Coffee, 2022, traduzione di Paola Zaccaria)

Terre di confine/La frontera è una lettura stupefacente: un libro tenacemente ibrido in cui saggio e poesia lavorano per sovvertire l’immagine del mondo calcificata nelle nostre menti e nelle nostre ontologie. La frontiera, vera protagonista di queste pagine, è certamente e innanzitutto un luogo fisico, più che reale. La frontiera è infatti prima di tutto il confine che separa gli Stati Uniti dal Messico, demarcazione su cui si giocano vite e morti di un gran numero di persone. Ma la frontiera è anche, per Anzaldùa, una possibilità cognitiva e esistenziale: la possibilità di pensare e vivere il mondo in modo totalmente diverso.


Gabriele Merlini

Uno. Da qualche tempo, e con motivazioni anche comprensibili, il sacro per Nick Cave si è fatto rifugio e sfida; aspetto dell’esistenza cui approcciarsi con riguardo, rabbia e – mai manchi nella vita – sarcasmo. L’attività live che diventa catarsi, l’unione messianica con i corpi degli adepti sotto al palco per mondarli e da loro essere purificato ché va bene, veniamo al mondo colpevoli di un mucchio di robaccia ma restiamo fatti per ascendere e svolazzare verso la luce. Dunque il dialogo tra il compositore e Séan O’Hagan intitolato Fede, speranza e carneficina (la Nave di Teseo, 2022) assume da subito la forma di un’intensa confessione, sfogo funzionale a restituirci un percorso artistico ed esistenziale meritevole nonché una storia personale intrisa dei destini dell’universo; arte, dolore, tecnica, intemperanze e ubriacature. Forme di pensiero vulnerabili ma granitiche non frequenti tra gli esseri più o meno normali, quasi uniche tra gentaccia tipo i musicisti. 

Poi, due. Pure in Desiderio postcapitalista. Le ultime lezioni (minimumfax, 2022) trattiamo di scambi di vedute, sebbene stavolta tra Mark Fisher e alcuni studenti. Forse meno impattante di altri testi già qui segnalati – del resto la forma cattedratica agevola aspetti specifici, per lo più umani e relazionali – però al pari tassello importante nella ricostruzione di una visione critica ancora attuale, utile e – persino in assenza di divagazioni sulla techno – preziosissima (a proposito, potendo: optate sempre per occupare i licei e gli atenei.) 

Infine, tre. Causa strani casi del destino finisco in un momento quanto mai particolare su Patrimonio di Philip Roth (Einaudi). Breve retrospettiva avente al centro la figura di Herman Roth, genitore dell’autore alle prese con un mucchio di storie di varia importanza. Società, cultura, tradizioni, chiusure e ombre di un’America datata ma attuale, oltre al rapporto con un figlio abbastanza complesso. Ottimo memorandum sull’importanza dell’ironia quando non siamo fenomeni nell’aprirci verso individui ai quali, maledizione, dobbiamo molto.


Vittorio Ray

I miei stupidi intenti. B. Zannoni, Sellerio. Sellerio è un’Adelphi meno stronzetta? Pensiamoci. Comunque questo romanzo è un gioiellino d’essai, un’opera prima e giovanissima che però non ha bisogno di bonus di categoria per competere nella letteratura. È la piccola saga familiare di un gruppo di animali nel bosco. Zannoni usa una lingua minimale e stringata, secca, stupenda.

Pompeo, A. Pazienza, Coconino Press. Voi pensate che lo abbiano già letto tutti i vostri amici, ma vi assicuro che non è così. D’altronde so bene che è un titolo troppo facile, quindi più che spiegare la trama adesso dovrò dare dei motivi di ordine ulteriore per cui vale la pena regalarlo. 1. È un oggetto che costa 20€, ingombra e pesa. Non è che “te la sei cavata con un libro”, hai fatto uno sforzicino in più. 2. È un’introduzione al fumetto, e coi numeri in crescita dei matti che vanno ogni anno ai festival di pupazzetti & cosplay, sempre bene tenere la finestra aperta. (In realtà secondo alcuni è quasi l’anti-fumetto, è un romanzo con una cura linguistica prelibata, e in omaggio alcuni disegni. Ma non divaghiamo.) 3. Contiene parecchie pagine instagrammabili, cioè dense, rotonde, conchiuse, commoventi. 4. È il fumetto più bello della storia mondiale dei fumetti. È come regalare una cravatta di Marinella, pure se non te la metti intanto ce l’hai nell’armadio.

Una breve storia dell’uguaglianza, T. Piketty, La nave di Teseo. Non è vero che “There’s no alternative”: la storia della distribuzione socioeconomica è stata piena di alternative, quasi tutte più orribili – secondo i canoni che mediamente ci piacciono – del mondo in cui stiamo vivendo. In questo breve riepilogo di come dall’enorme disuguaglianza siamo arrivati a una relativa – seppur ancora molto imperfetta – uguaglianza, Piketty ci ricorda anche la freschezza e la fragilità di molte conquiste che oggi diamo per atemporali e immutabili. L’economista francese invita l’area progressista al riconoscimento del fatto che, se da un lato è innegabile – dati alla mano – il progresso dell’umanità sul piano dell’uguaglianza, dall’altro è necessario tenere a mente che tale progresso può essere più o meno accelerato da strategie politiche che sappiano insistere sulla traccia giusta, piuttosto che abbandonarsi a fantautopie o disfattismi. Ottimo regalo per amici massimalisti e/o depressi.


Vanni Santoni 

Come sempre, consiglio anzitutto ai lettori di spulciare le “Classifiche di qualità” per la letteratura straniera 2022 di questa stessa rivista, uscite da poco e piene di titoli interessanti; al di là di quelli che già hanno avuto un buon riscontro, le Classifiche hanno avuto il merito di ridar lustro ad altri che non hanno avuto subito la ricezione che meritavano – penso ad esempio allo splendido Belladonna di Daša Drndić (La nave di Teseo) o a Nessuno ne parla di Patricia Lockwood (Mondadori), oppure per la saggistica al vincitore, il decisivo Lalba di tutto di David Graeber e David Wengrow (Rizzoli), che avrebbe tutte le caratteristiche per “sfondare” anche presso il pubblico di massa, essendo uno di quei “saggi antropologici illuminanti” nel filone di Armi acciaio e malattie di Diamond, Il dilemma dell’onnivoro di Pollan o La scimmia nuda di Morris che in genere incontrano il gusto di un pubblico molto trasversale. 

Fuor di classifica, le letture più belle di questo ultimo scorcio d’anno sono state 4 3 2 1 di Paul Auster (Einaudi), che mi ha commosso, non tanto o non solo per i contenuti, quanto per lo spettacolo di vedere un autore tirar fuori il proprio romanzo migliore a settant’anni suonati, e Black Tulips di Vitaliano Trevisan (Einaudi Stile Libero), che sarà pure il classico libro postumo incompiuto ma è un vero libro, e pure bello, un ottimo sidecar alla supermoto di Works.


Edoardo Rialti

Genesi, Einaudi

il trucco per disinnescare le sovraletture confessionali della Bibbia, quella vibrazione d’eco per cui crediamo già di conoscere il testo che ci è pervenuto filtrato da così tante strutture e mediazioni, e che per molti risulta così inscindibile dalle violenze e ottusità che le accompagnano, è leggerla in parallelo con le altre narrazioni archetipiche dello stesso bacino, come la saga di Gilgamesh o le fiabe egizie e persino i poemi omerici. Come puro racconto, allora, la Genesi si rivela ancora oggi uno degli affreschi narrativi più potenti, sottili, ironici, dei vari contrasti familiari, verticali e orizzontali, la mappatura di tutte le tensioni che intercorrono tra esseri umani, un nodo avviluppato di tensioni e desideri, sogni, frustrazioni e competizioni che continuiamo a rigirarci tra le mani. Schermaglie sapienziali, conoscenza erotica che sconfina nella magia, stupri, omicidi, innamoramenti che cambiano l’esistenza, agnizioni shakespeariane. Basti pensare alla vicenda di Giacobbe, lo sciancato che lotta con Dio, questo Ulisse ebreo (che sfrutta lo stesso espediente del re greco, quello della pelle animale sulle spalle….) dotato di infinite risorse e irresistibile, seducente sicumera, i contrasti feroci a colpi di figli tra le due mogli, Rachele “bella di viso e di forme” e Lia “dagli occhi smorti” (unica eloquente informazione fornita dal testo), e la scaltrezza a sua volta irresistibile dello zio Labano, uno dei più magnifici figli di puttana della letteratura antica, che pare sempre sorridere con la segreta allegria di chi ti abbia appena rifilato una fregatura micidiale senza che vi sia nulla di personale. Solo da questo episodio Pasolini avrebbe potuto ricavare un intero film dei suoi. Da Ibsen a Bergman a Roth, siamo ancora tutti laggiù. Ottimi strumenti di lettura sono costituiti anche da Il libro dei libri di Roberto Calasso (capace da par suo di dimostrare come le dinamiche immaginative bibliche arrivino fino a Freud e alla metafisica laica della psicoanalisi) e -ovviamente- Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, che fa esplodere i potenziali narrativi del testo stesso. Per chi volesse bilanciare con un contrasto salutare c’è poi la splendida trilogia fantasy Queste oscure Materie di Philip Pullmann (Salani), che rinarra la Genesi in un viaggio tra mondi dal punto di vista del Serpente/Satana.

Più brevemente

“Tornando alla ramanzina del capo che si lamenta pe ril rendimento e dà la colpa agli operai, mi ricorda un detto popolare: il culo prende le botte mentre a pisciare il letto è stato l’uccello”. Tuta Blu di Tommaso di Ciaula (meritoriamente ripubblicato da Alegre), romanzo del 1978 è un magnifico memoir scritto con rabbiosa poesia e le cadenze della saggezza popolare sull’industrializzazione del Meridione, lo svilimento della classe operaia, i compromessi dei portabandiera ideologici, il lento consumarsi delle forze psichiche. “Qui tutto è una merda, è tutto disorganizzato. La cosa più organizzata è la mafia.”

Nei giorni un po’ più vuoti e silenziosi che precedono o intercorrono tra le feste quantomeno il sottoscritto ha sempre voglia anche di quei libri vasti e un poco pettegoli che si possono quasi aprire a caso, e nei quali si può fluttuare buttati sul divano mentre fuori l’aria è fredda e le ore hanno una cadenza lievemente diversa. Erodoto, Chesterton e Dickens costituiscono dei buoni esempi. Shakespeare, una biografia di Peter Akroyd (Superbeat) possiede proprio una simile qualità “invernale”. È, al tempo stesso, una grandiosa immersione nelle luci, suoni, odori dell’Inghilterra elisabettiana, un mondo di paglia, fango, broccati, un universo lurido e sfarzoso, provinciale eppure sulla soglia del più grande impero coloniale del mondo, e proprio attraverso tale caleidoscopio di elementi materiali, sociali, culturali, dalle tipologie di alberi nella foresta di Arden all’etichetta di corte, una splendida introduzione a quella sintesi alchemica della nostra perenne condizione sulla Terra che furono e sono le parole del Bardo, che proprio in quel contesto sbocciarono, tanto ad esso intrecciate quanto ultimamente altre, imprevedibili.


Roberto Paura

Mario Pomilio, Il quinto evangelio (1975)

Il periodo di Natale può essere l’occasione giusta per leggere questo romanzo di Mario Pomilio che a buon diritto è stato definito un precursore del Nome della Rosa di Umberto Eco; certo manca un vero intreccio romanzesco, ma in compenso l’estensione cronologica va ben al di là di quella del Trecento italiano e spazia dal primo secolo dell’era cristiana ai giorni nostri. È un dossier raccolto negli anni da un americano che per caso, durante l’ultima guerra, si imbatte nella Germania occupata in una ricerca incompiuta intorno a un presunto quinto vangelo, di cui, con immensa ricchezza di pseudo-citazioni sparse in duemila anni di letteratura occidentale, Pomilio ci convince della sua esistenza. Quale sarebbe la natura di questo vangelo lo si intuisce soltanto dalle citazioni, perché è chiaro che per il suo contenuto già i padri della Chiesa lo avrebbero fatto sparire dalla circolazione, alla stregua del secondo libro della Poetica di Aristotele. Ce ne possiamo fare un’idea da questo brano del romanzo, che riecheggia il capitolo del Grande Inquisitore di Dostoevskij: “Dovete sapere che i santi del cielo, indignati al vedere gli uomini infedeli e dissoluti, un dì stabilirono di tenere consiglio per vedere in qual maniera li si potrebbe convertire. E lì, dopo molte dispute, propose uno tra gli altri che, siccome non era bastato che il Figliuolo di Dio s’incarnasse e fosse morto, doveano ormai i santi muovere alla conquista della terra e ridurre a forza gli uomini a virtù e verità. Piacque molto il consiglio: e mossi i santi impavidi e formata gran legione, ebbero in breve e con poca guerra conquisa l’intera terra. E il governo di questa affidato a pochi giusti che vi trovarono, i cattivi e tutti coloro che erano stati tardi a convertirsi raccolsero insieme in una gran valle dove, eretti dei gran roghi, s’accinsero a sterminarli affinché cessassero d’infettare il mondo. Era a tal fine già ogni cosa apparecchiata quando scorsero un uomo che procedea frammezzo agli altri seco recando sulle spalle una croce e su quella dimandando, come parea, di venir morto. Grave scandalo parve ai santi che un comun peccatore dimandasse la stessa morte del nostro Salvatore. Per cui, fattolo legare e accompagnatolo presso San Pietro, conobbe costui, il quale l’avea conosciuto in vita, che si trattava propriamente del Cristo Gesù: e mostratagli la sua meraviglia che il Figliuolo di Dio si trovasse confuso fra gl’infimi tra tutti gli uomini, e dov’era la peggior feccia, gli rispose Gesù che, se ben si rammentava delle parole che altra volta gli avea dette, il Figlio dell’Uomo non era venuto a salvare i giusti, ma i peccatori. E aggiunse che, se gli bastava che un solo morisse per tutto il popolo, come già era bastato al Padre che è nei cieli, lui era diliberato a morire nuovamente per loro, visto che al mondo non aveva chi dai santi gli scampasse. Confusi ristettero i santi e, lasciata ogni altra impresa, presero seco Gesù e lo riportarono in cielo: dove tengonlo tuttavia legato, perché non torni in terra a dare scandalo”.

Paolo Pombeni, L’apertura. L’Italia e il centrosinistra (1953-1963) (2022)

Lettura fondamentale per chi, magari complice la fresca visione di Esterno notte di Marco Bellocchio, voglia capire l’importanza politica di Aldo Moro. Pombeni racconta con maestria un passaggio-chiave della storia repubblicana: l’apertura al PSI che portò alla nascita del centro-sinistra negli anni Sessanta. Passaggio cruciale e meditato dai principali esponenti della DC (Moro e Fanfani in primis) come necessario per mitigare gli eccessi del boom economico che avevano prodotto gravi disparità e permesso a molti affaristi di produrre – con la complicità dei governi “centristi” – guasti diffusi nel tessuto sociale (e anche urbano) del Paese, cercando di superare la conventio ad excludendum della sinistra che aveva colpito non solo il PCI ma anche il PSI, reo di essersi presentato unito nel Fronte Democratico Popolare nel 1948. Moro tra tutti avvertiva l’artificiosità di quell’incisione provocata dal bisturi americano all’alleanza antifascista che aveva governato l’Italia nel suo periodo più critico (1944-1947) per obbedire al nuovo ordine di Yalta, osservando quanto fosse sbagliata l’equazione che accomunava partiti di destra a partiti di sinistra: in quanto i primi si richiamavano all’eredità monarchica, qualunquista e antidemocratica del fascismo, mentre i secondi avevano condiviso l’esperienza della Resistenza e quella democratica della Costituente. Sulla base di queste ragioni si sviluppò il lungo e meticoloso lavorìo che portò prima al “centro-sinistra programmatico” (con il PSI che non entrava nel governo ma dava la fiducia, o meglio si asteneva) e poi al “centro-sinistra organico” con il definitivo ingresso del partito di Nenni al governo. Stagione duratura che però – il libro non ne parla perché si ferma prima – dopo gli iniziali successi riformistici si avvitò nell’incapacità di offrire risposte alle masse che percepivano la rapidità dei tempi nuovi dopo il ‘68 e che avrebbero spostato i loro voti sempre più a sinistra. L’apertura del centro-sinistra aiuta a illuminare l’altro passaggio cruciale della storia repubblicana, quello invece fallimentare del “compromesso storico” con il PCI che maturò negli anni Settanta, ancora una volta con Moro protagonista, convinto della possibilità di replicare quella stessa formula. Come Nenni, Berlinguer ce la mise tutta a smarcarsi dall’abbraccio mortale dell’URSS che Togliatti non aveva mai saputo disconoscere, preparando il terreno alla possibilità di nuove “convergenze parallele” con la DC. Ma l’omicidio di Moro fermò tutto. Questo libro aiuta anche a ragionare su quella drammatica circostanza senza farsi tentare da spiegazioni complottiste. Il progetto di Moro di portare i comunisti nella maggioranza di governo rispondeva al suo designo consociativista che non riusciva a immaginare un’alternativa di governo alla DC, ma dimostrava al Paese plasticamente che non esistevano reali alternative a quel sistema se non la sinistra extraparlamentare e la lotta armata. Da qui il contesto in cui maturò il rapimento. Quanto all’omicidio: uomo del compromesso sempre e comunque, dopo aver persuaso i suoi colleghi ad abbracciare i socialisti prima e i comunisti poi, avrebbe fatto lo stesso con le Brigate rosse, riconoscendole come interlocutori politici? Fu questa prospettiva, nient’affatto impossibile, che persuase i suoi compagni di partito a chiudere ogni trattativa per evitare di trascinare l’Italia in una guerra civile. Se si segue una simile lettura, dunque, Aldo Moro fu semplicemente la vittima di sé stesso.


Greta Plaitano

Paura di Stefan Zweig è stato per me un regalo, e non soltanto in senso figurato. Come tutti i libri ricevuti in dono, il giorno in cui l’ho scartato con foga ho pensato subito che molto probabilmente non lo avrei mai letto. Eppure, l’edizione Adelphi rosso cangiante e la sua brevità mi hanno spinta a superare i miei soliti pregiudizi, dando una chance alla novella di uno fra gli scrittori più importanti della sua epoca. Di Zweig colpisce sempre la precisione con la quale analizza un problema preciso, che striscia lentamente fuori da una storia che pare banale: un tradimento e le sue conseguenze. Nel seguire il tormento emotivo di una donna sposata invaghitasi del giovane amante, poi perseguitata da una megera assetata di denaro, si scopre cosa muove le azioni più semplici di una coppia in crisi che si accartoccia su se stessa tra disincanto, desiderio, vergogna e paura. 

L’incontro con Atti di sottomissione di Megan Nolan, invece, è stato il frutto di un buon consiglio. E di una nuova serie della casa editrice NNE, ‘Le fuggitive’, che promette senza ricredersi storie al femminile che parlano di trasformazione e libertà. Nolan apre questo ambizioso progetto con un memoir sincero, in cui la protagonista si innamora di un uomo crudele sino a perdere completamente le tracce di se stessa. In questa parabola mortificante in cui amore e dipendenza si allineano senza mai lasciarsi, l’autrice prova ad attuare una possibile – per quanto complessa – resilienza, giocata sull’esame degli eventi e sulla loro narrazione fitta di crepe, dalle quali emerge una forte senso di autocritica immune al naturale vittimismo.

Sanguemisto di Gabriela Wiener, infine, è stato un incrocio casuale, di quelli che di norma capitano di notte agli angoli dei bar e finiscono al mattino successivo, dopo fiumi di parole inaspettate, troppo alcool e una sensazione di stordimento e bellezza profonda. Il libro della giornalista e scrittrice spagnola di origine peruviana – pubblicato in Italia da La Frontiera –  intesse infatti una storia personale fatta di lutto, amore, memoria e violenza che si inerpicano lungo il pericoloso versante della ricerca delle proprie origini e della decolonizzazione non soltanto dei beni culturali ma anche di corpi e desideri che devono emanciparsi dai coercitivi canoni occidentali.

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