La calura avanza e la voglia di lavorare diminuisce – può però aumentare quella di leggere, magari in un angolino fresco. Ecco una lista di letture consigliate dalla nostra redazione per la vostra estate. Ognuno di noi, autori e autrici di questa rivista, vi consiglia cose (belle o almeno un po’ interessanti) da leggere in questi mesi di calura.
IN COPERTINA: Auguste Reading to Her Daughter, 1910 – Mary Cassatt
di Redazione
Stefania Berutti
Mark Twain, “Ritorno a Costantinopoli”, Mattioli 1885 2019
Nel novembre del 1867 il piroscafo Quaker City lascia le coste statunitensi per intraprendere una delle prime crociere transatlantiche: cinque mesi e mezzo per visitare l’Europa e poi Gerusalemme e i luoghi biblici della Palestina. A bordo, insieme a un gruppo eterogeneo di cittadini del Nuovo Mondo, troviamo Mark Twain con consorte e proprio alla penna del giornalista californiano è affidata la narrazione della crociera. Twain pubblicherà “The Innocents Abroad”, quasi a sottolineare un certo atteggiamento naif dei compagni di viaggio. “Ritorno a Costantinopoli” racconta l’ultima parte del viaggio europeo, prima che il piroscafo raggiunga la Terra Santa. Il resoconto di Twain sembra sempre in bilico tra il disincanto dell’osservatore sarcastico, che prende nota delle manie dei suoi concittadini e si lancia in commenti caustici sulle abitudini di popolazioni così distanti culturalmente, e la cronaca di viaggio di un amante di storia e arte antica. Imperdibile la descrizione della sortita notturna – evitando le lungaggini della quarantena – per visitare l’Acropoli di Atene al chiaro di luna e il conseguente incontro con i guardiani della cittadella, che si fanno velocemente corrompere, e poi con improbabili figuri che difendono le proprie vigne dagli Americani affamati. Dopo la visita a Costantinopoli il gruppo continua fino a Odessa, dove avviene l’incontro con lo Zar e la sua famiglia e dove emerge la naivete degli “innocenti” alle prese con il protocollo di corte. Il piroscafo si dirige poi verso sud, lungo la costa turca e fa scalo a Efeso: Twain è ora impegnato a ritrovare i luoghi della Bibbia e conclude, da par suo, la relazione di viaggio con una gustosa rievocazione in chiave moderna della breve giornata dei Sette Sapienti, appena risvegliati dal loro sonno centenario.
Marius Schneider, “Pietre che cantano”, SE 2019
I Sette Savi tornano anche in questa pubblicazione, ma in una veste decisamente più tradizionale. Marius Schneider è stato un celebre etnomusicologo e ha elaborato studi complessi e affascinanti in merito alle teorie musicali contenute nei testi vedici. In questo breve saggio analizza la decorazione dei capitelli di tre famosi chiostri catalani e attribuisce alle figure di animali fantastici e alle scene di vita quotidiana e di episodi biblici i valori delle note musicali. Si tratta di far incontrare il ricco immaginario indiano con la ricerca di armonia dei corali gregoriani: un’operazione che a tratti appare estrema allo stesso autore, ma che si fonda su dati filologici e sull’analisi delle teorie cosmogoniche orientali. Uno scritto di Elémire Zolla riassume e conclude l’entusiasmante lettura riprendendo le associazioni forse più preganti: il pavone, tanto presente nei capitelli romanici, che corrisponderebbe alla nota “re” e il drago, creatura fantastica legata alla palingenesi. Nel saggio di Schneider i canti polifonici vengono a buon diritto utilizzati come legende musicali per decifrare il palinsesto così composito dei capitelli medievali, luoghi ricchi di immagini che spesso attendono ancora di essere comprese.
A.S. Byatt, “Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris”, Einaudi 2017
Secondo Marcel Proust, il fascino che i pavoni esercitavano su Fortuny derivava dall’osservazione dei capitelli medievali di piazza San Marco. Nel libro di Ann Byatt entriamo nei mondi dei due artisti, attraverso le lettere scambiate con amici e conoscenti e impariamo a conoscere l’ispirazione della loro arte. Mariano Fortuny, appassionato del Mediterraneo e delle sue leggende, dei miti greci e della civiltà minoica che Arthur Evans riportava alla luce in quegli anni: aggirarsi nel suo studio veneziano e avvolgersi nei tessuti riccamente ricamati ci lascia addosso una sensazione da Mille e una notte, di spezie profumate e colori caldi, e il pavone è certamente un animale che riappare spesso nelle sue trame tessute. William Morris è invece l’uomo del Nord, della mitologia norrena, dell’Islanda e della natura selvaggia e indomata, del drago, inteso – proprio come il pavone – come creatura sempre in bilico tra l’offerta di vita e quella di morte.
-->Andrea Cafarella
La vita che brilla sulla riva del mare (Aboca) di Rachel Carson
Nell’introduzione a questa prima edizione italiana, la celebre scrittrice Margaret Atwood parla di Rachel Carson come di una santa (riprendendo la trasfigurazione che aveva già compiuto nel suo romanzo L’anno del diluvio, nel quale l’ha raffigurata come la Santa dei Giardinieri di Dio). Era una biologa marina ma è diventata famosa per essere stata pioniera nella denuncia agli effetti collaterali dei pesticidi con il suo libro più conosciuto: Primavera silenziosa. È incredibile pensare che suoi scritti risalgano alla prima metà del Novecento, quando la crisi climatica non era nemmeno un argomento di sottofondo, nel trambusto mediatico delle grandi guerre. Perciò è considerata una figura chiave per la nascita dei movimenti ambientalisti. Una veggente. Se fosse stata ascoltata ai suoi tempi, adesso il mondo sarebbe molto, molto diverso.
Credo – seguendo l’adagio confuciano – sia soprattutto oggi che riemerge il dovere di leggere i suoi libri e di scoprire uno sguardo diverso sulle cose del mondo. La vita che brilla sulla riva del mare è l’ultimo libro della sua “trilogia del mare”, dopo Al vento del mare e Il mare intorno a noi. Si tratta di un testo appassionante e meraviglioso, che ci può permettere di guardare e riguardare l’universo marino (cruciale nel discorso ambientalista) attraverso il confine che separa la terra dalle acque, per comprendere non la separazione ma il legame vivo tra i mondi e le entità che li abitano.
Bestie da soma (Edizioni degli animali) di Sunaura Taylor
L’esperienza di vita e lo studio – eterogeneo e radicale – di Sunaura Taylor confluiscono in un testo davvero difficile da digerire: come si possono intrecciare disabilità e animalità? Nella ricerca di una liberazione comune, ci dice Taylor. Non è un libro che vuole mettere gli esseri umani considerati “disabili” a confronto con gli animali non umani. Tutto l’opposto: il pensiero che li opprime e marginalizza è lo stesso. In realtà, quello che tenta di fare Sunaura Taylor è proprio di ampliare il discorso, costringendoci a riconsiderare i meccanismi di dominio che la nostra società compie ai danni degli animali non umani, raccontandoci una condizione – quella degli esseri umani che non sono identificati come ‘normodotati’ – poiché ci è più vicina, ci tocca. Così facendo avvicina il discorso a tutti gli esseri in generale, e trasmette una responsabilità politica cosmologica che si risolve in una forma nuova di “Etica della cura”. Possiamo apprenderla dai cani, e se vogliamo dai gatti, o dagli uccelli, dagli alberi, per ripensare il nostro modo di stare al mondo, singolarmente e come una collettività che non si fermi all’animale umano ma che possa estendersi a tutti gli esseri e all’universo intero.
La vita che vive (Neri Pozza) di Emanuele Dattilo
Non è mai semplice rileggere e affrontare nuovamente quei testi che hanno cambiato il corso della storia del pensiero, giacché si estendono in una nutrita glossa che fa ormai parte del testo stesso.
In questo libello Dattilo attraversa l’Etica di Baruch Spinoza e buona parte del commentario che nei secoli è scaturito da quest’opera cardinale della filosofia d’Occidente. La vita che vive non è però solo un testo critico che dialoga con Nietzsche, Daumal, Rensi, Deleuze e i molti altri che hanno incontrato questa pietra miliare. Innanzitutto: Dattilo torna al testo originale, rileggendo le parole che effettivamente Spinoza volle lasciare ai posteri, per ritrovare il cuore pulsante dell’Etica, anche a costo di tacciare di ingenuità alcuni dei pensatori di culto del Novecento. Lo fa, inoltre, tramite dei discorsi intimamente coesi e paradossalmente ampli ed eclettici, se vogliamo (lasciando apparire Kafka, Gombrowicz, i filosofi rinascimentali, testi dello scivaismo e della mistica islamica, e perfino Anna Maria Ortese, le cui parole danno il titolo al libro). La costruzione e gli argomenti di questo libro ne ribaltano totalmente il senso: non si tratta solo un’esegesi spinoziana di altissimo livello, ma soprattutto di un tentativo di riportare l’Etica all’oggi, di riappropriarcene per riconsiderare la vita e rifondare un’etica basata sulla «semplice sensazione di essere vivi».
Andrea Cassini
Animali non umani, Carl Safina, Adelphi, 2022
Secondo la prima definizione del vocabolario Treccani, cultura significa “l’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza”. Carl Safina, naturalista già autore del bellissimo Al di là delle parole, vuole farci capire che quel termine persona, a dispetto di chi lo vorrebbe a esclusivo appannaggio degli esseri umani, appartiene a ogni essere vivente. Ne consegue che il solco tra natura e cultura, tra cieco istinto e calcolata ragione, non esiste. Attraverso gli esempi di capodogli, scimmie e pappagalli, Safina mostra come differenti animali interpretino il significato di famiglia, bellezza e comunicazione tramite le rispettive culture; culture che si evolvono, che si difendono, che accolgono lati meravigliosi e oscuri – esattamente come le nostre.
Contro il lavoro, Giuseppe Rensi, WoM Edizioni, 2022
Abbiamo, fra i tanti, un grosso problema con il lavoro. Al di là di facili polemiche su redditi di cittadinanza e ristoratori che non trovano dipendenti, the great resignation suggerisce che c’è qualcosa di marcio nel profondo della questione, nel nostro dare per scontato un’idea di lavoro che scontata non è, nel renderci schiavi senza padrone, carburante di una macchina che produce per il solo fine di farlo; alla radice stessa, in pratica, del capitalismo – un’altra cosa che diamo per scontata e che invece assomiglia più a un trabiccolo lanciato da una parete, che crede di volare e invece si sta per sfracellare a terra. Tutto questo e molto altro, in una prosa limpida e disincantata che dialoga con la filosofia ma sempre con il martello in mano, lo scriveva già Giuseppe Rensi a inizio Novecento, una voce che dovremmo recuperare.
La città della luce, Inio Asano, Panini Comics, 2022
Ci sono sprazzi di realismo magico nella Tokyo di Inio Asano, prolifico mangaka che unisce un tratto realista, un’estetica disturbante e tematiche struggenti, come la rassegnazione di una generazione malata. Bambini reincarnati, autobus volanti, gatti silenziosi e saggi, un corredo di creaturine kawaii che, estrapolate dal contesto, diventano demoni grotteschi. Ma tali sprazzi non offrono possibilità di fuga, perché la griglia urbana è il reticolo di una gabbia: la città della luce, appunto, è un complesso residenziale dove la borghesia finge che ogni cosa splenda sotto il sole, mentre al suo interno bambini e adulti uccidono e desiderano morire – e i bambini sembrano i più preparati a farlo, talmente poco affezionati alla luce da sentirsi in confidenza con il buio.
Francesco D’Isa
Ci sono capolavori che non ho ancora letto e che riesco a recuperare solo quando vado in ferie, e uno di essi è Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, l’unico romanzo completamente sbronzo che abbia letto (non io da sbronzo, dico proprio il romanzo), che riesce a trasformare in prosa letteraria un modo di pensare, parlare e comportarsi tipico dell’ubriachezza, sia nei suoi aspetti divertenti che in quelli tragici. Accade nei romanzi di trovare la definizione perfetta di uno stato d’animo e qui ci ho trovato la perdita di qualcosa che potresti apparentemente salvare con facilità ma non ci riesci. La mia passione per il frammento, il diario e l’aforisma mi impone di consigliare Un soffio di vita di Clarice Lispector, autrice che non suggerirò mai abbastanza per la potenza poetica, filosofica, emotiva, erotica ed esistenziale (si, praticamente tutto) della sua prosa. Se non l’avete letta però, vi consiglierei di iniziare con Acqua Viva o con alcuni dei suoi Racconti. Per fortuna Contro il lavoro di Giuseppe Rensi è già stato consigliato altrove, perché sebbene ne abbia curato l’introduzione non sarei riuscito a non inserirlo dato il contesto vacanziero; concludo dunque con una scoperta avvenuta proprio grazie all’editing di questo articolo: Emanuele Dattilo, di cui Cafarella suggeriva La vita che vive e che ho approcciato con Il dio sensibile. L’ho iniziato a leggere distrattamente, sulla spiaggia, pensando si trattasse di un classico del novecento, magari di un amico di Zolla che non conoscevo – per poi scoprire che l’autore ha cinque anni meno di me. È un testo corposo e ne ho letto solo un centinaio di pagine, ma lo propongo comunque, perché la sua analisi filosofica del panteismo mi ha già appassionato e perché così faccio il primo meta-consiglio de L’Indiscreto.
Alessia Dulbecco
Ogni anno mi illudo che l’estate mi concederà un po’ di tempo per coltivare le mie passioni. No, non mi riferisco al decoupage o al giardinaggio ma a quelle letture che spaziano dall’horror agli omicidi seriali che durante l’anno fatico a portare a termine a causa lavoro, anche se mi piacciono moltissimo. Dato che non succede mai, in questi mesi mi sono portata avanti così da potervene consigliare qualcuna sperando che, magari, con voi la stagione estiva sia più magnanima.
Parto subito da un romanzo, Il mostro di Alessandro Ceccherini. In questa prima opera l’autore procede da un accurato lavoro di documentazione per articolare una narrazione che va oltre i fatti. Fonti accreditate e fiction si uniscono per restituirci non solo lo sguardo su più di cinquant’anni di vicende ma soprattutto le voci dei suoi protagonisti. Ceccherini si immedesima nei personaggi, parla la loro lingua e scompiglia le carte in un gioco tra cronaca e storia, facendo vedere quanto sia difficile cercare il colpevole, in una pluralità di voci.
Per estendere il discorso dal serial killer più famoso d’Italia all’uccidere seriale in senso lato, viene in nostro soccorso Simone Sauza col suo Tutto era cenere. L’autore esplora la tematica da un punto di vista filosofico, provando quindi a discostarsi dalle consuete interpretazioni in chiave psicologica. Secondo Sauza, la nascita del serial killer è un “errore della realtà” che emerge quando essa non fornisce più elementi a cui potersi ancorare. Il mondo è ciò che separa l’omicida seriale da tutti gli altri esseri umani, egli si colloca sotto la superficie che continua a osservare, esattamente come facciamo noi, ma da un’altra angolazione: «cosa vede un serial killer quando guarda al mondo che abbiamo in comune?».
Le vicende di Pietro Pacciani, Ed Gein e Ted Bundy sono state trasposte in numerosi film e serie tv. Secondo Selena Pastorino e Davide Navarria l’horror è un genere che potrebbe aiutarci a comprendere molti fenomeni sociali ed è con questo intento che hanno dato alle stampe Il male quotidiano. Come recita il sottotitolo, Pastorino e Navarria conducono “incursioni filosofiche”all’interno del genere per mostrarci il legame che esso ha con la nostra esistenza: «l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio con due tendenze opposte (…) quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentarne la percezione del reale». Pellicole come Nosferatu, e serie tv come Them o romanzi come It e The haunting of Hill House ci insegnano che il male esiste e che dobbiamo farci i conti; niente, però, fa paura come la realtà.
Adriano Ercolani
Ogni volta che mi trovo a stilare una lista di consigli di lettura per L’Indiscreto, o altre testate, mi ritrovo in un inevitabile imbarazzo, ovvio rovescio del privilegio di collaborare a progetti interessanti con alcune delle menti migliori della mia generazione. Ovvero, gran parte dei testi che mi sento di consigliare in qualche modo sono o di autori o di editori coi quali, in qualche forma, collaboro, quindi per eleganza mi trovo costretto a doverli espungere. Detto ciò, chi vuole, può trovare sulle mie pagine social quotidianamente articoli o video di approfondimento che formano sostanzialmente una ininterrotta lista di consigli di letture.
D’altra parte, il vantaggio di essere un “lettore forte” è anche quello di aver a disposizione un ventaglio di opzioni vario, e trasversale.
Ecco, dunque, le mie tre segnalazioni agostane:
Il nido, Marco Galli, Coconino Press
La visionarietà grottesca di Galli (autore dalla parabola straordinaria, protagonista di una vera e propria morte e resurrezione artistica) sembra fatta apposta per rappresentare il Götterdämmerung dell’oligarchia nazista. La storia è completamente inventata, ma il lavoro è frutto di una minuziosa documentazione. L’autore ci ha rivelato: “Sentendo gli aneddoti riguardanti le varie patologie di Hitler, problemi intestinali che gli procuravano dolori atroci e flatulenza, tremori – forse soffriva di Parkinson – che lo portavano ad assumere un cocktail di droghe, mi è scattata la scintilla e ho iniziato a pensare che un dittatore come Hitler, l’archetipo dei dittatori, raccontato dentro un corpo macilento e con una psiche distrutta poteva essere qualcosa di inedito”. Un fumetto potente e tremendo. Leggetelo.
Il Mostro, Alessandro Ceccherini, Nottetempo
Continuo a consigliarvi delle letture spensierate per rilassarvi sotto l’ombrellone: dopo un fumetto sulle perversioni di Hitler, un bel romanzo sul Mostro di Firenze.
Scherzi a parte, il romanzo di Ceccherini merita molta attenzione, poiché riesce a trattare una storia conosciutissima, deformata dai media, distorta dai depistaggi, mitizzata dagli appassionati di criminologia, manipolata in mille teorie più o meno plausibili o deliranti…con originalità. Difficile è trovare una vicenda più inquietante e atroce, in cui si incrociano il particolare humus infernale della sottocultura contadina locale e una riflessione universale sul male radicale: Ceccherini riesce nell’impresa di romanzare, in maniera convincente, una vicenda già di per sé ultraromanzesca, larger than life, figuriamoci della letteratura. Un romanzo che ha un profondo spessore filosofico.
L’imperatore d’America. Storia favolosa del vagabondo che si fece Re, Errico Buonanno, UTET
Finiamo con una nota di speranza: come nel caso precedente, si prende spunto da una vicenda clamorosamente romanzesca, ma dalla nefandezza si passa allo stupore. Buonanno, che al piglio del narratore unisce la sintesi del giornalista e l’esperienza del divulgatore, racconta una storia vera che ha tutti i contorni di una fiaba incarnata: quella di Joshua Abraham Norton, imprenditore sfortunato, clochard autoproclamatosi Imperatore degli Stati Uniti d’America e protettore del Messico: un eroe dell’immaginazione adorato dal popolo di San Francisco.
Il volume è semplicemente delizioso, anche se ha un effetto collaterale non desiderato: dopo aver terminato la lettura vi faranno male i muscoli del viso per alcuni minuti, perché non riuscirete a smettere di sorridere. La storia è assurda e per questo ci crediamo; una vicenda così colma di meravigliosi paradossi che non avrebbe potuto scriverla nemmeno G.K.Chesterton. La vita, si sa, è il romanziere migliore, che nessuna fantasia di scrittore può eguagliare. Siamo convinti che anche Chesterton sarebbe d’accordo.
Ilaria Gaspari
Carlo Fruttero-Franco Lucentini, La donna della domenica, Mondadori
Un giallo sociologico perfetto, la lettura ideale in cui immergersi nei torpidi pomeriggi estivi. Non gli manca nulla di quel che un ottimo romanzo dovrebbe avere: personaggi indimenticabili, sia i protagonisti che i comprimari (vi sfido a non sorprendervi a ravvisare nella vostra cerchia di conoscenze un equivalente dell’americanista Bonetto, o un’emula della Tabusso), umorismo sottile, a tratti nero, tensione, una trama intricata e convincente, un’attrazione erotica delicata ma decisa, che non si sfoga mai. E poi una lingua splendida, spassosa, elegante. E molta Torino, forse la più letteraria delle città italiane.
Ingeborg Bachmann, Malina, traduzione di Maria Grazia Manucci, Adelphi
L’unico romanzo che Ingeborg Bachmann finì di scrivere in vita sua, è un libro seducente e sconcertante come pochi. La storia di un triangolo amoroso, e di una morte incongrua – un omicidio – raccontata da una voce così profonda, e tenera, e ingenua, e saggia, così fascinosa, che sarà impossibile dimenticarla.
Truman Capote, Musica per camaleonti, traduzione di Mariapaola Ricci Dettore, Garzanti
I racconti di questa raccolta sono tutti magnifici, magnifici in quella maniera magnetica che è puro Truman Capote: freddi e caldi, magici e iperrealistici,
perturbanti e perdutamente dolci. Ma penso che la perla inestimabile di questo libro sia “Una bellissima bambina”, il ritratto di Marilyn Monroe che si ubriaca di champagne di pomeriggio, dopo un funerale, in un ristorante cinese a New York. Un racconto altrettanto tenero e disturbante non so se sia stato mai scritto.
Gregorio Magini
(queste recensioni sono tratte dal canale telegram “La nicchia dei libri di G.M”)
Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni (Elèuthera, 2018, traduzione di Guido Lagomarsino)
Per me Latour è un autore importante, ma per vettori atipici rispetto a quelli seguiti dagli usuali lettori di Latour, interessati alla sua filosofia della tecnologia, alla sua polemica sull’inesistenza del mondo moderno e ultimamente al suo impegno ecologista. Infatti ci ero arrivato per via traversa, passando da High Weirdness di Erik Davies, per trovare nella sua ontologia della molteplicità esplicitata nell’opus magnum Enquêtes sur les modes d’existence (scandalosamente mai tradotto in italiano) spunti per rispondere a una domanda che proveniva dal mio interesse per la psichedelia e le cosiddette esperienze “di limite” e “del limite”: come pensare, e quindi eventualmente accomodare nella propria vita, esperienze sensorialmente e intellettualmente incompatibili con lo stato di coscienza usuale? Come pensare mondi alternativi ma compresenti e senza dare troppo peso a ipotesi di trascendenza e sovrannaturalismi assortiti? Insomma esiste la possibilità di un naturalismo che abbraccia la disunità della natura?
Latour risponde che è sufficiente accogliere i diversi modi, tempi, ritmi con cui diversi tipi di esseri ci si presentano, e impegnarsi a rispettarli senza cercare di ficcarli a forza nel fallimentare paradigma soggetto vs oggetto / natura vs cultura che ha sorretto l’Occidente per due secoli – almeno a parole: una delle frasi preferite di Latour è “gli occidentali non fanno mai quello che dicono e non dicono mai quello che fanno”.
Dalla lettura delle Enquêtes mi era rimasta la curiosità di capire esattamente la faccenda dei moderni che non siamo mai stati. Ho scoperto, leggendo la sua opera seminale del 1991, che Latour prende molto sul serio la sua battuta sulla lingua biforcuta degli occidentali (la chiama la nostra “Costituzione”, e le assegna come Padri Fondatori Robert Boyle e Thomas Hobbes e il loro carteggio… sulla pompa a vuoto), che a parole distinguono nettamente e categoricamente tra una natura puramente oggettiva osservata da “gentiluomini degni di fede” in un laboratorio e la cultura preda della Storia in cui si forgiano e disfano le società umane – ma se vai a vedere quello che fanno nei loro laboratori, si prendono tutte la libertà che gli servono nel mescolare allegramente natura e cultura nella costruzione dei “quasi-oggetti” mai del tutto naturali né del tutto culturali che impiegano per i loro comodi.
Come spiega nella postfazione all’edizione attuale, Latour non fece altro che provare ad applicare i metodi dell’antropologia (il “complesso mito-rito-simbolo”) ai luoghi della ricerca scientifica, rendersi conto che non funzionavano, e trarne la conseguenza più sorprendente: se non funzionavano, non era perché i moderni sono diventati razionali e hanno dunque abbandonato il mondo studiabile dall’antropologia, ma perché i moderni fraintendono a tal punto sé stessi da vedere negli altri l’opposto di ciò che pensano di essere (scientifici, razionali, oggettivi) e non sono. Il che non significa che siamo in fondo irrazionali come “gli altri” (questo lo penserebbe un qualsiasi antimoderno, posizione in cui Latour non vede “niente da salvare”) – ma che tutte le culture fanno la stessa cosa: tradurre, costruire, “passare” di mano in mano e di testa in testa gli esseri a cui sono più interessate.
Ammetto di non avere gli strumenti per un giudizio di merito su Non siamo mai stati moderni; del resto è un classico letto in tutte le università e non aspetta certo il mio giudizio. Voglio solo notare che la prosa di Latour è magnifica, vivace e immaginosa senza scivolare mai nell’oscurità, il che, vista l’epoca e il paese di provenienza, appare un risultato ancora più notevole.
Philippe Descola, Oltre natura e cultura (Raffaello Cortina Editore, 2015, traduzione di Annalisa D’Orsi)
Una decina di anni fa mi sono accorto che stavo iniziando a trattare le piante come se fossero degli animali, cioè come esseri degni di rispetto, ammirazione e amore che ciononostante uccido, faccio a pezzi e disintegro a livello molecolare quotidianamente per sopravvivere e vivere comodamente. Credo che gli animali siano dotati di coscienza, mentre le piante no; che gli animali provino felicità e dolore come gli umani, mentre le piante no; che gli animali percepiscano una realtà fatta di tempo e di spazio e di cose, mentre le piante no – ma questo non fa alcuna differenza, dal momento in cui piante e animali sono quella metà della vita che rende possibile la mia. Perciò non esito a considerarli tutte persone e mi riconosco pienamente nel motto dello sciamano Ivaluardjuk riportato da Descola: «il più grande pericolo dell’esistenza deriva dal fatto che il cibo degli uomini è interamente costituito di anime».
Dopo la lettura di Oltre natura e cultura, apprendo che questo mio atteggiamento è una tendenza personale verso un’ontologia animista, che però rimane perlopiù inattuata perché sono immerso fin dalla nascita in schemi di apprendimento e relazione che si rifanno all’ontologia naturalista dominante. Così, per esempio, se da un lato mi accorgo che condivido con gli amerindi Jivaro dell’Amazzonia alcune preoccupazioni, per così dire, spirituali rispetto al consumo di cibo, per cui «uccidere dei quasi-simili e nutrirsene suscita un problema metafisico che va ben oltre la cattiva coscienza passeggera che possono provare alcuni Occidentali quando consumano della carne»; d’altro canto nell’affrontare le indagini scientifiche odierne sulla coscienza, non ho potuto fare altro che adeguarmi al naturalismo delle loro coordinate fondamentali e rimanere fedele all’intuizione per cui senza sistema nervoso non c’è coscienza – e quindi non saprei da dove cominciare per iniziare a parlare di “interiorità” delle piante, dei corsi d’acqua o dei computer. Per Descola, è impossibile per un individuo passare a ontologie differenti in età adulta. Quello che può fare è cercare di capire, per quanto può, ontologie differenti dalla propria, e questo è uno dei compiti fondamentali dell’antropologia.
Oltre ad animismo e naturalismo, le altre due grandi classi ontologiche discusse da Descola sono il totemismo e l’analogismo. L’esempio paradigmatico del primo sono gli aborigeni australiani, mentre il secondo è condiviso da tutte le grandi civiltà agricole precedenti alla rivoluzione scientifica. Queste quattro ontologie si differenziano in base alle diverse entità a cui assegnano una interiorità e ai diversi modi con cui organizzano il rapporto tra interiorità ed esteriorità: per i naturalisti, gli umani hanno interiorità (menti tutte diverse tra di loro) e tutti gli esseri condividono la stessa esteriorità (la materia di cui tutto è fatto). Per gli animisti è l’esatto contrario: tutti gli esseri, compresi molti non viventi, condividono la medesima interiorità, e sono invece frammentati a livello esteriore, ciascuno con il suo corpo, la sua specie e la sua organizzazione sociale. Per i totemisti tutto è uno, sia all’interno che all’esterno; mentre per gli analogisti è l’opposto: tutto è frammentato, ciascun essere è unico nella sua interiorità ed esteriorità, e perciò sono costantemente impegnati nel faticoso compito di rinvenire somiglianze (appunto “analogie”) tra esseri differenti nel tentativo di tenere insieme il mondo.
Le quattro ontologie sono incompatibili tra di loro e abilitano o inibiscono certi tipi di rapporti, senza per questo limitare l’immensa varietà delle possibili realizzazioni, e sono quindi da considerarsi come principi generatori non deterministici. L’antropologia di Descola è stata chiamata un neo-strutturalismo, non più fondato, come lo strutturalismo del suo maestro Lévi-Strauss, su combinatorie logico-linguistiche, ma su basi neuro-cognitive.
Descola ha terremotato l’antropologia proponendo un nuovo quadro concettuale a sostituzione della dicotomia natura/cultura della tradizione. Io che non ho conoscenze specialistiche ho potuto apprezzare quanto è rigogliosa e splendidamente articolata la sua trattazione. In parallelo, mentre leggevo, cercavo spunti per risvolti letterari. Non sono stato deluso. L’aspirazione descoliana di un nuovo universalismo antropologico può essere di esempio anche in un ambito, quello romanzesco, che da tempo si confronta con lo smarrimento di passate, e da tempo crollate, vocazioni universaliste.
Vediamo questo passaggio dal capitolo quattro: «i riti, in particolare quelli d’iniziazione, permettono di trasmettere e di riprodurre norme di comportamento e modelli di relazione giocando sull’inaspettato, il paradossale e il coinvolgimento delle passioni […] Del resto, e come la psicoanalisi e il romanzo hanno mostrato, il ruolo degli schemi non è soltanto evidente nei contesti rituali: ogni evento significativo dal punto di vista delle emozioni che suscita contribuisce fortemente all’apprendimento e al rafforzamento dei modelli di relazione e d’interazione». Qui Descola dice una cosa molto aristotelica: che la narrazione rafforza gli schemi con lo straniamento e il coinvolgimento emotivo. Ovvero: con buona pace di Brecht, il coinvolgimento è necessario perché avvenga un cambiamento degli schemi mentali. Passione e atteggiamento critico non sono nemici. Ma il dettaglio più interessante è l’accostamento tra passione e inaspettato, paradossale: si cambia quando ci confrontiamo con qualcosa di nuovo e differente. Ma questa novità non fa altro che rafforzare gli schemi rispetto ai quali si pone come differenza, schemi che peraltro devono sottendere alla narrazione perché sia possibile mettere in scena le differenze. Questo significa che un romanzo universalista non sarebbe un romanzo che “rompe gli schemi”, ma un romanzo che s’impiantasse su schemi universali. Ma se il naturalismo non è universale, il suo corrispettivo romanzesco, il realismo, non può essere universale. Dunque un nuovo romanzo universale non può essere né realistico né fantastico, ma deve in qualche modo trascendere questa dicotomia fondamentale della narrazione in Occidente.
Tutto ciò, nel concreto, non significa auspicare romanzi dove la gente abbraccia gli alberi e parla con le formiche (attività che comunque, a scanso equivoci, amo e non disdegno mettere in pratica né leggere nei romanzi), ma provare a pensare la struttura drammatica e la caratterizzazione dei personaggi in termini che non si riducono a categorie psicologiche e sociali (o a strutture simboliche, come risulterebbe da un recupero analogista). Esito a ipotizzare questi termini alternativi come direttamente “antropologici”: le narrazioni non sono fatte di collettivi umani ma di personaggi – non ci può essere una trasposizione diretta. Ma sarebbe interessante già immaginare cosa succederebbe in una narrazione dove non si dà per scontato, come siamo abituati, che ciascun personaggio è un punto di vista differente su una realtà condivisa da tutti.
Richard Powers, Il sussurro del mondo (La Nave di Teseo, 2019, traduzione di Licia Vighi)
Dicevo, parlare con le piante. Il sussurro del mondo è l’epopea tragica di nove ecologisti radicali che non solo parlano con le piante (e ovviamente abbracciano gli alberi e ci vanno anche a vivere sopra), ma sono convinte che gli alberi vogliono dirci qualcosa, qualcosa che noi non siamo in grado di comprendere perché non li ascoltiamo. Dico tragica perché «essere dalla parte del giusto quando il mondo è dalla parte del torto» significa prendere un sacco di botte, che non vengono risparmiate ai nostri eroi nei loro fallimentari tentativi di salvare dal taglio alcune delle ultime foreste vergini degli Stati Uniti.
Quello che le piante cercano di raccontarci è «di come la piramide torreggiante e traballante di grandi creature viventi stia già crollando, al rallentatore, sotto quell’enorme e rapido contraccolpo che ha spostato il sistema planetario. I grandi cicli dell’aria e dell’acqua si stanno interrompendo. L’albero della vita cadrà di nuovo, crollerà diventando un ceppo di invertebrati, un tappeto vegetale solido e resistente, e batteri, a meno che l’uomo…». Le piante stanno cercando di salvarci da noi stessi. Catastrofe climatica come problema di comunicazione.
Non ascoltiamo le piante semplicemente perché… siamo fatti così: «L’unica cosa che sappiamo fare è crescere. Crescere più vigorosamente. Più velocemente. Più dell’anno prima. Crescere, lungo tutto il dirupo e oltre. Non c’è altra possibilità». Mentre le piante, e a lungo lo abbiamo ignorato, sanno anche collaborare e se necessario sacrificarsi. Nessuna argomentazione razionale può cambiare la nostra mentalità (vedi quanto dicevo su Descola quando afferma l’impossibilità di passare a ontologie differenti in età adulta). «Le migliori argomentazioni del mondo non faranno cambiare idea a una persona. L’unica cosa che può riuscirci è una bella storia». Anche: «Da qualche parte in tutti quei canyon infiniti, mescolati e rigonfi di carta stampata, codificate nei milioni di tonnellate di fibre di pino taeda, devono esserci alcune parole di verità, una pagina, un paragrafo che potrebbe interrompere l’incantesimo della distribuzione perfetta e riportare pericolo, bisogno, e morte».
Bisogna prima di tutto iniziare a concepire l’imminenza della catastrofe con i tempi degli alberi. Questo non significa solo ragionare in tempi lunghi. Significa anche imparare a gestire emotivamente i tempi lunghi. Quando siamo in pericolo, la risposta emotiva appropriata è ansia e angoscia. Ma come non morire di ansia e angoscia quando l’allarme risuona ininterrottamente per decenni?
La risposta narrativa di Powers è che imparare ad ascoltare le piante attraverso le storie e salvare la specie umana sono due facce della stessa medaglia: «I libri divergono e si irradiano, leggeri e mutevoli come fringuelli su isole appartate. Eppure condividono un nucleo essenziale così ovvio che viene dato per scontato. Tutti pensano che la paura e la collera, la violenza e il desiderio, la rabbia attenuata dalla sorprendente capacità di perdonare – il carattere – siano tutto ciò che conta, alla fine. È una convinzione puerile, solo un gradino più su rispetto all’idea secondo cui al Creatore dell’Universo importerebbe emettere sentenze come un giudice di una corte federale. Essere umani significa confondere una storia soddisfacente con un’altra ricca di significati, e scambiare la vita per qualcosa di enorme con due gambe. No: la vita è impegnata su una scala ben più vasta, e il mondo sta fallendo perché nessun romanzo riesce a far apparire la contesa per la guida del mondo avvincente quanto le lotte tra poche persone smarrite. Ray però ha bisogno della narrativa tanto quanto chiunque. Gli eroi, i cattivi, le comparse che sua moglie gli offre quella mattina sono meglio della verità. Sebbene sia finto, dice ognuno di loro, e niente di quello che ti propongo faccia la benché minima differenza, supero ogni distanza per sedermi qui accanto a te nel tuo letto motorizzato, per tenerti compagnia, e farti cambiare idea.»
Una curiosità che è anche un consiglio di lettura bonus: durante la lettura, non potevo fare a meno di figurarmi il personaggio della dottoressa Patricia Westerford come Monica Gagliano, ricercatrice di ecologia evolutiva a Sydney e autrice del libro Thus Spoke the Plant (2018), di prossima pubblicazione in italiano. Entrambe (quella fittizia e quella reale) si occupano di comunicazione vegetale ed entrambe sono state per un periodo ostracizzate dai loro colleghi, più che per i contenuti scientifici del loro lavoro, per un linguaggio e un approccio decisamente animistici al mondo vegetale. Più per scherzo che per altro, ho cercato su Google “Richard Powers Monica Gagliano” e sono rimasto deliziato dalla scoperta di un video di un incontro pubblico che hanno avuto nel 2020 all’Institute for Cross-Disciplinary Engagement at Dartmouth, dove raccontano i retroscena, del tutto casuali, della somiglianza tra personaggio e persona. Anche se non avete voglia di ascoltare la voce delle piante per 700 pagine, vi consiglio di guardarvi almeno questa bella conversazione.
P.S. sulla traduzione: verso la fine del romanzo, viene costruito un pezzo di land art in una foresta: una enorme scritta con i tronchi di alberi caduti, leggibile solo dallo spazio. In italiano questa scritta recita “TUTTAVIA”, mentre nell’originale è “STILL”, che però significa anche “fermo, immobile”, oltre che “ancora”. Solo un piccolo ennesimo esempio del fatto che tradurre è un’impresa impossibile: non riusciamo a rendere l’inglese in italiano, come potremo rendere il linguaggio delle piante in lingua umana? Tuttavia…
Francesca Matteoni
Per chi ha letto tutti i libri di Viola Di Grado è naturale seguirne un comune estraniarsi nella tenebra verso qualche terra salva, non sempre raggiunta dai personaggi, ma ogni volta disegnata con splendore dal linguaggio. Nel suo ultimo romanzo, Fame blu, la salvezza si compie dentro la via soffocante della dipendenza affettiva quale fame capace di destrutturare l’anima, o quello che ne resta. Fame blu è una storia d’amore incastonata in trenta capitoli, trenta parti del corpo, che fallisce e insieme supera il tentativo di vincere il tempo (tempo della morte, tempo del desiderio, tempo dell’affermazione di sé). Il romanzo si svolge in una Shangai cupa e velenosa, una palude di odori e spazi chiusi, dove la protagonista si è trasferita per lavorare come insegnante di italiano dopo la morte del fratello gemello. Non sappiamo il nome dell’io narrante, che si piega nei nomi di chi ama o ha amato. La seguiamo quando incontra una ragazza cinese con cui esperisce ogni tipo di tensione e ricatto amoroso, l’ossessione del vivere esposta alla ferocia dell’altro. O alla sua inermità. La vita è fame ottusa. Fame che addenta altri animali, smascherando ogni ipocrisia nel sapore della sopraffazione; fame che sostituisce la tenerezza e fa scorrere il sangue del desiderio; fame mai sazia, sorella dell’amore che tutto condanna e ripara. In un linguaggio materico il romanzo di Viola Di Grado travalica la narrazione per farsi potente riflessione poetica sull’assurdità necessaria dell’amare: anche a rischio di lasciarsi divorare per risorgere.
L’amore diviene forte nella separazione. Questo pensiero emerge dalla lettura di Il Regno Segreto di Philip Pullman, secondo volume della trilogia Il libro della Polvere, strettamente legata all’altra trilogia fantastica, Queste oscure materie. Il titolo del libro rimanda a un particolare trattato filosofico seicentesco, scritto dal reverendo scozzese Robert Kirk per spiegare la natura di fate e spiriti, che trovarono in un uomo di chiesa il più imprevedibile dei difensori.
Il Regno Segreto è il luogo dell’immaginazione che rivela l’anima del mondo ben oltre ogni prospettiva razionalista, portandoci al cospetto di presenze magiche e affettive. Ne ha bisogno, senza saperlo, Lyra Belacqua ormai studentessa universitaria, entrata in crisi con il suo daimon, la martora Pantalaimon, a causa di un certo scetticismo dolente che le impedisce di fidarsi del suo compagno più prezioso. I due, cosa inaudita nel mondo di Lyra per ogni umano e il suo daimon, si allontanano. Si muovono verso le steppe centrali dell’Asia alla ricerca di una risposta sulla loro natura, sperando di potersi comprendere nuovamente. Il tempo che viviamo risuona nel viaggio della ragazza fra popoli diversi, alchimisti, migranti, naufragi e orfani, e la scrittura diventa una lente d’ingrandimento sulla possibilità della fratellanza, qui accomunata all’erranza dentro storie e incontri.
Concludo con un fumetto sciamanico, oggetto alieno e familiare, da poco approdato nelle mie mani, Disfacimento della svedese Linnea Sterte, tradotto in italiano da Claudia Durastanti, a cui rubo una definizione perfetta per entrare nelle sue pagine: sentire gli altri. Dimenticate la storia, accogliete la visione. Dimenticate i processi di crescita e decadimento, conoscete la trasformazione. Come ogni cosa porta vita mentre altri la spezzano nel loro volere, la restituiscono al paesaggio. C’è una balena extraterrestre e una caccia per sfamarsene, inciderne le ossa perché durino nelle stagioni. C’è il suo grande corpo che crolla in un cielo oceanico, condiviso da uccelli, pesci, insetti. C’è il cuore della balena che è una donna fatata, uccisa senza pietà, riscattata nello scheletro su cui ricresce la carne grazie alla pietà di un uomo. Ci sono pochissime parole che risuonano in incantesimi. Sentire gli altri è osservare la meraviglia con stupore, quando tutto viene violato. Muore e incomprensibilmente ritorna, puro e sconvolto, attorno a noi.
Gabriele Merlini
Uno. Magari peccando in furbizia o solo di troppo entusiasmo – del resto, il caldo favorisce entrambe le cose – torno anche qui sull’interrogativo assoluto dell’estate ovvero dove diavolo abbia scelto di rintanarsi la cosiddetta heavy music nelle ultime cinque decadi e cosa realmente sia diventata. Stimoli intellettuali piuttosto imprescindibili sui quali, come già ho avuto modo di appuntare, meritevolmente si sofferma Electric Wizards. L’heavy music dal 1968 a oggi di J.R. Moores edito da Odoya, per quanto poi risultino accessorie le risposte proposte dal saggio dato il senso di appagamento che a prescindere il lettore prova, o almeno il lettore al quale basti la semplice riproposizione su carta di sigle quali TAD, Butthole Surfers, Jesus Lizards, Fugazi, Melvins e Napalm Death (il capitolo dedicato a Scum rasenta il capolavoro) per detonare gioia nella propria t-shirt tesa sulla pancia. Un volume che fa centro laddove altri in precedenza hanno fallito prendendosi troppo sul serio o usando approcci fuori fuoco, ma soprattutto capace di suonare come l’onesta e malinconica sbobinatura della ricreazione ideale di una classe di nerd musicali dei tempi passati quando tra un mozzicone di sigaretta e la prospettiva di una fuga ogni chiacchierata inevitabilmente si concludeva con il quesito “cosa hai ascoltato di nuovo questa settimana? Ma deve essere P-E-S-O” e lo scopo, al caldo della felpa dei Morbid Angel, era di dissacrare tutto facendosi una liberatoria, nerissima risata. Va ribadito: l’essenziale, dunque. Per un lavoro culturale.
Due. Trascorrere l’esistenza sopra i treni regionali comporta scelte editoriali di rottura; sfide non previste e colpi di testa. Così non ricordo l’origine dello stimolo provato di fronte a quello scaffale prima della partenza, ma è successo e mica lo rinnego. Tutto, e di più. Storia compatta dell’∞ l’ha scritto DFW e l’ha pubblicato Codice Edizioni. Inatteso e funzionale compagno di viaggio sul Firenze SMN – La Spezia delle 10.53 non tanto per il caleidoscopico glossario iniziale nel quale perdersi (“C.V.: Circolo Vizioso. D.C.P.: Divina Confraternita di Pitagora. T.A.I.: Teoria Assiomatica degli Insiemi…) quanto per ribadire l’ovvio, vale a dire alcuni individui hanno sul serio vinto la lotteria della prosa sia che trattino dei celebratissimi capelli strani che di continuità o numeri irrazionali. Sia abitino in biblioteche universitarie molto eleganti, sia in vagoni assurdi al fianco di passeggeri rivedibili e panorami – oltre i finestrini appannati – poco sostituibili con n = 1,2,3 alla settantanovesima posto x ≠ 5.
Infine, tre. Cause tutto sommato personali dunque evitabili hanno spinto alla lettura del Philip Roth di Patrimonio (Einaudi.) Cronaca degli ultimi tempi trascorsi dall’autore assieme al padre, perciò spunto per ripercorrere le storie di due vite dissimili ma complementari. Buono per arricchirti se riesci a rivederti in quella mole di suggestioni profondamente commoventi; spaventoso se al contrario ti scopri gelido. Arido e inscalfibile. Oltretutto nel breve spesso Roth dà il meglio e ciò, per una seduta d’analisi pigiato in uno stabilimento balneare, nella norma male non fa.
Edoardo Rialti
Fedor Dostoevskij, L’Eterno Marito.
Già nel mio articolo più recente per L’Indiscreto ricordavo il detto di Celine secondo cui gli uomini si dividono in esibizionisti e voyer. E naturalmente tali aggressività estroversa e passività vampirica si manifestano non solo in coppie di individui che necessitano l’uno dell’altro ma, a ben pensarci, costituiscono due facce della stessa medaglia nell’individuo medesimo. Ogni attore abbisogna di uno spettatore plaudente, dentro o fuori di sé, ogni piccolo monarca necessita di un suddito che lo vezzeggi e si abbeveri alla sua forza raggiante, ma è altrettanto vero che chi si presenta debole, secondario, gregario, possiede una segreta ma tenace forza di attrazione e ricatto tutte sue che condizionano l’altro, apparentemente così sicuro e autosufficiente. È la vecchia dialettica servo-padrone di Hegel, o il teatro dell’invidia di Girard, due poli che s’incontrano nella comune ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo viene mirabilmente, perfidamente espresso da questa breve gemma tragicomica di Dostoevskij, scritta subito dopo L’Idiota, dove un seduttore in crisi di mezz’età e un marito cornuto, piagnucoloso e beone scoprono di non poter fare a meno l’uno dell’altro, si insultano, si cercano, si baciano, si picchiano, incontrandosi e scontrandosi attraverso una serie di figure femminili su cui esercitano la sottile o sfacciata pressione dei loro desideri previ e repressi. Al suo centro c’è forse una delle scene di tentato delitto più goffa e spassosamente cialtrona che siano mai state scritte.
Gian Battista Marino, Adone
Si discute molto sulle forme ibride del romanzo contemporaneo, sullo scardinamento dei generi, sulla commistione di prosa e poesia, sul ricorso allo sconcertante, all’ibridazione e alle digressioni centrifughe, al fantastico per esprimere le mutazioni dell’identità. Anche alla luce di tutto questo, tornare al grande capolavoro barocco della nostra letteratura, un’opera-fiume sull’amore di Venere per lo sfortunato bellissimo giovanetto mortale, permette di scoprirvi una folle meravigliosa natura punk, che come tutte le grandi conquiste espressive pare sempre realizzata domani. Ci si trova di tutto. Palazzi di gemme descritti minuziosamente, accoppiamenti, monologhi che paiono assoli musicali, e poi incantesimi, banchetti, trasformazioni, storie che si aprono su storie che si aprono su storie, i miti eziologici di Calasso che si fondono a virtuosismi lirici sfrenati, con Dante Ariosto Tasso Petrarca a darsi tutti la mano, rapiti in un affastellamento vorticoso come una nube di pietra e limpido e sicuro come un madrigale di Da Victoria. Perfetto per perdersi al suo interno nei pomeriggi d’estate. Uno dei grandi libri pazzi della tradizione europea.
Greta Plaitano
Da quando ho una relazione che a grandi linee sembra funzionare (non per merito mio che mi ostino a lanciare libri contro il muro quando litighiamo, o meglio, quando io litigo con le mie aspettative), mi appassiona moltissimo leggere narrativa dedicata a relazioni amorose che naufragano vorticosamente. Credo di riporre in questo circoscritto spazio di fantasia tutti i miei desideri segreti di autodistruzione e libertà, che stento ad abbandonare proprio perché ho superato la famigerata soglia dei trent’anni. La conseguenza più visibile di questa sorta di crisi che sto attraversando è che ho iniziato a indossare il rosa e, allo stesso tempo, ho un nuovo interesse morboso: leggere di amori pieni di dramma e traumi di vario genere, rigorosamente senza lieto fine.
Il mio particolare trasporto per le relazioni difficili si è alimentato negli ultimi mesi ascoltando Tiresia di Silvia Pelizzari. In questo podcast prodotto da Emons Record dedicato alla letteratura queer, la voce calda di Silvia dedica una puntata intera a Jeanette Winterson, una delle mie scrittrici preferite e tragica per antonomasia. Quando ho scoperto Winterson avevo sedici o diciassette anni, lei non aveva ancora pubblicato la sua biografia pazzesca Perché essere felice quando puoi essere normale e ricordo che il suo capolavoro, Scritto sul corpo, mi fece piangere così tanto da farmi sentire inspiegabilmente bene. La memoria di quei sublimi singhiozzi mi hanno convinta a rileggere stralci casuali di Powerbook. Tra i suoi libri, praticamente tutti incentrati su relazioni d’amore viscerali e destabilizzanti, questo è quello più frammentato e sincero, proprio perché libero da una storia lineare. È una forma di metatesto in cui la protagonista, una ghostwriter, ripercorre incontri personali, passioni celebri della storia della letteratura e il suo lavoro di “costumista del linguaggio”, in cui inventa spazi di trasformazione per i propri clienti, tutti in cerca del ‘vero’ amore. Da leggere, anche per il suo incipit incredibile: “Per evitare di essere scoperta ho scelto la latitanza. Per scoprire quel che voglio scoprire ho scelto la latitanza”.
Un altro testo che parla di relazioni infrante è Nell’intimità di Hanif Kureishi. Non è un libro che mi è davvero piaciuto, ma credo vada letto per diverse ragioni. È un romanzo breve, in prima persona, in cui un uomo sembra prendere atto della propria infelicità coniugale e prodigarsi per abbandonare la sua famiglia. Si svolge tutto in un’unica sera, in cui egli non riesce a darsi pace e ripercorre da dove è partita la crepa, raccontando i suoi tradimenti, le sedute con la moglie dallo psicologo, lo squallore della vita da single dei suoi amici recentemente divorziati. Credo che vada letto per tre ragioni: è scritto molto bene, è un tipo di introspezione maschile che raramente si legge, ha il coraggio di tracciare il profilo di un uomo qualunque, insieme fragile e abominevole.
Infine, mi sembra calzante nella categoria dramma anche un libro che appartiene in realtà a un genere lontanissimo dai miei favoriti, il romanzo distopico. Sirene di Laura Pugno è un racconto allucinante che segue la vita di Samuel, un giovane sorvegliante che ogni giorno pattuglia le immense vasche in cui vengono allevate le sirene. In un mondo in cui l’umanità è stata trucidata da un ‘cancro nero’ che colpisce la pelle di chiunque stia sotto il sole e che ha ucciso anche la compagna del protagonista Sadako, la carne delle sirene è diventata non solo un cibo prelibato e nutriente, ma anche il nuovo divertissement dei bordelli umani. Un libro che mi ha fatto soffrire con intelligenza, riuscendo a farmi rivedere i pregiudizi che nutrivo verso tutto ciò che parla sempre meno velatamente di politica, futuro e cambiamento climatico.
Roberto Paura
Benjamin Woolley, Mondi virtuali, Bollati Boringhieri, 1993
Se cercate un libro che vi faccia comprendere il metaverso, eccolo qui. Trovato per caso in una libreria dell’usato, ma ancora facilmente reperibile online, è un testo del 1990 scritto da un brillante giornalista scientifico e saggista inglese. Può sembrare incredibile che un libro di oltre trent’anni fa abbia qualcosa da dirci sulla più recente frontiera dell’evoluzione tecnologica, eppure in Mondi virtuali Benjamin Woolley affronta tutti i temi centrali del metaverso (termine che in questo libro ovviamente non compare, essendo stato coniato due anni dopo): non solo lo sviluppo della realtà virtuale, dell’intelligenza artificiale e di ciò che all’epoca ancora veniva definito il ciberspazio (e non Internet), ma soprattutto le basi concettuali – dagli studi di Alan Turing sulla vita artificiale, da cui deriva la moderna idea di mondi virtuali, ai trip allucinogeni di Timothy Leary, che hanno aperto all’ambizione di universi “personali” immersivi – e le conseguenze sociali: citando Lyotard, Baudrillard, Borges e molti altri, Woolley ci ricorda che la vera posta in gioco della rivoluzione digitale è la “fine della realtà”.
Charles Williams, La discesa della colomba, Castelvecchi, 2016
Membro del gruppo informale degli Inklings a cui appartenevano J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis, Charles Williams fu autore di “thriller soprannaturali” ancora oggi pubblicati in italiano e importante editor della Oxford University Press. Ma forse la sua opera più brillante, apprezzata da W.H. Auden (di cui questa edizione riporta a mo’ di introduzione la lunga e dotta recensione pubblicata sul Christian Century) e ancora di grande attualità è La discesa della colomba. Non si tratta tanto, come recita il sottotitolo italiano, di una “storia dello Spirito Santo nella Chiesa” – che finirebbe per relegarlo agli scaffali degli appassionati di teologia – ma di un’avvincente e godibilissima storia dello sviluppo del cristianesimo dalle origini (ossia appunto dalla Pentecoste, in cui gli apostoli sono investiti dal compito di diffondere nel mondo l’annuncio evangelico) fin quasi ai giorni nostri. Una storia del pensiero cristiano piuttosto che della Chiesa come istituzione, che grazie alla splendida prosa della più classica saggistica inglese restituisce smalto e brillantezza a personaggi appesantiti dalla cappa degli studi dogmatici, come Origene e Agostino, passando per Dante, Caterina da Siena, Lutero, Pascal e arrivando agli sviluppi più recenti, che per Williams permetteranno alla Chiesa di ritornare al momento della “discesa della colomba” solo se saprà intraprendere la strada del pentimento e dell’umiltà.
Stanislaw Lem, Il pianeta del silenzio, Mondadori, 2022
Se quest’estate in vacanza volete portarvi un po’ di fantascienza, trovate posto in valigia per l’attesa riedizione di questo romanzo di Lem, che mancava dagli scaffali da molti anni. Opera tra le più tarde della sua carriera (1986), Il pianeta del silenzio non ha forse l’asciuttezza folgorante di L’invincibile, l’introspezione psicologica di Ritorno dall’universo, l’inquietante realismo di La voce del padrone, la rutilante inventiva del Congresso di futurologia, ma contiene tutti questi elementi insieme e ciò lo rende il romanzo migliore di Lem dopo il suo inarrivabile capolavoro, Solaris. Leggerlo oggi non solo ci permette di osservare quanto l’immaginario fantascientifico contemporaneo debba a Lem (la prima parte su Titano ricorda molto il film Ad Astra, ma soprattutto la seconda è stata probabilmente saccheggiata da Christopher Nolan per Interstellar, soprattutto considerando quanto un racconto di Lem tradotto in italiano per la prima volta lo scorso anno nell’antologia Universi, intitolato Il materassino, anticipi in modo molto sospetto Inception); ma pone inquietanti riflessioni sull’attuale situazione internazionale e sull’ipotesi del Grande Filtro. Space opera classica, moderna hard science fiction, romanzo di speculazione, saggio di futurologia: Il pianeta del silenzio è tutto questo e molto altro, è la fantascienza al suo grado più alto.
Vanni Santoni
Dato che ancora non è uscito nessun romanzo migliore di Solenoide di Mircea Cărtărescu, che ho consigliato la scorsa volta, consiglio ancora Solenoide di Mircea Cărtărescu (il Saggiatore, traduzione di Bruno Mazzoni). Se qualcuno vuole per forza un romanzo nuovo, allora consiglio Nessuno ne parla di Patricia Lockwood (Mondadori, traduzione di Manuela Faimali), perché, appunto, nessuno ne parla e invece è un romanzo molto bello, forse il primo che riesce a rendere in modo davvero accurato la sensazione dello “stare online”.
Nella saggistica, sempre fedele alla tradizione d’inattualità dell’Indiscreto, colgo l’occasione dell’uscita del tascabile di Come cambiare la tua mente di Michael Pollan per segnalare i libri a tema alimentare dello stesso Pollan, in particolare In difesa del cibo, Cotto e Il dilemma dell’onnivoro (tutti Adelphi, traduzioni di Giovanni Luciani, Luigi Civalleri e Isabella C. Blum che è anche la traduttrice di Come cambiare la tua mente). Per chi brama il nuovo, sempre restando sui saggi divulgativi-e-illuminanti, ma andando sull’antropologia, consiglio invece L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow (Rizzoli, traduzione di Roberta Zuppet).
Andrea Zandomeneghi
Che succede al giovane maschio (letterato?) eterosessuale occidentale? I due migliori esordi italiani dell’anno in corso (Chiromantica medica e La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera) paiono tematizzare la caduta (antropologicamente auspicabile?) e il declino (inarrestabile?) dei paradigmi culturali, politici, mentali e comportamentali che stavano alla base delle millenaria supremazia di questa figura patriarcale che oggi si sente minacciata su tutti i fronti: castrazione, crollo dell’identità, erezione pericolante (per essere eufemistici), sodomizzazione passiva non voluta e non cercata ad opera della generazione dei padri o di ancestrali sacerdotesse (pseudosovietiche?) dei cetacei che indossano maschere dai lunghi nasi sul volto e sulla vulva, trasmutazioni, femminilizzazione (più o meno coatta) umiliante, impotenza economica.
Se nella raccolta di racconti di Alessio Mosca (in particolare in Io odio l’Ikea, il testo d’apertura) il protagonista destrorso finisce per ambire ad indossare il burqa e a massaggiare i piedi della compagna che rientra la sera tardi da lavoro, nel romanzo di Ravasio il fantozziano eroe eponimo si sveglia una mattina direttamente transessualizzato. Ai più superficialmente ideologici e meno “artisticamente provveduti” potrebbe senza dubbio venire da chiedersi in ossequio al caterpillar politicamente corretto massimalistico (imperante nelle posture posticce della retorica delle élite progressiste, in quel capillare strumento di colonizzazione dell’immaginario che è la serialità, nella mia bolla editorial-letteraria o forse anche solo nella mia stessa testa a livello superegoico?) se non si tratti di lamentazioni e piagnistei passatisti e reazionari di chi sente di aver perso il proprio primato e i propri privilegi quesiti; in verità a una lettura meno epidermica ci accorgiamo che questi due autori trentenni ipersensibili scelgono di cimentarsi mimeticamente con le ferite più profonde della realtà umana circostante: il naufragio esistenziale (in balia delle mostruose logiche concorrenziali e consumistiche del neoliberismo materialistico postmoderno) dinnanzi allo sgretolamento rovinoso della normatività interpretativa della tradizione nel caso del primo, il disastro antropico conseguente alla disperazione economica del sottoproletariato colto nel caso del secondo. Il punto non è quindi la nostalgia del passato e la volontà conservatrice di ritorno agli antichi fasti del dominio virile, ma al contrario il fallimento colossale nella progettazione di nuove bussole grazie alle quali orientarsi nel collasso globale di ciò che era, del mondo di ieri; il punto cioè non è “dobbiamo torneare a essere ciò che eravamo” ma “come diavolo possiamo affrontare ciò che siamo e che saremo?”. La risposta di ambedue pare ad oggi essere assai pessimistica: “di fronte all’ineluttabile sconfitta che chiamiamo vita non resta che cercare di comprenderla” e rappresentarla – citando e interpolando il Kundera del Sipario. Tanto pessimistica da prevedere nella restituzione letteraria la sola fase destruens: la realtà contemporanea è un’aberrazione tale da giustificare il più radicale escapismo pornografico totalizzante (nel secondo) o la riemersione attraverso le crepe del presente psicologicamente catastrofico di forme primitivistiche e ancestrali di sacralità e misticismo distorti (nel primo). Del resto che compito della letteratura sia indagare (sempre Kundera: “Un romanzo che non scopra un segmento di esistenza finora sconosciuto è immorale. La conoscenza è l’unica moralità del romanzo”) e criticare e non pianificare e costruire è storia vecchia e risaputa, altrimenti leggeremmo entusiasti Che fare? di Cernysevskij e non I demoni di Dostoevskij.
Al di là delle questioni tematiche, questi due esordi che consiglio di leggere in estate hanno un’altra caratteristica che va sottolineata, lo stile sopraffino. Più brillante, acrobatico e battutistico quello di Ravasio (“immune dal bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica, il paese crede di aver visto tutto perché in fondo non ha mai visto niente, non ha altro obiettivo a parte quello di reiterare se stesso, in un circolo gastrico chiuso, lavoro-casa-chiesa, dove il battesimo coincide con il funerale, la bocca con lo sfintere”) e più evocativo, specialistico e misterico quello di Mosca (“non potevano perdonarlo, per la legge dell’aratro e del fieno, per la vita, per le loro bestie. […] Ma quelli non gli credettero, troppo abituati alle false promesse del grano e alla slealtà delle stagioni”).
Davide Zappulli
“The Experience of God” – David Bentley Hart
Eravamo immersi in un’infinita rete di significati. Quando provo a figurarmi come un uomo di poche centinaia di anni fa esperisse il mondo, immagino persone che vedevano un ordine divino nel cielo notturno, una punizione per i loro peccati nella malattia e una retribuzione per i loro meriti nei successi. In poche parole, immagino un mondo che aveva senso, nell’accezione filosofica del termine.
Oggi la realtà ci si dischiude in modo diverso. L’universo è visto come qualcosa di profondamente affascinante, certo, ma allo stesso tempo totalmente privo di propositi o fini. I fenomeni cosmici che vengono esplorati da alcune tra le più brillanti menti al mondo non esistono per soddisfare un particolare ruolo teleologico; stanno lì perché l’universo è fatto così, punto e basta. Allo stesso modo, coloro che ancora vedono le loro fortune e sfortune come il prodotto del destino anziché della cieca probabilità vengono giudicati come superstiziosi o creduloni.
Cosa è cambiato? Logicamente, le possibilità sono due: potremmo essere cambiati noi o potrebbe essere cambiato il mondo. La seconda non è veramente plausibile, dunque la domanda è: in cosa siamo cambiati? Questo è uno dei temi che attraversa il libro che vorrei consigliarvi: “The Experience of God” di David Bentley Hart. Hart è un filosofo e teologo statunitense che per anni ha lavorato all’Università di Notre Dame (Indiana), una delle migliori istituzioni al mondo in teologia e filosofia della religione. Questo suo libro potrebbe essere descritto come un tentativo, magistralmente informato sia storicamente sia filosoficamente, di dissipare quella cortina di assunzioni metafisiche che ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo tanto in profondità da averci fatto credere che vivere immersi in quella cortina sia la nostra condizione naturale.
Come ovvio dal titolo del libro, il fulcro della discussione di Hart è Dio. In molti dei circoli intellettuali più sofisticati la vocalizzazione del proprio ateismo è oggi assurta a livello di formula rituale iniziatica, un mantra che viene orgogliosamente recitato non per accedere alla vita adulta ma per mostrarsi degni di mettere piede sul suolo sacro della razionalità. I guardiani simbolici di questo luogo sono per la maggior parte brillanti scienziati che da bruchi di laboratorio, cauti nel rimanere all’interno dei confini della loro area di competenza, hanno compiuto la loro metamorfosi in farfalle da dibattito pubblico, che svolazzano da un argomento all’altro abbastanza lentamente da sfoggiare la loro tuttologia ma troppo in fretta perché l’accuratezza delle loro posizioni possa essere scrutinata.
Nel suo “The Experience of God” Hart mostra con una chiarezza travolgente come la comprensione che questi “nuovi atei” hanno delle posizioni teiste sia poco più di una caricatura, scrivendo addirittura di essere “più che disposto ad ammettere che il Dio descritto dai nuovi atei decisamente non esiste” ma anche che “ad essere onesti, questa è una concessione completamente innocua” (p. 23, traduzione mia). L’obiettivo di Hart è, da un lato, quello di frantumare concezioni fantoccio del teismo e, dall’altro, quello di recuperarne una storicamente e filosoficamente informata, non tanto portando argomenti originali ma piuttosto connettendo il lettore a un insieme di tradizioni (principalmente quella Cristiana, Islamica e Vedantica) che hanno sviluppato un’infinità di argomenti nel corso dei secoli.
Qual sarebbe questa concezione fantoccio? Nella mia stessa esperienza, quando mi capita di parlare dell’argomento con atei più o meno convinti della loro credenza nella non esistenza di Dio, indipendentemente dal fatto che essi abbiano la terza media o un dottorato in filosofia la loro concezione del divino è più o meno la seguente: un essere dotato di proprietà incredibili (e.g., onnipotente, onnisciente, onnipresente, e via dicendo) che a un certo punto ha deciso di creare il cosmo e con esso noi. Secondo questa accezione Dio farebbe fondamentalmente parte della stessa gerarchia di noi umani e di Superman, se esistesse: Superman è un po’ più eccezionale di noi comuni mortali, e Dio è ancora più su, il meglio del meglio tra tutti gli esseri.
Questa, tuttavia, non è il modo di comprendere Dio di nessuna delle grandi tradizioni teiste. Un essere così descritto è nulla più di un demiurgo: un dio, sì, ma con la lettera minuscola, non diverso da Zeus o Apollo. Il Dio di cui parlano Tommaso D’Aquino, Ibn Sina o Abhinavagupta è qualcosa di completamente diverso e totalmente incommensurabile a tale limitata divinità. Per Hart “parlare di “Dio” propriamente […] è parlare della fonte infinita di tutto ciò che è […]. Dio, così compreso, non è qualcosa che sta di fronte all’universo, in aggiunta ad esso e non è nemmeno l’universo stesso. Dio non è un “essere,” almeno non nel senso in cui lo sono un albero, un ciabattino, o un dio; Dio non è un oggetto in più nell’inventario delle cose che sono e nessun altro tipo di oggetto discreto” (p. 30, traduzione mia)
Secondo questa concezione presente in tutte le grandi tradizioni monoteiste, Dio non è un essere. In altre parole, se ci mettessimo a compilare un libro contenente una lista di tutto ciò che esiste (io, voi, il computer dove sto scrivendo ora, il monte Everest, ecc.) Dio non comparirebbe come uno degli elementi della lista. Se esistessero, vi comparirebbero esseri come angeli e demoni e dei come Marte o Thor, ma non Dio con la “D” maiuscola. Dio è qualcosa di più simile alla condizione di possibilità ultima dell’esistenza e della manifestazione di tutti gli esseri. Dio è l’Essere che rende possibile l’esistenza degli esseri.
Portando sul tavolo questa più profonda concezione di Dio, Hart ribalta con acutezza pungente quella gerarchia di razionalità messa in piedi dai nuovi atei secondo cui i teisti starebbero in fondo. Dopotutto, parte di ciò che è richiesto per essere razionali, intellettualmente onesti, epistemicamente okay, e tutto il resto consiste nello sforzarsi di criticare le posizioni dei propri avversari nella versione più forte. Ad esempio, se qualcuno mostrasse che la concezione della teoria dell’evoluzione Darwiniana di uno studente del primo anno di biologia è incoerente, ciò non costituirebbe un argomento contro la teoria dell’evoluzione nemmeno agli occhi del più fantasioso degli intellettuali. Allo stesso modo, l’ateo contemporaneo non può dichiararsi razionalmente soddisfatto nell’aver fornito un argomento contro l’esistenza di Dio visto come come un mero demiurgo (indipendentemente dal fatto che tale concezione potrebbe essere quella che una minoranza di credenti ha). Hart spinge l’ateo a portare argomenti contro la concezione di Dio come Essere.
Tuttavia, di fronte a tale concezione, i più popolari argomenti in favore dell’ateismo smettono di funzionare, disvelando ineluttabilmente la superficialità della comprensione del teismo dei sostenitori di tali posizioni. “Se Dio ha creato l’universo, allora chi ha creato Dio?”. Un argomento che ha in effetti una certa presa contro un demiurgo che, essere tra gli esseri, si fa creatore del cosmo, ma che non inizia nemmeno a scalfire la credenza in un Dio come descritto sopra. L’Essere con la “E” maiuscola è precisamente ciò che permette di spiegare l’esistenza di tutti gli esseri, chiedere da dove provenga l’Essere è nient’altro che una confusione di categorie.
Stessa sorte per l’argomento secondo cui l’esistenza di un Dio onnipotente sia impossibile perché origina paradossi: può Dio creare un masso che non può sollevare? Se non può crearlo, allora non può fare tutto e dunque non è onnipotente, ma anche se lo creasse smetterebbe di essere onnipotente. Ancora, questo argomento rivela una confusione categoriale nella misura in cui attribuisce a Dio lo stesso tipo di agentività di esseri limitati come noi umani. Dio non è una versione potenziata dei personaggi di Dragon Ball che, stando di fronte a un masso, può essere o non essere in grado di sollevarlo. Dio non è un essere ontologicamente limitato di cui possiamo dire: “questo può farlo e questo no”. L’onnipotenza del Dio teista è esattamente il contrario: tutto ciò che è possibile lo è perché accade nell’onnipotenza di Dio.
Su queste basi, Hart depriva il paradigma metafisico naturalista/fisicalista del suo auto-proclamato status di detentore del massimo rigore e razionalità ricaratterizzandolo come una sorta di fede scientista. “Quando dico che l’ateismo è un tipo di obliterazione dell’ovvio intendo che se si capisce la vera definizione di “Dio” nella maggior parte delle grande tradizioni religiose e se conseguentemente si capisce ciò che è logicamente implicato dal negare che ci sia un Dio così definito, allora non si può rigettare la realtà di Dio tout court senza finire nell’assurdo” (16-17; traduzione mia). Per Hart, questo lo si vede quando realizziamo che “l’unica alternativa coerente alla credenza in Dio, propriamente inteso, è qualche versione del “materialismo” o “fisicalismo” o (per usare il termine preferito al momento) “naturalismo”, e il naturalismo – la dottrina che non vi è nulla al di fuori dell’ordine fisico e certamente niente di sovrannaturale – è un concetto incorreggibilmente incoerente, indistinguibile dal puro pensiero magico. La nozione stessa della natura come di un sistema chiuso e interamente autosufficiente è chiaramente tale da non poter essere verificata, deduttivamente o empiricamente, dall’interno del sistema stesso” (17; traduzione mia).
Le ragioni della popolarità di questo paradigma metafisico e culturale, secondo Hart, risiedono in quelle che sono fondamentalmente contingenze storiche che risalgono al tempo della rivoluzione scientifica. Focalizzarsi sull’esplorare le proprietà meccaniche dell’universo era una grande idea: ci permette di ignorare un gran numero di fenomeni che non occorre considerare ai fini predittivi e tecnologici. Tuttavia, a un certo punto quello che era un framework operativo si è trasformato in un paradigma metafisico, e quello che era un focus su certe proprietà dotate di potere predittivo divenne una negazione dell’esistenza di qualsiasi altro tipo di proprietà. Nel suo libro, Hart cerca di portare alla luce tali processi nella storia del pensiero per mostrare come il fatto oggi molte persone intelligenti ed educate in filosofia e scienza trovino l’ateismo una posizione intuitiva sia non il risultato di un processo di miglioramento delle nostre capacità logiche e razionali o di nuova evidenza empirica ma piuttosto il prodotto di una dimenticanza o un insieme di dimenticanze risultanti da pure casualità storiche.
“The Experience of God” è un libro potente. Esso sradica le assunzioni naturalistiche penetrate nel terreno della nostra cultura nel tentativo di spargerlo con sementi metafisicamente e storicamente più informate. Hart stesso cade di tanto in tanto nel tranello di caratterizzare le posizioni dei suoi avversari in modi vagamente sarcastici, ma i suoi argomenti sono solidi, informati e brillanti. “The Experience of God” è un libro da leggere per chiunque voglia capire ciò di cui sta parlando quando discute della esistenza o non esistenza di Dio.
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