Che andiate in campeggio o nel più lussuoso degli hotel, che stiate in Italia o altrove, che lavoriate o meno, ecco una lista di letture consigliate dalla nostra redazione per la vostra estate. Ognuno di noi, autori e autrici di questa rivista, vi consiglia cose (belle o almeno un po’ interessanti) da leggere in questi mesi di calura.
IN COPERTINA E NEL TESTO: MASSIMO BARZAGLI, “FISHWARMING”. Oggi all’asta da casa d’aste pananti.
di Redazione
Francesco Ammannati
Agosto non è senz’altro il mese che consiglierei per una bella gita a Chicago. Caldo soffocante e alta possibilità di piogge e temporali potrebbero rovinare la visita alla terza città degli Stati Uniti. D’altronde questi tempi straordinari rendono difficoltoso anche solo raggiungere la windy city. Il mio consiglio, quindi, è limitarvi alla lettura del sorprendente saggio di Marco D’Eramo Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro (Universale economica Feltrinelli/Saggi), uscito nel 1995, ma ampliato nel 2004 e riproposto qualche mese fa con una nuova postfazione. Non una guida, non una “semplice” storia della città, non un’analisi statica della Chicago d’oggi (e di domani), ma un affresco che usa la maggiore realtà urbana dell’Illinois come pretesto e innesco induttivo per parlare dell’America, degli americani, della forza dirompente del capitalismo e di come questo sia riuscito nel giro di una manciata di decenni a trasformare il piccolo borgo di Checagou (300 abitanti nel 1833) nel centro più importante del Midwest e uno dei poli economici dell’intera nazione. La narrazione scorre fluida, accattivante, divertente, esatta, snocciolando dati che non sembrano mai fini a loro stessi ma funzionali a trasmettere la meraviglia della cavalcata forsennata della città verso una modernità di cui è stata essa stessa prima ambasciatrice: lì sono stati costruiti i primi grattacieli, lì aveva sede il primo e più grande mattatoio industriale del mondo, lì la ferrovia ha mostrato per la prima volta la sua cruciale e fatale capacità di sconvolgere gli equilibri del commercio terrestre a lunga distanza. Basandosi sull’ordito di questi macro-temi, D’Eramo riesce a intrecciare una densa trama di digressioni che compongono un arazzo in grado di rappresentare ogni aspetto della società (americana, ma pur sottolineandone l’alterità rispetto a quella della vecchia Europa, si colgono riverberi che riecheggiano in tutto l’Occidente). Dallo sviluppo dei trasporti alle ricadute sul tessuto urbano, dagli effetti dell’immigrazione di massa all’applicazione di metodi matematici nella logistica, dall’invenzione dell’alimentazione industriale alle mille sfaccettature del termine comunità, questo libro vi accompagnerà per mano lungo due secoli cruciali per la comprensione del mondo di oggi.
E che fare per il mondo di domani? Per rispondere a questa domanda può venirci in soccorso il recentissimo Changemaker? Il futuro industrioso dell’economia digitale di Adam Arvidsson (Luca Sossella Editore), prima uscita della collana – appunto – CheFare?, emanazione dell’omonima “Agenzia per la trasformazione culturale” che contribuisce da un decennio al dibattito sull’innovazione sociale. Partendo dall’analisi della crisi del capitalismo industriale contemporaneo, che ormai pare aver perso lo slancio necessario a immaginare il futuro, impantanato com’è “in un sistema che si basa su una produzione di massa all’insegna dello spreco”, il saggio introduce il concetto di modernità industriosa come modello in grado di supportare il cambiamento. Lo sguardo è fisso sul domani, ma l’esempio più calzante è individuato nel passato, in quella transizione verso il capitalismo moderno che caratterizzò l’Europa nel “lungo Cinquecento”. Il risultato argomentativo, soprattutto nell’ultimo capitolo in cui questa teoria si sviluppa in modo più esplicito, non è scevro da critiche: il rimando costante è a Weber, ma a una testualità weberiana estremamente semplificata, e la conoscenza delle problematiche storiche e della storiografia a proposito della “rivoluzione commerciale del Medioevo” risulta abbastanza datata. I richiami a Braudel, e alle sue intuizioni fondamentali per la sistematizzazione di un percorso evolutivo del capitalismo dal basso medioevo all’età moderna e in seguito industriale, sono solo raramente rinfrescati dalle più recenti riflessioni dei suoi “successori”, come Wallerstein o Arrighi. Nondimeno, l’approccio dimostra un benvenuto interesse nei confronti della lunga durata, un tentativo di analizzare le dinamiche economiche contemporanee usando come guida ed esempio le transizioni sperimentate delle società del passato – avendo cura di non applicarle con esercizi antistorici.
Se la lettura del libro di Arvidsson vi incuriosisse, ma non voleste correre il rischio di rimanere inappagati dalla (inevitabile, dato il tipo di saggio) sinteticità della ricostruzione storica, concludo rimandando a quel capolavoro di rigore e piacevolezza che è il super classico Storia economica dell’Europa pre-industriale di Carlo M. Cipolla (dal 1974 continuamente, e giustamente, ristampato da Il Mulino), che nelle conclusioni già rimarcava come l’Europa (ma oggi potremmo estendere la riflessione a tutto il sistema capitalistico) “deve faticosamente cercare e trovare una nuova identità e un nuovo ruolo. La cosa non è facile e il tempo stringe”.
Erik Boni
-->Colgo l’occasione che mi è stata gentilmente offerta per parlare di tre libri – due romanzi di fantascienza e un saggio – con un filo conduttore credo piuttosto attuale: la fine del mondo.
Un cantico per Leibowitz è l’unico romanzo pubblicato in vita (nel 1959) da Walter M. Miller, anche se si tratta in realtà dell’unione di tre racconti originariamente separati che condividono lo stesso universo narrativo. L’autore durante la Seconda Guerra Mondiale aveva preso parte al bombardamento dell’abbazia di Montecassino, ed è da questa esperienza che sicuramente trasse ispirazione per il suo romanzo post-apocalittico, che descrive un mondo non solo materialmente distrutto dell’atomica ma soprattutto contrassegnato dall’oblio culturale e scientifico delle epoche precedenti, delle quali rimangono solo reperti materiali non riconosciuti nelle loro funzioni originarie e venerati come reliquie dai frati di un ordine religioso. La visione pessimista di Miller fa sì che il lento riemergere della civiltà tecnologica sia interrotto, alla fine, da un nuova apocalisse nucleare, che nemmeno stavolta sarà quella definitiva grazie al ruolo catecontico svolto dalla Chiesa cattolica, unico elemento di continuità insieme al personaggio dell’Ebreo Errante.
La caduta di Hyperion (1990) è la continuazione di Hyperion pubblicato da Dan Simmons l’anno precedente e ne è anche la conclusione. I due romanzi narrano la vicenda di cinque pellegrini sul pianeta Hyperion che vanno incontro allo Shrike, un mostro d’acciaio in grado di procurare indicibili sofferenze alle sue vittime, sul più vasto sfondo di una guerra galattica che vede fronteggiarsi civiltà contrapposte e l’ambiguo ruolo svolto dal Tecnonucleo, ovvero il complesso delle intelligenze artificiali. Andrebbero ovviamente letti entrambi ma mentre il primo romanzo ha un carattere aperto ed enigmatico la continuazione si occupa, con abilità stupefacente, di rispondere alla maggior parte degli interrogativi lasciati in sospeso nel libro precedente. E non potrebbe esistere un romanzo dai temi più ambiziosi: il destino finale dell’umanità, il rapporto dell’uomo con Dio (ma quale Dio?), la dipendenza dalla tecnologia, persino il significato del sacrificio e della sofferenza. Anche in questo caso assistiamo allo scontro fra i poteri che intendono “frenare” l’apocalisse in corso e altri che invece intendono assecondarla, anche se non tutti con le stesse finalità. Il che ci porta al terzo libro.
Il potere che frena (2013) di Massimo Cacciari parla di una misteriosa entità introdotta dall’apostolo Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi. Paolo rimprovera quei fedeli troppo impazienti che vivono come se la fine dei tempi fosse imminente, e ricorda come prima debbano verificarsi certe condizioni. Il katechon – che deve essere tolto di mezzo perché il destino si compia – è ciò che trattiene l’Anticristo dal manifestarsi prima del tempo, e quindi gli impedisce di godere del suo comunque effimero trionfo (visto che sarà a sua volta spazzato via dal secondo avvento). Ma chi o cosa è il katechon? Si tratta di un’allusione all’impero romano – come per lo più inteso – o è forse la Chiesa a svolgere tale ruolo frenante? Ma soprattutto, a quale campo appartiene? A quello di Dio o a quello dell’Avversario? Cacciari mostra che tale figura, comunque la si intenda, non può non apparire ricca di antinomie: se la Chiesa vive nell’attesa della fine dei tempi – in una prospettiva ultraterrena – nel frattempo si pone comunque il problema dell’amministrazione delle cose terrestri, quindi del potere temporale. Ma può tale potere non entrare in conflitto con quello spirituale, avanzando la sua interpretazione del senso della storia e della sua missione in essa? È non è anzi tale funzione, anche se interpretata come rigorosamente conservatrice (come semplice argine al caos e all’anomia), necessariamente in contrasto con una prospettiva messianica che prevede e auspica la distruzione di quest’ordine?
Andrea Cassini
Baptiste Morizot, Sulla pista animale – nottetempo, 2020
Rewilding, che si potrebbe tradurre in italiano come inforestamento, è una delle parole chiave del presente – quantomeno, per chi prende sul serio le preoccupazioni legate al cambiamento climatico e al ruolo dell’uomo nei destini del pianeta. Proprio sul ruolo dell’uomo riflette il filosofo francese Morizot in questo volume breve ma denso, ricco di esperienze personali che stanno strette fra le pagine, tanto è il trasporto poetico dell’autore. Morizot pratica il pistage, e gira il mondo alla ricerca di tracce animali, come gli antichi cacciatori. Ma il pistage è anche una ricerca filosofica, antropologica, sciamanica: se si lasciano i canali aperti, permette all’uomo di calarsi nell’altro, e nella sua stessa identità animale. Per l’autore, il pistage è una guida per ripensare l’uomo come diplomatico, come intermediario fra le specie animali e vegetali, affinché ciascuna abbia il suo spazio. E forse un giorno si potrà cancellare la distinzione posticcia tra civiltà e natura, e comprendere che la natura non è un eden silenzioso né una selva terribile, ma un luogo pieno di suoni e significati, alcuni in accordo e altri in conflitto con noi, a cui con pochi passi possiamo ritornare.
Roland Lazenby, Showboat, la vita di Kobe Bryant – 66th and 2nd, 2017
Prima che il 2020 diventasse l’anno della pandemia, un iperoggetto che ha dilatato la percezione del tempo, gennaio si era aperto con una notizia tragica per gli appassionati di sport e con ramificazioni profonde in tutta la cultura pop, vista la caratura del personaggio, capace anche di vincere un premio Oscar. Kobe Bryant è morto il 26 gennaio nello schianto di un elicottero sulle colline di Calabasas, in California, e per i patiti di basket l’impressione è quella di non aver potuto elaborare il lutto, congelato dalla pandemia che ha sospeso anche il campionato NBA. Nonostante il fiorire di recenti tributi, Showboat di Roland Lazenby, che fu anche il biografo di Michael Jordan, resta il migliore documento per capire chi era e cosa resta di Kobe Bryant, come atleta e come uomo, nelle sue manie, nelle sue grandezze, nelle sue contraddizioni. Letto in prospettiva, il tono neutro di Lazenby, dettagliato ma onesto come solo un vero appassionato sa essere, ha la qualità di un elogio funebre degno di un protagonista nato come Kobe.
Haruki Murakami, Tutti i figli di Dio danzano – Einaudi, 2005
Come si reagisce, e come ci si prepara a un trauma collettivo – a un cigno nero, per dirla con le parole di Nassim Nicholas Taleb? Se il mondo occidentale si è ritrovato fragile, sorpreso e disorientato di fronte alla pandemia di coronavirus, si può forse trarre esempio da quei paesi che con la catastrofe hanno dovuto imparare a convivere. Il Giappone ha vissuto sulla sua pelle la bomba atomica, e continua a coabitare con il suo spettro. Soprattutto, sta seduto sopra a una faglia altamente esplosiva, che significa terremoti a cadenza regolare. La terra che trema è la normalità. Fuori dalla normalità, ma non per questo rimandabili o evitabili, ci sono le catastrofi come lo tsunami del Touhoku del 2011. Tutti i figli di Dio danzano è una raccolta di racconti scritti da Haruki Murakami dopo il terremoto di Kobe del 1995, un evento che sembra lontanissimo e che invece suona quantomai attuale grazie alla consueta penna di Murakami, leggera, elegante, fuori dal tempo. Sei storie di uomini e donne che si perdono e si cercano in un Giappone frammentato, quando l’unica strategia di sopravvivenza è costruire nuovi ponti e immaginare nuove storie. A conferma di quanto la metafora sia significativa per il presente, il tema risuona in declinazioni diverse nei recenti anime Tokyo Magnitude 8.0 e Japan Sinks, a sua volta tratto da un romanzo del 1974 – Nihon chinbotsu, di Sakyou Komatsu.

Dario De Marco
E ora, qualcosa che non vi aspettate: si parla di microbiologia, analisi sensoriale, supply chain, etanolo. In una parola, di birra. Sulla scia del fortunato Il tempo in una bottiglia. Storia naturale del vino, l’affiatata coppia DeSalle-Tattersall torna con Storia naturale della birra (Codice edizioni, traduzione di Gianni Pannofino). Ian Tattersall è antropologo e paleontologo, Rob DeSalle è biologo e genetista: un arco di scienza necessario per quella che è probabilmente la bevanda alcolica più antica al mondo. Dalla scoperta della fermentazione all’odierna rinascita dei birrifici artigianali; dagli effetti che l’alcol fa al cervello (e alla panza) fino agli aspetti sociali nelle varie epoche e regioni; dal labirinto delle varietà e dei metodi alle questioni politiche: la birra si presta a essere guardata da innumerevoli sfaccettature. Lo diceva anche Gilgamesh: mangiare pane e bere birra – che poi sono la stessa cosa in forma diversa – è ciò che distingue l’uomo civile dal selvaggio. È un viaggio caleidoscopico, Tattersall e DeSalle raccontano di tutto. Ma, e anche questo è un pregio, non raccontano tutto: lasciano buchi, dubbi, domande, voglia di approfondire. Ed è il servizio migliore che un divulgatore può rendere alla birra. Volevo dire alla scienza.
E ora, qualcosa che vi aspettate: si parla di arte, speculative fiction, inconscio, occultismo. In una parola, di Surrealismo. È appena uscito un altro folgorante libro di China Miéville. Gli ultimi giorni della nuova Parigi (Fanucci, traduzione di Pierluigi Fazzini) appartiene a quel genere particolare di fantascienza che va sotto il nome di ucronia: la creazione di una realtà parallela alla nostra, un universo dove a un certo punto è successo qualcosa che ha deviato i binari. Il topos più diffuso nel genere, tanto diffuso da costituire un vero e proprio sottogenere, è l’ambientazione un mondo in cui i nazisti hanno vinto la guerra: Fatherland di Robert Harris, Il signore della svastica di Norman Spinrad, e ovviamente su tutti The man in the high castle (Il signore della svastica) di Philip K. Dick. Qui siamo nel 1950, e se il Reich non ha vinto è solo perché la guerra non è ancora finita. Ma il fatto davvero assurdo è l’innesco che ha provocato il deragliamento: l’esplosione di una bomba all’interno del leggendario caffè parigino Les Deux Magots, bomba che ha realizzato le sfrenate fantasie dei surrealisti. Si aggirano così – per una Parigi dilaniata da una guerriglia eterna fra nazisti, spie, partigiani e altre oscure forze – cadaveri eccellenti e donne-bicicletta (il Vélo di Leonora Carrington), l’elefante robot di Max Ernst e i telefoni-aragosta di Dalì. Ex opere d’arte, ora sono mostri in carne e metallo, manifestazioni tridimensionali di una insuperabile energia spirituale, colloquialmente detti manif. Ha un po’ di Tolkien e un po’ di VanderMeer, un’atmosfera alla Volodine e un ricordo di Lovercraf, ma è sempre il nostro ineffabile Miéville. Gli ultimi giorni della nuova Parigi sta tra fantasy e sci-fi, new weird e steampunk, ma è in definitiva, e soprattutto, surrealista. Anzi, surreale.
Gianluca Didino
Adelphi ripubblica oggi il capolavoro incompiuto di René Daumal, surrealista mancato, patafisico, allievo di un allievo di Gurdjeff, mistico, poeta e alpinista, che vide originarimaente la luce nel 1952 quasi dieci anni dopo la morte del suo autore. Da adolescente Daumal scrisse poesie che attrassero l’attenzione di André Breton, ma invece di unirsi alle schiere surrealiste fondò una sua avanguardia, i Fratelli Simplisti, e una sua rivista che chiamò “Le Grand Jeu”. Avvicinatosi alle filosofie orientali, negli anni Trenta conobbe Alexandre Gustave de Salzmann, un allievo di Gurdjeff che descrisse come “un ex derviscio, ex monaco benedettino, ex professore di Jiu-Jitsu, guaritore, scenografo” ma che in realtà era sopratutto un pittore. De Salzmann divenne l’ispirazione per la figura di Padre Sogol (“Logos” scritto al contrario), il misterioso alpinista-filosofo che nel Monte analgo mette insieme una improbabile spedizione di artisti, pensatori e pellegrini spirituali con la passione della montagna allo scopo di trovare il monte che collega gli umani agli déi e la cui esistenza può essere dedotta scientificamente ma non osservata empiricamente. Spoiler, il gruppo trova per davvero la montagna, facendo del libro un vero e proprio racconto di viaggio e dunque un perfetto libro estivo, seppure sui generis: ciò che succede arrivati a destinazione invece rimane in gran parte misterioso, perché Daumal morì di tubercolosi prima di completare il romanzo, che si conclude con una virgola nel punto in cui il suo autore si alzò dalla scrivania per andare ad aprire a un ospite. Non scrisse più. A ucciderlo fu, forse, prioprio Padre Sogol: de Salzman era morto di tubercolosi otto anni prima, una malattia che aveva contratto all’inizio degli anni Venti quando, all’Istituto per lo Sviluppo Armonioso dell’Uomo di Gurdjeff a Fontainebleau, si era occupato di decorare lo studio di Katherine Mansfield che sarebbe morta di lì a poco, trentaquattrenne, della stessa malattia. Nei decenni Il monte analogo è diventato, giustamente, un libro di culto, ispirando La montagna sacra di Jodorowsky e John Zorn, che nel 2012 ha inciso un album onomino. La lettura è un’esperienza vertiginosa, che passa dal racconto d’avventure alla speculazione filosofica e dalla alla ricerca mistica a riflessioni esistenziali come questa: “Posso dirle dunque che ho paura della morte. Non di quello che ci si immagina della morte, perché questa paura è essa stessa immaginaria. Non della mia morte, la cui data sarà annotata nei registri dello stato civile. Ma di quella morte che subisco a ogni istante, morte di quella voce che, dal fondo della mia infanzia, anche a me chiede: ‘Cosa sono?’ e che tutto, in noi e intorno a noi, sembra essere disposto a soffocare, ancora e sempre. Quando questa voce non parla – e non parla spesso! – sono una carcassa vuota, un cadavere agitato. Ho paura che un giorno essa tacccia per sempre; o che si svegli troppo tardi – come nella sua storia delle mosche; quando ci si sveglia si è morti”.
Francesco D’Isa
Ultimamente ho ripreso su Instagram la mia rubrica “Recensioni brevissime di libri difficili” e consiglio fin troppi libri, Considerato però che lì parlo soprattutto di classici, ne approfitto e per proporre qua alcune nuove uscite.
Tra i saggi usciti di recente, consiglio senza dubbio Essere senza casa di Gianluca Didino (minimumfax). Un fan di Mark Fisher troverà chi prosegue con eleganza e chiarezza alcuni dei suoi temi, con un’abilità nell’intrecciare fonti alte e popolari che ricorda un po’ Zizek, ma con più chiarezza espositiva e (grazie al cielo) maggiore sintesi. Chi invece non ama particolarmente Fisher (eccomi), troverà tra queste pagine la sua bella copia.
Un librone per chi ama la filosofia e vuole ripassarla tutta, o perlomeno tutta quella occidentale: L’ardore della mente occidentale di Richard Tarnas (Tlon). Con eccellente chiarezza espositiva l’autore ci propone il suo percorso nella storia della filosofia occidentale, prestando attenzione anche al ruolo del mito e della religione, cosa che purtroppo non capita spesso. Qualcuno faccia la stessa cosa con la filosofia orientale e siamo a posto, grazie.
Una bella scoperta è stato Budda e il suo glorioso mondo (Lindau), di Carlo Coccioli; un autore che riscoperto di recente grazie al romanzo Grande Karma di Alessandro Raveggi (Bompiani) e al lavoro della casa editrice Lindau. Chi come me ha odiato il Siddharta di Hesse troverà in questo libro una biografia stramba e idiosincratica, che ha però il merito di entrare davvero a fondo nella filosofia del Buddha.
Ad autrici e autori de L’Indiscreto ho proposto di consigliare massimo tre titoli, ma abuso del mio potere e della mia sintesi per consigliare anche La sfida di Gaia di Bruno Latour (Mimesis), che è banalmente la miglior analisi filosofica ecologista pubblicata durante l’antropocene. Ne parla meglio Alessandro Mazzi tra un po’.
Alessia Dulbecco
Siamo marea, di Benedetta Pintus, Beatrice Da Vela.
Pintus, giornalista e fondatrice di pasionaria.it, e Da Vela, scrittrice e attivista LGBT+, danno vita ad un manuale corposo e chiaro, per fare chiarezza attorno al concetto di “femminismo”.
È possibile una sua definizione univoca? Forse no, poiché essendo un processo sociale e politico si compone di molteplici voci, ognuna delle quali frutto dai cambiamenti culturali dei singoli periodi storici, dall’800 ai giorni nostri. In ragione della sua complessità è importante ricostruirne la storia e osservarne le istanze, ascoltando in particolare le voci di chi ha contribuito a farle emergere. Per questo, il volume si compone di molte interviste alle donne che hanno fatto la storia del movimento, da Lea Melandri a Elisa Coco. Un volume prezioso e di grande attualità per orientarsi nella rivoluzione femminista, dagli albori della all’attuale “quarta ondata”.
Manifesto Controsessuale, di Paul B Preciado.
La controsessualità è la strategia di resistenza al dominio eterosessuale, un sistema post identitario che supera il binomio sesso/genere. È proprio sull’aspetto biologico che Preciado insiste poiché, se il femminismo della seconda ondata ha avuto il merito di decostruire il concetto di genere, nessuno si è ancora concentrato sul dato biologico. Secondo il filosofo – che risente della lezione di Foucault Derrida e Butler – tale concetto ha una dimensione culturale che non può essere taciuta. È un testo provocatorio che insegna a chi lo legge a mettere in discussione le relazioni sociali e le costruzioni identitarie, in primis quella della nostra sessualità.
Femminili singolari, di Vera Gheno.
Perché, ancora oggi, molte persone storcono il naso davanti alla possibilità di declinare al femminile determinati sostantivi? “Sindaca” o “ministra”, ai più non piace. Eppure, gli stessi non hanno problemi a utilizzare “segretaria” o “maestra”. La sociolinguista Vera Gheno indaga gli aspetti culturali soggiacenti alla nostra lingua. I problemi riscontrati nella declinazione al femminile di determinate parole non dipendono da elementi teorici o stilistici. La lingua italiana prevede la possibilità di allineare la parola al genere del soggetto: allora, perché non pochi sostengono ancora che “suonino male”? La questione è culturale. La lingua è lo strumento con cui (de)codifichiamo la realtà: ciò che non nominiamo, non esiste. Forse, allora, la resistenza di molte persone non ha nulla a che vedere con la forma, ma solo con la sostanza. Non è un caso che le donne abbiano fatto fatica ad accedere a determinate professioni sociali, proprio quelle che molti faticano a declinare correttamente. Attraverso uno stile colloquiale ma rigoroso, Gheno ci invita a partire dal cambiamento delle nostre parole per attuare una piccola rivoluzione: includere le donne in ogni contesto di vita.
Carla Fronteddu
Amber di Kathleen Winsor, Beat edizioni
Forever Amber fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1994 e vietato in 14 stati per oscenità. La sensibilità dei giudici dell’epoca fu probabilmente ferita dall’intraprendenza e l’audacia dell’eroina di questo romanzo storico, ambientato in Inghilterra ai tempi della Restaurazione, che usa bellezza e sex appeal per farsi strada in società e soddisfare le proprie ambizioni. Figlia illegittima di nobili, adottata da una famiglia di contadini, a sedici anni rifiuta di sposare un giovane del villaggio e fugge a Londra al seguito di Bruce Carlton, un militare conosciuto in una locanda. Da questo primo atto di ribellione inizia la storia degli amori, delle avventure e dell’ascesa sociale di Amber, non priva di ostacoli e imprevisti. Ogni svolta nella vita della protagonista nasce dalla determinazione a rifiutare qualunque destino imposto dal suo sesso e dalle convenzioni. Non a caso Amber è stata definita da Natalia Aspesi “una delle più avvincenti protofemministe della letteratura popolare femminile in grado di dare qualche suggerimento di ribellione ancora oggi”.
I piatti più piccanti della cucina tatara, Alina Bronsky, edizioni e/o
Non un libro di cucina ma il racconto in prima persona di Rosa una piccantissima donna tatara, dalla cui cattiveria e spregiudicatezza si viene inevitabilmente sedotti. Rosa vive in Unione Sovietica con il marito Kaglanov e la figlia Sulfia, entrambi miseramente al di sotto delle sue aspettative. Quando scopre che la figlia è incinta tenta di farla abortire ma fallisce ed è costretta a accettare la gravidanza. Nasce così Aminat, che diversamente da Sulfia è bella e ha “un visetto estremamente intelligente”: “constatai con sorpresa che quella bambina senza padre somigliava più a me che a qualunque altro adulto conoscessi”. Aminat diventa la missione di Rosa, che dal primo momento investirà tutta la sua energia e arguzia per darle una vita migliore, aspettandosi in cambio che la nipote si mantenga sempre all’altezza delle sue aspettative. Ma si sa che chi crede di agire per il bene degli altri spesso finisce per far gravi danni e inevitabilmente neppure a Aminat saranno risparmiate angosce e sofferenze. Alina Bronsky dà voce a una cattiva indimenticabile e descrive il lato oscuro delle relazioni di cura.
Ho fatto la spia di Joyce Carol Oates, La nave di Teseo
Sembra che il destino della donna sia subire e tacere, scriveva Simone De Beauvoir. Quando il silenzio- imposto, suggerito, introiettato- viene rotto accade qualcosa e il mondo intorno reagisce, in un modo o nell’altro. Nel caso di Violet, la più piccola della numerosa famiglia Kerrigan, l’atto di parlare segna l’inizio di un calvario. Una notte due dei suoi fratelli aggrediscono e picchiano a morte un ragazzo nero. Violet li sente rientrare e li osserva lavare le tracce di sangue e nascondere la mazza usata per massacrare la loro vittima, ma non può dire nulla. Impensabile confidarsi con il padre, la madre è fuori di sè e il tentativo con il prete si rivela un fallimento. Ma Violet vive nell’ansia, teme i suoi fratelli e alla fine, svuota involontariamente il sacco davanti alla sua insegnante, cambiando per sempre la vita dei suoi famigliari. E la sua, perchè verrà letteralmente esiliata, spedita in un’altra città da una zia senza figli e condannata all’oblio. Da quel momento la sua esistenza assume i tratti di una punizione: il desiderio frustrato di essere perdonata e riammessa in famiglia, il senso di colpa che le rimbomba continuamente in testa, gli abusi che subisce da parte degli uomini. La sua personale odissea verso l’emancipazione diventa specchio del macismo, della pochezza di quei maschi bianchi ancorati al loro privilegio, che si sentono costantemente minacciati dall’altro, ossessionati dal corpo del maschio nero e resi violenti dalla paura di non riuscire a dominare il mondo. Violet mette a nudo il loro tallone d’Achille, la virilità: “capisci: il potere che ha l’uomo su di te è quello di intimidirti, di farti vergognare. Il potere che invece hai tu su di lui è il potere della risata”.
Ilaria Gaspari
Régis Jauffret, Microfictions.
Penso che se esistesse una versione puramente narrativa, tutta fatta di racconti, dei Saggi di Montaigne, somiglierebbe molto a questo incredibile libro di Jauffret. Cinquecento raccontini brevissimi – massimo due pagine – in ordine alfabetico, che raccontando cinquecento vite ci dicono della vita in sé.
Agatha Christie, Dieci piccoli indiani.
Il più giallo dei gialli, secondo me. Deliziosamente angoscioso, personaggi e atmosfere indimenticabili, un’isola e una villa, un ospite misterioso, dieci invitati tutti molto diversi fra loro; un intreccio perfetto che funziona come un orologio. Ci si lambicca il cervello, ci si affeziona, si ha paura, ci si diverte – tutto quello che si può desiderare in un libro, Dieci piccoli indiani lo offre. Da rileggere periodicamente per goderselo ogni volta da capo.
Jerome K. Jerome, Pensieri oziosi di un ozioso per una vacanza oziosa.
Quattordici brevi, spassosissimi saggi di un umorista impareggiabile. Per ricordarci che l’ozio è la nostra vocazione più nobile.
Alessandro Mazzi
Bruno Latour, La sfida di Gaia.
Latour non risparmia termini per descrivere la catastrofe climatica. Al bando i negazionisti e i conservatori che blaterano come folli di un mondo che non esiste più, e al bando i progressisti fiduciosi che l’ennesimo intervento umano possa restaurare l’ambiente. Queste prospettive continuano a credere che l’uomo sia ancora il centro del mondo e possa continuare a modificare impunemente l’ecosistema a suo piacimento. Ora che la catastrofe è già presente, non ci resta che accettare la sfida di Gaia e dire addio alla società così come l’abbiamo conosciuta. La soluzione di Latour è radicare di nuovo l’uomo nella terra perché «non si guarisce dalla condizione di appartenenza al mondo. Ma, a forza di cure, si può guarire dalla convinzione che noi non gli apparteniamo, che l’essenziale risiede altrove, che quel che accade al mondo non ci riguardi». La missione è tornare a fare mondo assieme agli altri viventi, imparare nuovamente a coabitare in una geografia incerta, abbandonando l’unicità umana.
Baptiste Morizot, Sulla pista animale.
Nello scenario di Gaia, natura è una categoria che si riferisce a un mondo statico, mentre al contrario uscire dagli ambienti umani ci porta a entrare nel folto del sottobosco, seguire le tracce nell’erba alta o le orme lasciate dagli animali. Morizot è un filosofo antico con cui la pratica filosofica recupera radici estatiche e sciamaniche. Il suo libro è un diario di viaggio delle esperienze oltremondo dove si è trovato faccia a faccia con lupi, orsi, pantere. Lasciare i confini della civiltà richiede trasformare noi stessi e imparare a seguire vie non umane. Il tracciamento è l’arte di percorrere le piste animali per diventare altro da sé, dove i segni ritrovati ci ricordano sempre che l’animale è un essere immaginario dalle mille formi. Ora umano, ora divino, dalle fattezze proteiformi, l’animale è uno spirito guida, mediatore tra questo mondo e l’invisibile. Inforestandoci, siamo in grado di liberarci della nostra umanità e ritrovare la comunione con i viventi.
Davi Kopenawa, La caduta del cielo.
L’importanza di questo tomo è paragonabile, se non superiore, ai grandi testi religiosi e filosofici del mondo. Davi Kopenawa è uno sciamano attivo sul panorama mondiale per denunciare la distruzione genocida della foresta amazzonica e della sua gente a causa delle compagnie minerarie e del governo brasiliano. In qualità di uomo sacro e portavoce degli spiriti, Kopenawa parla per bocca della foresta, una terra viva ora devastata da incendi continui e dalla pandemia. In questo libro c’è tutto, dal mito yanomami, di cui Kopenawa è custode in qualità di sciamano e da cui trae la responsabilità per vivere in comunione con la foresta, a un’esegesi perfetta e psicologicamente spietata della religione cristiana e della cultura occidentale vissute dalla prospettiva indigena, basata su anni di esperienza diretta con missionari, cercatori d’oro, contrabbandieri e cittadini urbani. Una critica lucida e disincantata della civiltà moderna, a cui Kopenawa offre in dono il racconto biografico della propria vita, sempre impegnata su più piani di realtà per mediare tra umani, non umani e spiriti.
Gabriele Merlini
L’onda lunga del lockdown è stata per il sottoscritto caratterizzata da una follia inattesa: leggere soltanto libri celebratissimi in giro, dunque dissezionati al millimetro da chiunque (l’ultimo Lerner, Decoro di Leavitt, qualche cascame dello Strega, l’altalenante saggistica eastonellisiana, Ohio di Markley). Scriverne un’ennesima volta sarebbe perciò ridondante e poco producente, specie perché a farlo sarei io. Ecco il motivo che mi ha spinto a consigliare testi un po’ meno battuti dal mainstream nazionale ma dal valore non minore. Argomento centrale, la musica. L’ordina sarà casuale e illogico.
Strepitoso per le chiacchiere da ombrellone è La storia dei Death SS (Tsunami Edizioni 2020) narrata in prima persona dal cantante del complesso italiano, Steve Sylvester. Memoir che segue di pochi mesi la ristampa de Il negromante del rock. Le origini dei Death SS, opera anche in questo caso redatta dal Sylvester in prima persona (ignoro le ragioni di una simile iperproduzione da parte del vocalist di Welcome to My Hell o Buried Alive, comunque la faccenda deve essere salutata con fanciullesca gioia.) Testo utile per chi abbia a cuore un settore della canzone del Belpaese non tra i più popolari – l’hanno definito doom metal, horror rock e in mille altri modi colorati – unito alle cronache di anni artisticamente fervidi, specie gli Ottanta in fase terminale (menzione d’onore per i titoli dei capitoli, mediamente rivelatori del tono dei contenuti: Il diario del vampiro, La porta dell’inferno, L’angelo del male, La vestale di Satana, Black horror.) Del resto l’annalistica di prestigio si annida in territori inaspettati («individuata la mia cripta personale, dovevo arredarla») e l’occultismo circense, l’ironia dietro il velo del cadaverico o la teatralità granduignolesca delle maschere sono da secoli campi fertili nei quali scavare se vogliamo cercare indizi che siano rivelatori della nostra stramba, porosa contemporaneità.
Segue, seppure discostandosi in modo deciso dai Death SS, la rilettura dell’autobiografia di Frank Zappa scritta con Peter Occhiogrosso. Il titolo è Frank Zappa. L’autobiografia (in Italia edito da Arcana nel 2003.) Pagine sulle quali è giusto tornare oggi per una infinità di ragioni, tra cui l’acume di Zappa, dissacratorio e multiforme nelle esecuzioni live come nelle dichiarazioni alla stampa; la sua visione politica e sociale, commovente per la Cecoslovacchia del 1990 e terribile per gli USA del 2020; le posizioni su morale pubblica, etica, lavoro, minoranze, globalizzazione (sono 27 anni che F.Z. è morto e si ha l’idea stia leggendo le ultime notizie al TG della sera); sessismo, universo dei media, diritti civili (nota personale: ricordo nei dettagli il giorno della dipartita zappiana. Ero in quarta ginnasio e, scenico come sempre, scelsi di indossare per tutta la versione di greco una funerea fascia a lutto.)
In conclusione, Racconti di Francis Scott Fitzgerald. L’edizione sottomano è una Feltrinelli del 2017 ma credo siano numerose le raccolte a tema dell’autore di Gatsby. Scrive con acume nella prefazione Franca Cavagnoli: «i racconti hanno quasi tutti una colonna sonora inconfondibile, e a differenza di quanto si crede di solito non è il jazz bensì il blues». Non capisco bene il motivo, ma tendo a darle ragione. Brevi ballate southern per interpreti comici, malinconici, determinati. Composizioni cadenzate, accaldate, dalle strutture che tendono a ripetersi eppure soprendenti e zeppe di quanto sul serio conta: giradischi che gracchiano, radio luccicanti, qualche pista da ballo ancora da spazzare, un numero sensibilimente più alto di bicchieri di whisky vuoti.

Matteo Moca
Byung Chul Han, Topologia della violenza.
Nei suoi libri, tutti tradotti in italiano dalla casa editrice Nottetempo, il filosofo Byung-Chul Han ha indagato con intelligenza le caratteristiche della società contemporanea, immersa in un mondo digitale che ha portato gli uomini a smarrire la propria individualità (Nello sciame. Visioni del digitale) o a cedere ogni diritto sulle libertà personali (Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere). Nel suo ultimo saggio Topologia della violenza il filosofo coreano si concentra invece sulle forme silenziose e sempre più invisibili che oggi assume la violenza nel mondo reale e in quello virtuale, nella dimensione fisica e quella psichica. Diviso in due parti, Macrofisica della violenza e Microfisica della violenza, il libro di Han si sofferma su opposizioni che non hanno altra possibilità di sfogo se non il conflitto evidente, in cui rientrano anche le violenze arcaiche legate al sangue e al sacrificio, e su forme più sottili, trasparenti ed estremamente contemporanee come la violenza verbale. Un nuovo capitolo speculativo nell’opera filosofica di Han che conferma la bontà di una voce che si stacca con forza dal cicaleccio di molta saggistica.
Hari Kunzru, L’imitatore.
Ripubblicato da Il Saggiatore dopo la prima edizione italiana di Einaudi del 2003, L’imitatore è uno dei libri maggiormente acclamati dello scrittore e giornalista britannico Hari Kunzru. Nato da padre induista e madre inglese, cresciuto nei sobborghi dell’Essex a Woodford, Kunzru in questo romanzo raccoglie tutte le forze centrifughe che sembrano aver caratterizzato la sua identità nella storia di formazione di un uomo, il protagonista Pran Nath, come lui diviso tra più nature e alla ricerca di una strada sicura su cui impostare la propria vita. Pran Nath nasce all’inizio del Novecento dall’unione tra un inglese e una donna indiana appartenente a una casta elevata (la stessa situazione, a sessi invertiti, di Kunzru): rimasto a vivere in India ben presto però sarà allontanato dalla casa del padre adottivo e inizierà un viaggio attraverso il mondo, con episodi importanti in Inghilterra e in Africa, dove sarà stressata soprattutto la sua identità, costretto dagli avvenimenti anche a trasformarsi in ciò che non è e a mutare pure ciò che distingue ogni uomo, il nome. Sospeso tra atmosfere che ricordano grandi scrittori inglesi di origine extraeuropea, come Naipul o Kureishi, e inglesi capaci di costruire splendide atmosfere esotiche e orientali, Kipling per esempio, L’imitatore di Kunzru è un libro dove la vita si trasfigura in romanzo.
Giuseppe Marcenaro, Perversioni inconfessabili.
Giuseppe Marcenaro è uno degli scrittori più acuti ed eleganti della letteratura italiana contemporanea e anche ogni pagina del nuovo libro edito da Italo Svevo, Perversioni inconfessabili, è un concentrato, fulminante ed estatico, dell’affascinante approccio di Marcenaro al mondo delle lettere. Simboli perfetti di questa visione eccezionale sono i due libri editi da Il Saggiatore Dissipazioni. Di carte, corpi e memorie e Scarti. Appunti, lettere scartafacci che come i titoli suggeriscono si soffermano su dati marginali e all’apparenza meno importanti per poi costruire complesse ed esaustive topografie del mondo culturale. Lo stesso spirito, aristocratico e divertito, segna le brevi prose di Perversioni inconfessabili incentrate, sempre con spirito libertino, su libri ed erotismo, su orgogliosi sentimenti di indipendenza («Non bisogna appartenere a nessuno») e riflessione quasi teorica su sentimenti e carteggi («Ogni lettera che viaggia da uno stato d’animo all’altro, è l’incontro tra due presenti lontani che affondano nelle rispettive assenze»), su riletture sebaldiane, autore per certi versi molto affine a Marcenaro, e divertenti racconti sul destino imprevedibile dei libri.
Roberto Paura
Jean Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo.
Questo testo fondamentale di Jean Delumeau, storico delle idee scomparso a gennaio senza molto clamore, nonostante la preziosità dei suoi studi (il Saggiatore ha riedito nel 2018 il suo La paura in Occidente), è paradossalmente di estrema attualità. Perché lo scoppio della pandemia di Covid-19 ha riportato in auge, in alcuni ambienti, la vecchia diatriba sull’origine del male. È Dio che manda le epidemie, come sostengono anche diversi passi dell’Antico Testamento? Domanda forse oziosa per il lettore ateo: ma, come mostra Delumeau, in grado di caratterizzare l’evoluzione di un’intera società per secoli. Perché quello slittamento storico del pensiero cristiano che si verifica a partire dall’ascesa dei movimenti pauperistici (con la loro enfasi sulla sofferenza e il passaggio dall’iconografia del Christus Triumphans al Christus Patiens), si consolida negli anni della Controriforma e inizia a declinare solo negli anni dell’Illuminismo, è il frutto di una “pastorale della paura” in cui calamità naturali, guerre, malattie e le morte sono interpretati come manifestazioni di un Dio castigatore. Idea che cambia i costumi sociali, favorisce il controllo delle masse in vita e persino di quelle defunte (attraverso i riti di espiazione purgatoriali), promuove il puritanesimo e spinge Martin Lutero alla riforma protestante, fino a caratterizzare i fondamentalismi religiosi contemporanei e la loro ossessione per la morale sessuale.
Philip K. Dick, Scorrete lacrime, disse il poliziotto.
Scritto tra il 1970 e il 1973, a più riprese, e influenzato dai trascorsi di Dick con le droghe ma anche dalle sue crescenti preoccupazioni per la deriva poliziesca negli Stati Uniti negli anni delle proteste studentesche, Scorrete lacrime manifesta anche un’inquietante attualità con la repressione delle manifestazioni di Black Lives Matter nell’era Trump. Ambientato in un’America in cui vige un rigoroso stato di polizia, è la storia di Jason Taverner, star di un programma televisivo da 30 milioni di spettatori con una disinibita vita mondana, che però un giorno si sveglia in un mondo del tutto identico al suo ma in cui nessuno lo conosce. E in un mondo in cui ogni persona ha un suo dossier negli uffici di polizia, non esistere significa finire dritti in un campo di detenzione. Taverner dovrà quindi cercare di sfuggire alla rete generale di polizia Felix Buchmann, che, come il Javert dei Miserabili, subirà un’autentica conversione. In Scorrete lacrime il tema classico di Dick (“cos’è vero e cos’è falso?”) viene arricchito di considerazioni sul controllo sociale e sul ruolo del dolore e dell’amore nel definire l’essere umano, ma con quello stile inconfondibile per cui i personaggi iniziano all’improvviso a parlare di conigli, vasi di ceramica e canzoni folk, abbracciano sconosciuti alla pompa di benzina o iniziano a urlare a squarciagola mentre bevono un caffè al bar.
Teresa Buongiorno, 366 storie della buonanotte.
Questo libro lo trovate solo nell’usato, ma se avete dei bambini a casa o se volete tornare bambini per una mezz’ora al giorno fa al caso vostro. Entrò in casa mia quando avevo circa sei anni e si trasformò in una sorta di “libro dei sogni”, perché non solo riassumeva storie di romanzi, miti, leggende, scoperte, eventi, ma ciascuna storia era accompagnata da un rimando bibliografico per chi volesse saperne di più. Una vera e propria mappa per un futuro lettore, in cui ai grandi classici della formazione (Kipling, Alcott, Dahl) si affiancano romanzi impegnativi come la Recherche di Proust (di cui si racconta l’episodio del bacio della buonanotte), e storie moderne come quelle di Tolkien o Asimov. Per ogni giorno dell’anno c’è una storia e ogni storia rimanda ad altre, attraverso dei fili d’Arianna che permettono di ricostruire i grandi miti greci, le storie di re Artù o la vita di Albert Einstein e Stephen Hawking, raccontate in modo leggero e accompagnate da illustrazioni pastellose oggi un po’ demodé. Nel prologo, Teresa Buongiorno invita i lettori a immaginare la Terra (“Gaia”) come una grande astronave che viaggia da tempo immemore e di cui ha dimenticato la meta: spetterà ai bambini, attraverso la lettura delle 366 storie del libro, cercare di carpire il “segreto perduto di Gaia”. Una missione che può durare una vita intera…
Enrico Pitzianti
In questo strano inizio di 2020 mi è capitato (ed è una stranezza anche questa) di essere chiamato a tenere un modulo di insegnamento all’Università di Ferrara. Ho speso quindi molto tempo a selezionare il materiale didattico da consegnare agli studenti e, nello specifico, a cercare un libro che dicesse in modo ordinato e incisivo qualcosa di utile sulla scrittura. Pensavo che avrei avuto l’imbarazzo della scelta, e invece (ulteriore stranezza) di ottimi libri per la scrittura ne ho trovati pochissimi.
Con la consapevolezza che consigliare troppe letture sarebbe stato scoraggiante, e quindi improduttivo ho pensato di ridurre a due il numero di testi da consigliare a studenti e studentesse. Solo due, possibilmente capaci di tenere insieme specificità e accessibilità e di essere quindi utili sia per chi vuole, genericamente, migliorare o imparare a scrivere, ma anche per chi è interessato alla scrittura per la propria professione.
Vengo al dunque: i due libri sono La scrittura non si insegna di Vanni Santoni e Come non scrivere di Claudio Giunta e mi sento di consigliarli insieme perché sono perfettamente complementari, entrambi trattano il tema della scrittura con ragionamenti negativi, che dicono, in sostanza, cosa la scrittura non è. Entrambi i libri offrono a garanzia delle tesi l’esperienza diretta degli autori: Santoni è scrittore e editor di successo, Giunta è docente universitario di letteratura, scrittore e specialista di letteratura medievale. Il libro di Santoni però si concentra sulla narrativa, è un manuale che capitolo dopo capitolo dice come si arriva a mettere insieme un racconto o un romanzo, il secondo invece fa, sul modo di scrivere, un discorso meno funzionale e più politico: perché la chiarezza del linguaggio è un’assicurazione di buona comunicazione, ma è anche il miglior antidoto all’eccesso burocratico alla confusione e all’insensatezza della nostra vita sociale e culturale.
So che messa così, il fatto che consiglio due libri “sulla scrittura”, può dare l’idea di qualcosa di noioso. Ma vi assicuro del contrario: entrambi sono libri agili, che si fanno leggere senza sforzi e regalano più volte sorrisi e risate.
Edoardo Rialti
Margaret Killjoy (a cura di), Miti e Molotov-interviste su anarchia e narrativa, Contrabbandiera Editrice
“Cosa potevamo sperare di ottenere raccontando storie?” si domanda la curatrice di questa splendida raccolta, una delle più belle e ricche che mi sia capitato di leggere sulla radice sovvervisa, potezinale o esplicita, di tanti grande immaginari narrativi contemporanei. Le risposte sono come tante facce d’un medesimo prisma, o come la regina Yishana di Moorcock che si moltiplicava in dieci copie addentrandosi nella Fortezza dal Caos: da Alan Moore a Ursula Le Guin (“la narrativa non è un mezzo adeguato a predicare e a progettare. Però è perfetta per quella che un tempo chiamavamo presa di coscienza”) a Starhawk, da Octavio Bonaventura allo stesso padre di Elric e Tempestosa: “i miei libri trattano di frequente di eroi aristocratici, di divinità e così via. E tutti finiscono con un commento che spesso afferma in maniera decisamente audace che nessuno dovrebbe mai servire né déi né padroni e dovrebbe essere padrone di se stesso.” Non ci si può stancare di consigliare una serie di interviste che contengono auguri simili, anche per quell che concerne i piani di ripiego: “Spero di ottenere la liberazione dei miei Fratelli e delle mie sorelle e l’abolizione definitive dell’autorità. Se questo piano dovesse fallire, spero di raccontare gran belle storie che non siano troppo lineari.”
Alberto Prunetti, Nel girone dei bestemmiatori- Una commedia operaia, Laterza
Proprio sull’Indiscreto, nel Commento Collettivo alla Commedia, abbiamo avuto il piacere di ospitare un’anticipazione di questo terzo volume di un ciclo che si apriva con lo splendido e dolente “Amianto” e proseguiva con “108 Metri”, e i lettori avevano goduto un assaggio di questa discesa agli inferi proletaria, nella quale l’autore, novello Enea, incontra ancora una volta il padre, che neppure all’Inferno ha smesso di lavorare duramente e perculare padroni e sapientoni che soffiano sui metalli roventi come spegnessero le candeline. Leggere Prunetti è sempre un conforto perchè, in barba alle mitologie minuscole, così facili, confortevoli, di tanta letteratura contemporanea, lui ha il coraggio, l’intesità e la forza invece di realizzare sempre una grande, autentica epica, emozionante e divertente, una “mi’vita” contrapposta al superbo “nostra” di Dante (che nel gioco di specchi ed echi qui diventa un pò l’epitome di tante superficiali astrazioni intellettuali) e che comprende gli Etruschi della costa tirrenica-i grandi metalmeccanici dei tempi antichi- i preti operai, gli spaghetti western e le abbuffate, gli errori di grammatica che spesso esprimono una sapienza più profonda ancora: “E comunque, il senso è quello.” Quel “mia” può così davvero dimostrarsi un “nostra” senza fronzoli e pose, capace di coinvolgere in una sfida come quella che i Giganti e i Capanei mossero contro l’Olimpo, corredata da un notevole minidizionario proletario (“Brodo…Hai fatto i’tuo…Torsolo…Sto imbenzinato”), dove le prese per il culo sono solo l’altra faccia dell’amore e dedizione:
“Comunque bravo figliolo, continua così. Vedo che la penna ti piace più del calcio, quindi seguita, dammi retta…
Ma allora, babbo, ti garba come scrivo?
Più che altro, bel mi’brodo, mi faceva cacà come giocavi a pallone.”
Vanni Santoni
Di questi tempi, se il lockdown non avesse paralizzato le uscite editoriali, sarebbe in libreria già da qualche settimana un prezioso saggio Quodlibet sul Rinascimento Psichedelico, tra i cui autori figurano diverse firme dell’Indiscreto, su tutte quella del curatore Federico Di Vita. Così, in attesa della sua uscita, rimandata all’autunno, non esco né dal tema né dal catalogo dell’editore marchigiano, e consiglio la lettura dei libri di Henry Michaux. Quodlibet ne propone tre: il diario di viaggio Equador, il diario di viaggi immaginari Altrove (che include lo spassoso Viaggio in Gran Garabagna, disponibile anche in volume a sé) e soprattutto il cruciale diario di viaggi interiori (e saggio sulla psichedelia ante-litteram) Conoscenza dagli abissi, utile anche per ricordare la posizione pionieristica degli intellettuali europei (è del 1961, mentre i suoi immediati predecessori, Miserabile miracolo e L’infinito turbolento, addirittura del ’56 e del ‘57) rispetto a un tema tornato oggi al centro del dibattito scientifico e sociale, e generalmente identificato, nella sua prima fioritura, con gli Stati Uniti di metà anni ’60. Al completista si suggerisce una visita anche a casa Adelphi onde procurarsi Passaggi e Brecce (a lungo indisponibile ma appena ristampato); ai due editori, ma anche a ogni altro in ascolto, la ripubblicazione dei volumi di Michaux oggi indisponibili.
Matteo Trevisani
Il mahabharata, Jean-Claude Carriére e Jean-Marie Michaud.
Poche operazioni ho reputato altrettanto ambiziose come quella di traslare il più antico poema epico indiano in versione graphic novel. Il mahabharata ha una complessità che sconvolge il lettore distratto: non solo a causa della successione cronologica degli eventi della trama, ma anche e soprattutto per gli infiniti rimandi simbolici, storici, politici, cosmologici e religiosi che costellano il poema. Tremila anni prima di Cristo due clan cugini, i Pandava e i Kaurava, combattono una guerra dinastica. All’interno del poema, Khrisna, manifestazione di Vishnu, racconterà a Arjuna il “canto del signore” la Bhagavad Gita, rendendo il Mahabarata uno dei testi più sacri dell’induismo. Il tentativo è riuscito del tutto: giova ricordare che l’autore, Jean-Claude Carriére, che ha ricostruito questo “romanzo” condensandone i punti chiave, ha lavorato con Peter Brook nel celebre adattamento teatrale. Verosimilmente non lo leggerete mai nella versione integrale: fatevi un regalo e leggetelo così, seguendo le illustrazioni di Jean-Marie Michaud.
Regni dimenticati, di Gerald Russell.
Gerald Russell è un diplomatico inglese che ha passato diversi anni in Medio Oriente. Regni dimenticati è un indimenticabile viaggio per l’Asia attraverso le sue religioni minoritarie, dalle origini antichissime, le cui tradizioni ancestrali sono spesso minacciate dalle persecuzioni e dalle guerre. Non si può non leggere questo reportage incredibile senza sentire in bocca la voglia di partire per quelle strade. Mandei, Drusi, Yazidi, Zoroastriani, Copti, Samaritani e Kalasha. Quando ho letto questo libro avrei dato qualsiasi cosa per parlare mezz’ora con un Kalasha dagli occhi chiari. Mi preme però porre un’avvertenza: Regni dimenticati è uno di quei libri che se ne portano dietro decine di altri.
Mi trovavo in Libano per incontrare i membri di uno dei diciotto gruppi religiosi del paese, i drusi. Volevo sincerarmi che fossero davvero i moderni successori dei seguaci di Pitagora, l’antico cenacolo filosofico chiamato confraternita pitagorica.
Il ritorno, Rutulio Namaziano.
Ci sono libri che hanno il potere di farti desiderare un tempo passato. È un desiderio fisico e doloroso, che non può non soccombere davanti all’evidenza delle cose perdute. Rutilio Namaziano lo sa, ed è per questo che scrive questo poemetto che descrive esattamente il periodo della decadenza gloriosa di Roma. È l’inverno del 415 (o del 417), i visigoti invadono Roma, costringendolo a fare ritorno (appunto, De reditu, Il ritorno) nelle Gallie. Ma le strade sono in rovina, passare per terra è pericoloso. Così Rutilio prende il mare, e risalendo la penisola devastata inizia il suo lamento ermetico, raccontando il suo personale addio a un’era al tramonto, a un mondo che era ormai finito.
Interessantissimo panorama, grazie. Sarebbe il massimo con i titoli in corsivo. :-)
[…] (Il mio contributo ai consigli per l’estate de L’Indiscreto) […]
[…] del pamphlet Gianluca Diegoli su Minimarketing e lo consiglia Enrico Pitzianti sull’Indiscreto, dove anch’io suggerisco qualche libro per […]
Grazie a tutti per i consigli. Vorrei solo precisare che Brecce di Henry Michaux è di nuovo disponibile in Adelphi.