Cosa succederà all’economia italiana?

Forse bisognerebbe prendere in considerazione più seriamente sia chi pretende che le fabbriche siano tutte chiuse immediatamente, sia chi si preoccupa dell’economia. Per una semplice ragione: il come andrà la nostra economia avrà effetti enormi sulla politica e la società. Effetti che forse non ci possiamo permettere.


in copertina un’opera di luca alinari, “sacro cuore, 1974” all’asta oggi da pananti casa d’aste.

di Paolo Mossetti

È sugli operai italiani che sono stati puntati i riflettori della storia, nei giorni scorsi, come non accadeva da moltissimo tempo. Una storia che, con crudeltà, gli ha fatto interpretare sia il ruolo di vincitori che quello di vittime: vincitori, perché i colletti blu – o almeno una parte consistente di essi – sono riusciti a farsi lasciare a casa. Il decreto del governo Conte che due settimane fa ha stabilito la chiusura parziale delle fabbriche, per contenere l’epidemia di coronavirus, non ha precedenti nel Dopoguerra, e ha dato l’impressione che Confindustria abbia davvero meno referenti in Parlamento rispetto al solito. Vittime, tuttavia, perché quando l’Italia ripartirà si ritroveranno in un’economia colpita dal più drastico calo del Pil dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. 

Forse bisognerebbe analizzare questa scelta epocale di fermare l’industria italiana in maniera meno emotiva e più “sistemica” di come stiamo facendo, pensando cioè al medio e al lungo termine e alle motivazioni che spingono alcune persone a definire questa decisione come nefasta. Possiamo provarci definendo innanzitutto ciò che il decreto del governo non è; tenendo a mente che tutto evolve a una velocità sbalorditiva, e buona parte di ciò che è stato finora detto su questa crisi potrebbe risultare imbarazzante tra qualche settimana. 

Per prima cosa non è un decreto che chiude davvero l’intera economia nazionale. Le imprese le cui attività non vengono toccate in alcun modo dal governo, riporta l’Istat, sono poco meno della metà del totale: 2,3 milioni di unità su 4,5 milioni, anche generando circa due terzi del valore aggiunto complessivo (circa 512 miliardi di euro) ed il 53,1 per cento delle esportazioni totali. Sui circa 23 milioni di occupati che si registravano prima della crisi, ben il 66 per cento è impiegato in uno dei settori di attività economica ancora attivi. Non si tratta di una paralisi completa, dunque, ma sufficiente a provocare un panico difficile da controllare da parte di molti analisti, che vedono in questa decisione la testardaggine dei padroni o il suicidio dell’Italia, a seconda dei casi.

La seconda cosa che il decreto di chiusura delle fabbriche non è: quel modello di mobilitazione totale tipico delle guerre mondiali novecentesche. Durante entrambi i conflitti vennero attivate, per la produzione di materiale bellico e sanitario, masse di uomini, donne e bambini che non si erano mai viste prima. Anche in Italia, durante le bombe prima alleate e poi dei tedeschi, si continuava a cucire, aggiustare, assemblare e scavare. La paralisi causata dal coronavirus è senza precedenti proprio perché, pur non provocando un numero di morti e una distruzione paragonabili a quello delle guerre, costringe all’inattività milioni di persone perfettamente sane, o all’apice della loro carriera. Come si legge su “Foreign Policy”: “Dopo decenni di sindacalizzazione a picco, le economie occidentali stanno confinando gran parte della loro forza lavoro a casa, mentre aumenta enormemente la loro dipendenza da un insieme vitale di lavoratori nel settore dell’assistenza, della logistica e del commercio… Non esistono precedenti per il mix asimmetrico di mobilitazione e smobilitazione del lavoro a cui stiamo assistendo”.

Adesso ci viene forse più facile dire ciò che il decreto di Conte è, a questo punto dell’emergenza: un passo necessario, un atto dovuto e probabilmente inevitabile per venire incontro alle esigenze della classe operaia in un momento in cui le statistiche sul contagio restano fuori controllo. Abbiamo letto di fabbriche in cui si lavora gomito a gomito nelle solite condizioni, in cui si mangia nella stessa mensa senza materiale protettivo, o di altre aziende lasciate aperte fino all’ultimo consapevoli di non potersi adeguare alle più basilari norme di sicurezza per limitare le infezioni. Era impossibile dunque continuare come se ne niente fosse. Questa considerazione, tuttavia, apre una contraddizione. 

Per rallentare un’epidemia per cui non c’è un vaccino lo Stato italiano, e a cascata altri europei come la Francia o la Spagna, hanno scelto di ibernare per la prima volta il proprio sistema sociale ed economico, con conseguenze drammatiche per la circolazione di merci e servizi e per la crescita. In una economia di mercato aperta, una decisione del genere non può non avere ripercussioni sulle fasce sociali più deboli e precarie, le prime a essere colpite da tagli della produzione e dai licenziamenti. In un’analisi del Centro Studi Cerved, basata sui dati di 750mila imprese italiane, si stima che, in uno scenario pessimistico, il 10,4 per cento di esse rischia di chiudere, con possibili perdite di fatturato aggregate in un intervallo che spazia dai 275 miliardi di euro (nello scenario ottimistico) ai 641 miliardi di euro (in quello pessimistico, con una emergenza prolungata oltre l’estate). 

Preso atto di questo, è stata saggia la scelta di congelare una parte consistente dell’economia della Penisola? Secondo uno studio della Fondazione Sabattini il problema è che non si è chiuso abbastanza. Il provvedimento del governo, scrivono gli economisti Matteo Gaddi e Nadia Garbellini, porterebbe con sé un enorme errore metodologico, viziato dal lavoro di lobbying di Confindustria, che ha portato a inserire tra le “attività fondamentali” un gran numero di attività diverse che fondamentali non sono. Gli autori parlando di una “spietata logica di classe”: “Mutuando un infelice slogan, per Confindustria e il Governo #litalianonsiferma: profits must go on, sempre e comunque”. 

D’altra parte, come scrivono su “Contropiano” Andrea Genovese e Italo Nobile, quel che non può destare qualche preoccupazione, anche negli osservatori più progressisti, è la difficoltà nell’adottare “misure chirurgiche in un contesto economico nel quale i governi (come quello italiano) hanno rinunciato, da decenni, ad ogni funzione di programmazione e pianificazione di dettaglio. Una rinuncia che, qualora lo stop dovesse prolungarsi oltre l’orizzonte inizialmente ipotizzato, potrebbe rivelarsi problematica”. 

Ottone Rosai, “Fabbriche”, all’asta ora da Pananti Casa d’Aste

Il punto è: chi decide quali siano le produzioni essenziali? Abbiamo una piena visibilità delle filiere produttive che concorrono alle produzioni essenziali? “Domande – scrivono gli autori – cui sarebbe sicuramente più facile dare risposta in una logica di piano, che potrebbe consentirci di definire pause ottimali, turnazioni, rotazioni”. Domande che, nell’attuale scenario, costringerebbero il governo a fare un lavoro di pianificazione che non si vede forse dai primi anni Settanta, e improvvisarsi gestore centrale delle catene di fornitura, per convertire in pochi giorni numerose produzioni private già esistenti. Un’opera obiettivamente ciclopica.

L’opposizione alla “chiusura totale” dell’attività produttive, e la richiesta di una riapertura calibrata e regolata, si ritrova all’estero nelle dichiarazioni di populisti come Donald Trump e Boris Johnson e in Italia in quelle di Renzi e di molti esponenti del pensiero “mercatista”. La loro idea si fonda su alcune osservazioni logiche: tanto per cominciare, il modello sudcoreano di risposta al virus, che mostrerebbe come facendo tamponi a tappeto, identificando i contagiati e le persone a rischio è possibile ridurre notevolmente la curva dell’epidemia. Questa stessa sponda politica usa l’argomento, statisticamente forte e impugnato anche dal governo israeliano in questi giorni, che il virus ha effetti molto più deboli sugli individui sani di età inferiore ai sessant’anni, che costituiscono gran parte della manodopera e andrebbero isolati per qualche mese dagli anziani piuttosto che costretti a stare chiusi nella stessa casa. 

Inoltre, spiegano i favorevoli alla riapertura rapida, dopo un mese di lockdown l’isolamento dei contagiati è – o dovrebbe essere – più facile. Questo perché c’è uno Stato di polizia che si è praticamente imposto ovunque, con la collaborazione della stragrande maggioranza degli italiani, che potrebbe veicolare forme di monitoraggio più capillari. Guardiamo a quanto successo negli ospedali: l’Italia, con oltre 8 mila contagiati nel personale sanitario e oltre 80 morti tra i medici e gli infermieri, ha avuto il suo tallone d’Achille proprio nei reparti dove operano i nuovi “soldati” di questa guerra asimmetrica.

Eppure, è proprio l’estrema disciplina e regolarità di chi lavora negli ospedali a rendere possibile un controllo sistematico dei loro contagio, anche se purtroppo non è stato seguito da policy di smistamento e sostituzione del personale. Al contrario, quel che è mancato nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro è stato proprio questo lavoro di misurazione sistematica del contagio. A fabbriche aperte si poteva ancora testare e decidere il da farsi, settore per settore, regione per regione, mentre con la chiusura è tutto più dannatamente complicato. 

Resta il fatto che in questo momento il lockdown appare la scelta più sensata, e non solo in Italia. È la stessa conclusione a cui è giunto il panel di oltre quaranta economisti internazionali interpellati dall’Università di Chicago: alla domanda se sia presumibile che “rigide misure di isolamento – inclusa la chiusura di attività economiche non-essenziali e forti limitazioni al movimento delle persone – possano essere meglio per l’economia nel medio termine rispetto a misure meno aggressive”, risponde di essere “d’accordo” o “molto d’accordo” il 75 per cento degli intervistati. 

Poi, quando agli stessi economisti favorevoli alle restrizioni è stato chiesto un commento, le risposte si sono fatte più sfumate: Daron Acemoglu ha spiegato che “il contenimento non significa la completa eliminazione (del virus)” e che “forse sarebbe ottimale scaglionare il ritorno al lavoro delle categorie più a rischio quando il picco dei contagi è superato”. Per Angus Deaton lo spirito del lockdown è quello giusto, ma non sappiamo dire con precisione quando “male” verrà fatto all’economia. Per José Scheinkman è cruciale che tutte le aziende, grandi e piccole, abbiano la capacità di tornare alla normalità quando il distanziamento sociale non sarà più necessario. Per Jonathan Levin va bene l’isolamento, purché sia il più breve possibile. Per Michael Greenstone “la contrazione dell’economia non dipende solo dalle policy del governo, ma dai diversi comportamenti che le persone stanno assumendo in ogni caso”. Per il premio Nobel William Nordhaus, con una definizione così “vaga” è difficile rispondere con convinzione.

Insomma va bene chiudere e mettere le vite umane davanti a ogni calcolo. Ma un po’ ovunque la sensazione è che si possa e si debba considerare il danno che verrà arrecato al tessuto produttivo del Paese, che il prezzo da pagare non può essere trascurato e che persino nei più volenterosi alberghino notevoli dubbi. Fatto sta che i numeri del virus sono ormai eccessivamente fuori controllo ovunque, diversi corpi dello Stato, non solo italiano, giocano a scaricabarile su tutto, a cominciare dall’uso di tamponi e mascherine, e non si può chiedere un ulteriore sacrificio a chi ha finora lavorato in condizioni sanitarie precarie. Considerato tutto questo, l’idea di tenere aperte le fabbriche, o di riaprirle in tempi brevissimi non può trovare spazio politico in questo momento. 

L’economia dell’Italia si è messa in letargo, dunque, come non era mai avvenuto nel Dopoguerra, neppure durante il terribile shock petrolifero del ‘73 o durante la quasi guerra civile sfiorata nei giorni del sequestro Moro. Consapevole che questa non è una crisi come le altre, la Banca Centrale Europea si è mossa facendo ciò che al momento è solo un buon punto di partenza, vale a dire un programma di acquisto di titoli pubblici e privati da 750 miliardi di euro, col limite della quota di partecipazione dei singoli paesi al capitale della banca, ma derogabile per flessibilità. 

A monte di ciò, come fa notare anche un analista economico (non certo populista) come Mario Seminerio, probabilmente la vera misura rigeneratrice sarà un intervento di monetizzazione “di fatto” dei deficit nazionali da parte delle banche centrali, travasando il debito privato in debito pubblico, al quale si andrà a sommare a quello creato ad hoc dai governi per tenere in vita le imprese. I limiti del Trattato di Maastricht in questa situazione catastrofica sono palesi, e l’implosione dell’Unione Europea sembra davvero dietro l’angolo, anche se la storia europea ci ricorda che ogni legge può essere aggirata in condizioni estreme. 

Insomma, di fronte al congelamento del Paese, ogni quadrante dello spettro politico si fa ammaliare da un certo “pensiero magico”: a sinistra, dove si tifa con più forza per la serrata totale, ci si divide tra i radical che contano di far pagare la crisi agli ultraricchi e i sovranisti che pensano di riattivare l’Italia dicendo addio all’euro e stampando moneta; nel lato destro, ci si divide tra gli scettici antiscientifici che invitano al sacrificio patriottico, e i razionali che vogliono applicare metodi di controllo e dominio sui lavoratori fuori dalla portata della politica attuale. 

Una classe dirigente deve pur sempre lavorare con gli strumenti che ha a disposizione: come l’equipaggio dell’Apollo 13, che ha dovuto riparare una falla con un set ridotto di strumenti, nel buio dello spazio. È però vero che nelle catastrofi, come in quel fronte russo del 1917, i rapporti di forza possono cambiare. Più l’impoverimento sembrerà senza paracadute e meno rischiose sembreranno avventure di tipo isolazionista o autoritario: bisognerà stare in campana.


Paolo Mossetti è uno scrittore e giornalista nato a Napoli. Ha lavorato nel marketing editoriale e nel’industria culinaria newyorchese. Si occupa principalmente di economia e politica

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