Lo sappiamo riconoscere ma non definire: ma cos’è davvero il design? Alessandra Coppa prova a spiegarcelo in una serie di interviste, di cui pubblichiamo quella ad Alberto Alessi.
In copertina: Juicy Salif, Philippe Starck, Alessi 1990, foto di Stefan Kirchner courtesy Alessi
Questo testo è tratto da “Maledetto Design” di Alessandra Coppa Ringraziamo Centuria per la gentile concessione,
di Alessandra Coppa
Come è possibile che oggetti d’uso comune, di ogni genere, per lo più destinati alla produzione industriale in serie, siano diventati nel tempo oggetti di culto definiti da un’unica parola: “oggetti di design”? È curiosa l’espressione “di design” poiché assume, nel linguaggio comune, una cifra stilistica precisa, un modo di dire che sottende tuttavia anche la “maledizione” che lo “stile” si trasformi in “brand” diventando preponderante rispetto al “design”. È divertente l’osservazione di Mario Bellini: “Questa è una forchetta di design, questo è un bicchiere di design. Io lascio dire, poi chiedo: Dimmi brevemente come si distingue una caffettiera di design da una normale. Tutti si perdono in un gomitolo di contraddizioni sempre più contorte, finché troncano dicendo vabbè hai capito”.
Ma fa pensare anche il monito espresso da Antonio Citterio: “Vorrei che il design fosse considerato un fatto culturale e non un segno che molte persone usano come un brand… la maledizione del design sta in questo paradosso: nel brand che è più forte del valore del prodotto dal punto di vista sia dell’estetica sia della qualità realizzativa”.
La maledizione sta già nel nome stesso: con il termine inglese “design” si indica sia l’idea progettuale (il concetto e il processo) sia il progetto realizzato (compreso quello architettonico). Se si parla di design nel senso comune si intende l’industrial design che si afferma in Europa negli anni Venti per migliorare la vita quotidiana di milioni di famiglie a prezzi accessibili. Tuttavia è chiaro come la produzione industriale faccia del design qualcosa di assolutamente diverso rispetto all’artigianato. L’artigiano, rispetto al designer, può controllare ogni fase della lavorazione mentre il lavoro del designer si limita alla ideazione e alla realizzazione del prototipo dal quale saranno prodotti pezzi identici tra loro. Appare molto chiara la definizione che ne dà Tomas Maldonado: “Il design è un’attività progettuale che consiste nel determinare le proprietà formali degli oggetti prodotti industrialmente”. Ma la definizione si complica se si considerano i contenuti.
Ogni epoca e ogni designer infatti dà una propria interpretazione di cosa significhi “design” e di conseguenza gli oggetti risentono di cifre stilistiche differenti che vanno dalla celebrazione della funzione nella stagione minimalista del Bauhaus sintetizzata dal less is more di Mies van der Rohe a quella postmoderna di Robert Venturi che ribattezza il motto in less is a bore, meno è noioso. Anche se una certa godibilità dell’oggetto può essere d’altra parte conferita dalle sue caratteristiche di economicità ed efficienza del cosiddetto design anonimo tanto amato da Achille Castiglioni dove l’etica prevale sull’estetica. Oggetti “democratici” di good design che ritroviamo oggi anche negli oggetti di Giulio Iacchetti, come il Moscardino.
L’appello di Venturi contro il rigore minimalista viene accolto dal radical-design o contro-design che si sviluppa in ambito fiorentino tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta nel clima delle contestazioni studentesche, allo scopo di rivendicare all’oggetto una sfera creativa, poetica e provocatoria lontana dalle pure esigenze funzionali. Così come nel lavoro di Ettore Sottsass, attivo con il gruppo Memphis negli anni ’80. Una strada che prosegue con il design ludico e irriverente che Stefano Giovannoni ha creato per Alessi (anche se tuttavia nasconde in sé una funzionalità precisa). Una tensione che si avverte nelle icone design pop ancora prodotte da Gufram e da Zanotta, caratterizzate da una sorta di “surrealismo domestico”, dove si sovverte il tranquillo modo di abitare borghese nell’incontro tra design e pop art. Fino alla totale supremazia del valore iconico negli oggetti di Starck e al critical design che aumenta la complessità e la consapevolezza che quell’oggetto susciterà forti reazioni nel pubblico, provocando discussioni, ma soprattutto riflessioni, su prodotti che convogliano un significato anche politico, provocatorio, sociale.
Tanti Design & Designer, ma come sottolinea Joseph Grima – curatore del Museo Permanente del Design Italiano della Triennale di Milano, nell’intento di valorizzare la collezione che riunisce 1600 oggetti tra i pezzi più iconici del design italiano – “è molto interessante che nessuno di loro possa dare la definizione finale di cosa sia il design”.
Perché degli oggetti design nel tempo hanno assunto il ruolo di “icone” nell’immaginario collettivo, o addirittura di “icone-pop” tale da giustificarne la loro presenza nell’ambiente domestico anche se scomode e non proprio funzionali? Nell’ambito della produzione del design industriale vengono definite “icone” degli oggetti che sono diventati “di culto”, dei riferimenti nell’immaginario collettivo. Gli oggetti iconici, come l’esempio più calzante di tutti, lo spremiagrumi Juicy Salif di Philippe Starck, resistono nel tempo non tanto per la loro funzionalità quanto per la loro capacità di comunicare: creano legami di tipo affettivo con coloro che li posseggono diventando dei veri e propri riferimenti di un’epoca e di una comunità che ne riconosce il valore iconico. Le icone di design pop sono infatti “rassicuranti” in casa, come dei totem, per la tribù degli addetti ai lavori ma fungono anche da status symbol per chi li possiede. Questi oggetti, che potete osservare sfogliando questo libro, non sono solo esteticamente belli oppure ironici, ma rappresentano uno stile di vita: sono diventati “manifesti” di un nuovo modo di vivere il quotidiano, capaci addirittura di anticipare nuovi habitat.
-->Oggi questi oggetti iconici sono divenuti parte delle collezioni di design dei più importanti musei del mondo, ma se li avessero esposti negli stessi musei quando erano stati realizzati, come ci fa notare Italo Rota “avrebbero fatto l’effetto di uno showroom!”.
Le icone del design firmate da aziende come Alessi, Zanotta, Gufram, Kartell raccontano la nostra società resistendo alle mode. Veri e propri “oggetti del desiderio”, rispondono alle logiche della serialità produttiva, tuttavia sono anche il felice risultato di fattori a volte imprevedibili.
Chiara Alessi nel suo recente libro Le caffettiere dei miei bisnonni. La fine delle icone del design italiano (Utet, Milano 2018) ha attentamente analizzato il tema delle icone del design e del loro destino con riflessioni interessanti sul fatto che una icona del design rimanga tale per il suo valore simbolico anche quando perde la sua funzione, oppure su come l’icona possa innescare un rapporto di tipo affettivo generando “un senso di riconoscimento di sé nell’oggetto del desiderio e dell’oggetto del desiderio in sé. Relazione che si può realizzare su piani diversi (da quello animista a quello rituale, da quello aspirazionale a quello che attinge un valore di memoria)”.
Data la grande quantità di immagini da cui siamo bombardati, è difficile che un oggetto diventi più rilevante e persistente rispetto ad altri. Accade però che sempre più spesso le icone contemporanee vengano identificate, come si diceva, con il brand di produzione.
Oppure c’è da chiedersi, come ha fatto Riccardo Blumer, se è corretto il termine “icona” riferito al design: “L’icona è quell’oggetto che riproduce sempre se stesso, poiché le icone nella religione ortodossa ridisegnano sempre il Cristo nella stessa posizione e identico a se stesso. Dunque l’immagine ridisegnata in quel modo assume un potere sacro proprio. Tuttavia parliamo di icone del design, quando invece sappiamo che il design è continuamente mutevole, tanto che non riusciamo a definirlo. Quindi credo che il problema dell’icona nel design sia quello di inventarci delle icone! Ma l’icona nel mondo del design non esiste: l’icona è il design nel senso del potere del progetto”.
Il design è solo la risposta funzionale a un bisogno, oppure gli oggetti di design catturano la nostra attenzione così tanto perché scatenano in noi anche sensazioni affettive, ludiche che si arricchiscono di un valore antropologico e che identificano il gusto del nostro tempo? Il design è solo lo sfruttamento di opportunità, nel rispetto dei vincoli, per la soluzione di un problema, in vista di un fine, o è sufficiente “un’approssimazione alla funzione” per decretare il successo popolare di un oggetto d’uso?
La dialettica tra aspetti pratico-utilitaristici ed estetici ha sempre animato il dibattito sul prodotto industriale. Come abbiamo detto, le icone pop del design resistono alle “mode” anche se non hanno un alto grado di funzionalità, creano nuovi bisogni. Addirittura si possono usare come pretesti per raccontare delle storie e per creare relazioni. Questo vale soprattutto nel caso di oggetti come il Juicy Salif di Starck, che campeggiava sulla copertina della traduzione italiana del libro Il sistema degli oggetti di Baudrillard pubblicato dai Tascabili Bompiani nel 1972, fortemente voluto da Umberto Eco.
Nel ragionare sul sistema dei beni di consumo nell’ambito della nostra società industriale, il sociologo francese asseriva che gli oggetti fossero presenti come un sistema di “segni” e che costituissero un vero e proprio linguaggio per comunicare. Così da quel momento anche lo spremiagrumi dalla forma enigmatica, da attrezzo casalingo assume il ruolo di stimolo di conversazioni e di narrazioni su cosa esattamente rappresenti o su cosa possa servire (oltre alla sua funzione dichiarata).
Tutto questo esula dalla pura funzionalità e dal rigore bauhausiano (chi è mai riuscito a spremere un limone!) e sposta la categoria degli oggetti iconici a una dimensione “poetica”, assimilandoli agli “oggetti transazionali”.
Come l’orsacchiotto per i bambini, o la coperta di Linus, le icone del design secondo lo psicanalista inglese Donald W. Winnicott, citato da Alberto Alessi (nel suo libro La fabbrica dei sogni, Rizzoli 2016 pp. 118-119) costituiscono “un’opportunità per i consumatori di crescere e di migliorare la loro percezione del mondo”. Questi oggetti servono quindi per il loro valore “drammaturgico” (per raccontare storie) o sono utilizzati come status symbol da chi li possiede, oppure ancora si rivelano utili per stabilire relazioni.
Lo psicologo americano Donald Norman (La caffettiera del masochista. Il design degli oggetti quotidiani, Giunti, Firenze 2015, p. 28), scrive invece: “I grandi designer producono esperienze piacevoli. Si noti la parola: esperienza… L’esperienza è cruciale perché determina la tonalità del ricordo che conserviamo delle interazioni con gli oggetti”. E ancora: “Nell’economia di consumo… siamo circondati da oggetti del desiderio, non da oggetti d’uso” (p. 316).
Norman sostiene che il design debba far leva su tre livelli: su quello “viscerale” che si basa sulla prima impressione che suscita l’oggetto sul fruitore: per le sue caratteristiche ludiche, estetiche, sensoriali che appaiono predominanti rispetto alla sua utilità; su quello “riflessivo” dove “si sviluppa la comprensione profonda e hanno luogo il ragionamento e i processi decisionali”; e su quello ”comportamentale” dove operano tutte le abilità già apprese.
L’insieme di queste componenti forse decreta il motivo del successo delle icone pop del design: oggetti “seriamente ironici” in grado di scatenare la propria potenza che “disturba” il quotidiano e capaci di attrarci non solo per ragioni razionali ma anche per motivazioni emozionali o inconsce che provocano in noi delle reazioni emotive. Oggetti “a funzionamento simbolico che non lasciano spazio alcuno alle preoccupazioni formali. Che non dipendono che dall’immaginazione amorosa di ciascuno e sono extraplastici”, come li definiva Salvador Dalí negli anni Settanta.
Abbiamo sottoposto questi interrogativi con un format schematico, volutamente ripetitivo e semi serio nelle interviste ai più noti designer, agli addetti ai lavori più accreditati del settore del design e del mondo accademico e a chi lo fa veramente, ovvero a chi sta ai vertici delle aziende storiche. Qui in seguito, a titolo di esempio, l’intervista ad Alberto Alessi, presidente di Alessi s.p.a.
Intervista ad Alberto Alessi
Un’icona del design deve avere per forza una funzione?
L’icona deve colpire con forza l’immaginario del pubblico, e per quanto riguarda la mia esperienza di lavoro la iconicità è stata per forza di cose applicata a oggetti provvisti di una funzione: i casalinghi. Nel mio caso per creare l’icona è necessario il pretesto di una funzione. Anche se poi, a volte, per sorprendere la gente e per farsi notare e ricordare, il designer fa finta di contraddire questa funzione. Il nome di un designer famoso incide sul processo di costruzione dell’icona? È un oggetto strano anche se ha una funzione, ma se l’ha fatto Starck allora dovrà pur significare qualcosa…
Nel caso di Starck il nome del designer ha probabilmente accentuato l’effetto di un processo di iconizzazione che già stava avvenendo, ma non posso dire che sia indispensabile in tutti i casi. In quel caso sì, ha rafforzato “l’effetto icona”. Un altro esempio di oggetto Alessi giudicato fortemente iconico è il cavatappi Anna G. di Alessandro Mendini. La Anna G. è un’altra icona. Di cavatappi con la figura femminile ne esistevano già, ma quella ha prodotto un effetto diverso sul pubblico (forse per via dell’esplicito antropomorfismo?).
Anche la Conica, la prima caffettiera di Aldo Rossi, è diventata un’icona: in questo caso c’è anche la componente di infrangere le regole dell’immaginario popolare stabilito e codificato per le caffettiere, con una forma giudicata molto innovativa.
Un’icona si può progettare a tavolino?
Starck ha tentato, era consapevole di stravolgere l’immaginario classico dello spremiagrumi facendo qualcosa che negasse la sua funzione ma che accendesse la curiosità del pubblico, che facesse parlare e ragionare la gente.
Ma secondo te l’azienda Alessi stessa, può essere considerata un’icona?
Forse: già, noi siamo produttori di casalinghi, ma anche “produttori di sogni”… siamo come lo spremiagrumi che è anche altro… e anche noi siamo altro. Lui e noi siamo un esempio di borderline! In tutti i sensi immaginabili!
Sul concetto di borderline hai costruito una vera e propria teoria di marketing
Il borderline è un atteggiamento: il lavorare sulla linea tra il possibile e il non possibile (però non so quanti designer ce l’abbiano presente). Noi quando pensiamo di realizzare un prodotto ci chiediamo sempre fino a che punto abbiamo il coraggio di arrivare.
Qualche aneddoto sulle idiosincrasie dei designer che hanno lavorato con Alessi
Ce ne è una quantità… mi viene in mente un caso attuale perché purtroppo dobbiamo togliere dalla produzione il più bel macinapepe che abbiamo mai fatto: quello in legno di Peter Zumthor. Il designer ha insistito fin dall’inizio di realizzarlo solo con legno proveniente dalle foreste svizzere, già questa una richiesta al limite delle possibilità, poi Zumthor pretendeva che il legno per produrre i due elementi del macinapepe (la testa da girare e il corpo) provenissero dallo stesso ramo della stessa pianta per non interrompere le venature… insomma, ora è mancato l’artigiano che ce lo produceva e il successore si rifiuta di sottostare a questa richiesta che comporta uno spreco enorme di materiale. Poi un caso storico è quello di Richard Sapper che ha bloccato la produzione del suo bollitore fino a quando non si fosse trovato un modo per realizzare il fischietto con dei coristi con le note del Si e del Mi. “Zapper” lo chiamava spregevolmente Aldo Rossi criticando la sua caffettiera postrazionalista, altra icona Alessi.
Due approcci al tema della caffettiera completamente opposti perché Sapper veniva in azienda con degli schizzi molto precisi corredati da decine di dettagli e si arrabbiava tremendamente per ogni nostra impercettibile variazione, mentre Rossi veniva qui senza neanche uno schizzo e su un foglio bianco cominciava davanti a me a tracciare qualche linea per farmi capire come voleva realizzarla: un coperchio a cono, un corpo cilindrico, poi ci vuole un becco e una bella palla rotonda sulla punta del coperchio e poi una base che trasmetta il calore, rossa, di rame, e poi mettiamo un manico così… ecco fatto! Arrangiatevi!
Tre designer forse un po’ paranoici! come avete fatto a contenere l’ego di Starck?
Lasciandolo andare! Non c’è modo di arginarlo. La mia personale strategia è sempre la stessa: la tattica del “mirroring”, cioè io divento uno specchio che sta di fronte al designer il quale ci si vede riflesso, ne prova grande piacere, proprio come Narciso (solo che poi va a finire bene).
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