Cos’è il non-conscio cognitivo



Hayles indaga i processi cognitivi inaccessibili alla coscienza eppure necessari al suo funzionamento, estendendo così la nostra idea di cognizione ben oltre l’usuale: la cognizione è così applicabile non solo ai processi inconsci degli esseri umani ma anche a tutte le altre forme di vita, inclusi organismi unicellulari e piante, estendendo il campo anche ai sistemi tecnici e tecnologici.


In copertina e nel testo, opere di Nalta

Questo testo è tratto da L’Impensato di N. Katherine Hayles. Ringraziamo effequ per la gentile concessione.


di N. Katherine Hayles

Traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini

La percezione che la coscienza e il pensiero avanzato viaggino in tandem è radicata nella concezione antropocentrica e si porta dietro secoli, se non millenni, di tradizione alle spalle. Recentemente, tuttavia, un ripensamento ad ampio spettro dei limiti della coscienza ha portato a una revisione altrettanto ampia delle funzioni svolte da altre capacità cognitive e dei ruoli critici che tali capacità rivestono nei processi neurologici umani. La coscienza occupa una posizione centrale nel nostro pensiero non tanto perché rappresenta la totalità della sfera cognitiva, ma per la sua abilità nel creare le narrazioni (talvolta finzionali) che danno senso alle nostre vite e che sostengono i nostri assunti di base sulla coerenza del mondo che ci circonda. La cognizione è una capacità molto più ampia, che si estende ben oltre la coscienza e investe altri tipi di processi neurologici, ed è altresì presente in altre forme di vita e in sistemi tecnici complessi. La capacità cognitiva che esiste al di là della coscienza è stata chiamata in molti modi; io ho deciso di chiamarla cognizione nonconscia.

È forse impossibile trovare un ambito in cui i disaccordi terminologici siano più diffusi che nello studio della coscienza. Per questo, piuttosto che fare una cernita tra secoli di interpretazioni e incomprensioni, cercherò di spiegare con chiarezza le mie scelte terminologiche e di attenermi a esse con coerenza. La ‘coscienza’, come è intesa qui, assume varie forme. C’è una coscienza centrale, o primaria: una consapevolezza di sé e degli altri condivisa dagli umani, da molti mammiferi e da alcune specie acquatiche come i polpi. C’è inoltre una coscienza estesa, o secondaria, manifestata dagli esseri umani e (forse) da alcuni primati, e solitamente associata al ragionamento simbolico, al pensiero astratto, al linguaggio verbale, alla matematica e così via. C’è infine la coscienza superiore che, associata al sé autobiografico, va rafforzandosi attraverso il monologo verbale che si snoda nella nostra testa mentre svolgiamo le più semplici attività quotidiane; monologo che è a sua volta associato all’emergere di un sé consapevole di sé stesso in quanto sé. Per Antonio Damasio le narrazioni si fanno più specifiche quando si fondono con i contenuti verbali e accedono alla coscienza superiore. Questo implica che il nonconscio cognitivo (nel lessico di Damasio, il ‘proto-sé’) è capace di creare una sorta di narrazione sensoriale o non verbale: “nei cervelli generosamente dotati di memoria, linguaggio e ragionamento, le narrazioni […] sono arricchite e messe in condizione di presentare ancor più conoscenza, generando così un protagonista ben definito, un sé autobiografico”. È questa la facoltà mentale che dà un senso alle narrazioni verbali evocate o rappresentate.

La coscienza nucleare non si distingue così nettamente dal cosiddetto ‘nuovo’ inconscio (a mio parere, una denominazione non particolarmente felice), che opererebbe una scansione ad ampio spettro dell’ambiente circostante mantenendosi al di sotto dell’attenzione cosciente. Supponiamo, per esempio, che mentre guidi stai pensando a un problema. Improvvisamente l’auto davanti a te frena, e la tua attenzione scatta di nuovo sulla strada. La comunicazione agile e frequente tra coscienza e ‘nuovo’ inconscio induce a raggrupparli come ‘modi della consapevolezza’.

La cognizione nonconscia opera invece a un livello di elaborazione neuronale inaccessibile ai modi della consapevolezza, pur svolgendo funzioni essenziali per la coscienza. Funzioni che, come ci mostrano gli ultimi due decenni di ricerca neuroscientifica, comprendono: l’integrazione dei marcatori somatici in una rappresentazione unitaria e coerente dell’organismo, la sintetizzazione degli input sensoriali in modo che appaiano coerenti nel tempo e nello spazio, l’elaborazione di informazioni a una velocità molto maggiore della coscienza, il riconoscimento pattern troppo complessi e impercettibili perché possano essere individuati dalla coscienza, il trarre inferenze che influenzano il comportamento e aiutano a determinare le priorità. Forse la funzione più importante della cognizione nonconscia è quella di evitare che la coscienza, con il suo lento assorbimento e la sua limitata capacità di elaborazione, sia sopraffatta dal diluvio di informazioni interne ed esterne che arrivano al cervello ogni millisecondo.

La volontà di portare in primo piano la cognizione nonconscia non ha lo scopo di cancellare le conquiste del pensiero cosciente, spesso visto come la caratteristica che ci definisce esseri umani, bensì di arrivare a una visione più equilibrata e accurata dell’ecologia cognitiva umana, aprendola a confronti con altre entità cognitive biologiche da un lato, e con le capacità cognitive dei sistemi tecnici dall’altro. Una volta superata la percezione (errata) che vede gli esseri umani come le uniche entità cognitive importanti o rilevanti sul pianeta, ecco che molte nuove domande, problematiche e considerazioni etiche diventano affrontabili. Per andare a fondo di tali questioni, questo capitolo presenta coscienza, cognizione nonconscia e processi materiali da una prospettiva che consente di identificare le intricate relazioni che coinvolgono cognizione biologica e tecnica.

La cognizione tecnica è spesso paragonata al modus operandi proprio della coscienza (un punto di vista che non condivido, come discusso in seguito), ma a mio parere emergono analogie molto più azzeccate accostandola ai processi della cognizione nonconscia umana. Come quest’ultima, la cognizione tecnica è in grado di elaborare informazioni più velocemente della coscienza, riconoscere i pattern, trarre inferenze e, nel caso di sistemi che conoscono i propri stati interni, può elaborare gli input provenienti dai sottosistemi che trasmettono informazioni su condizioni e stato di funzionamento del sistema. Inoltre, gli strumenti tecnico-cognitivi sono progettati specificamente per evitare che la coscienza umana sia sopraffatta da flussi di informazioni così vasti, complessi e sfaccettati che non potrebbero mai essere elaborati dal cervello umano. Questi parallelismi non sono casuali. Emergono via via che le capacità cognitive, che una volta albergavano esclusivamente negli organismi biologici, si materializzano nel resto del mondo, trasformando così i modi in cui le culture umane interagiscono con le più ampie ecologie planetarie. Le cognizioni biologiche e tecniche sono oggi così profondamente intrecciate che è più accurato dire che si compenetrano a vicenda.

Il titolo della parte 1, Il nonconscio cognitivo, vuole portare l’attenzione sulla sistematicità delle interazioni umano-tecniche. Nella parte 2 chiamerò questi ultimi assemblaggi cognitivi, laddove tuttavia l’assemblaggio non dovrebbe essere inteso semplicemente come un blob amorfo. Anche se per alcuni aspetti sono esposte a eventi casuali, le interazioni che avvengono negli assemblaggi cognitivi sono strutturate in modo preciso dai sensori, dai percettori, dagli attuatori e dai processi cognitivi delle parti interagenti. Poiché questi processi possono, sia a livello individuale che collettivo, esibire comportamenti emergenti, userò il termine cognizione nonconscia (talvolta al plurale) per riferirmi a essi quando riterrò utile mettere l’accento sulla loro capacità di mutare e trasformarsi in modo fluido. Userò invece la formulazione più reificante con l’articolo determinativo (il nonconscio cognitivo) per indicare la sistemicità dell’assemblaggio osservato. Ho scelto di adottare questa terminologia perché sono convinta che gli effetti più interessanti degli assemblaggi cognitivi si verifichino più a livello sistemico che a livello individuale. L’obbiettivo d’insieme del libro è mappare le prospettive di cambiamento che emergono se le cognizioni nonconsce sono prese in considerazione come parte integrante dell’esperienza umana, della vita biologica e dei sistemi tecnici.

Sebbene la mia attenzione si concentri sugli agenti cognitivi biologici e tecnici che funzionano pur essendo privi di consapevolezza e coscienza, vorrei chiarire la mia posizione sul paradigma cognitivista che vede la coscienza operare attraverso la manipolazione formale di simboli, una linea di pensiero che è solita equiparare le operazioni delle menti umane ai computer. Chiaramente gli esseri umani sono in grado di astrarre situazioni specifiche in rappresentazioni formali; di fatto tutta la matematica dipende da queste operazioni. Dubito, tuttavia, che la manipolazione simbolica sia in generale una caratteristica del pensiero cosciente. In uno dei suoi studi, Jean-Pierre Dupuy si mostra convinto che la scienza cognitiva si sia sviluppata dalla cibernetica pur alterando in modo cruciale le sue ipotesi originarie. Per lui il paradigma cognitivista non è più caratterizzato dall’umanizzazione della macchina (come Norbert Weiner a suo tempo avrebbe voluto per la cibernetica), bensì dalla meccanizzazione della mente:

La computazione dei cognitivisti […] è una computazione simbolica. Gli oggetti semantici con cui si confronta la computazione sono tutti a portata di mano: sono le rappresentazioni mentali che dovrebbero corrispondere a quelle credenze, desideri, e così via, di cui ci serviamo per interpretare gli atti compiuti da noi stessi e dagli altri. Pensare equivale dunque a computare, eseguire dei calcoli, su queste rappresentazioni.

Dupuy mostra che questa caratterizzazione è debole sotto molteplici punti di vista. Il cognitivismo è stato il paradigma dominante nelle scienze cognitive per tutti gli anni Novanta e continua a esserlo nel Ventunesimo secolo, ma è messo sempre più in difficoltà dalle pressioni di chi chiede prove sperimentali che dimostrino come il cervello esegua effettivamente tali processi computazionali nel suo quotidiano operare. Finora, i risultati rimangono scarsi, mentre le conferme sperimentali volgono sempre di più a favore dell’ipotesi che Lawrence Barsalou chiama “cognizione fondata”, ovvero la cognizione sostenuta da – e connessa con – le simulazioni mentali provocate dalle percezioni modali (movimenti muscolari, stimoli visivi e percezioni acustiche). In parte questo successo è dovuto alla scoperta dei circuiti dei neuroni a specchio nel cervello umano e dei primati che, come Miguel Nicolelis ha dimostrato nel suo lavoro sulle interfacce neurali, le cosiddette Brain-Machine-Interfaces (BMI), giocano un ruolo cruciale nel permettere agli esseri umani, ai primati e ad altri animali di esternalizzare le funzioni corporee, ad esempio trasferire i movimenti degli arti sulle protesi artificiali.

Un aspetto controverso della questione è se i processi neuronali possano di per sé essere descritti come fondamentalmente computazionali. Prendendo le distanze dalla visione computazionalista, Walter J. Freeman e Rafael Núñez sostengono che “il potenziale d’azione non è in cifre binarie, e i neuroni non eseguono l’algebra booleana”. Eleanor Rosch confronta attentamente il paradigma cognitivista con l’approccio che vede la cognizione come una facoltà incarnata/incorporata, sostenendo che i risultati empirici pendono fortemente a favore della seconda. La manipolazione simbolica amodale, con cui Barsalou descrive il paradigma cognitivista, si basa esclusivamente su formulazioni logiche, senza alcun rapporto con la grande varietà di azioni fisiche che il corpo compie nel suo ambiente. Come hanno dimostrato numerosə ricercatorə e teoricə, le azioni incarnate e incorporate giocano un ruolo fondamentale nella formazione degli schemi linguistici e di quel tipo di comprensione intellettuale che si esprime per metafore e astrazioni, partendo dal corpo per aprirsi a pensieri sempre più sofisticati sul funzionamento del mondo.

Il mio paragone tra la cognizione nonconscia delle forme di vita biologiche e quella dei media computazionali non vuole in alcun modo arrivare alla conclusione che i processi messi in atto dalle due parti siano identici e nemmeno simili tra loro, perché come si è visto hanno luogo in contesti materiali e fisici molto diversi. Piuttosto, possiamo dire che svolgano funzioni simili all’interno di complessi sistemi umani e tecnici. Sebbene il funzionalismo abbia talvolta veicolato l’assunto che i processi fisici effettivi sono irrilevanti fintantoché i risultati sono gli stessi (come è accaduto, ad esempio, nel comportamentismo e in alcune versioni della cibernetica), il quadro interpretativo qui presentato considera il contesto come un elemento cruciale per il funzionamento della cognizione nonconscia, incluso l’ambiente biologico e tecnico in cui le cognizioni hanno luogo. Nonostante le profonde differenze dei contesti, le cognizioni nonconsce negli organismi biologici e nei sistemi tecnici condividono alcune somiglianze strutturali e funzionali, in particolare nella costruzione di strati di interazioni a partire da scelte di basso livello, dunque cognizioni molto semplici, fino a cognizioni e interpretazioni superiori.

Prima di esplorare questi parallelismi strutturali è necessario un dissodamento del terreno che ci liberi dalle questioni più annose: le macchine possono pensare? Cosa distingue la cognizione dalla coscienza e dal pensiero? Come interagisce la cognizione con i processi materiali e come se ne distingue? Da queste domande fondamentali derivano ulteriori riflessioni circa l’intenzionalità dei mezzi computazionali e biologici, specialmente rispetto ai processi materiali, e le implicazioni etiche che emergono quando i sistemi cognitivi tecnici agiscono come attori autonomi in assemblaggi cognitivi. Quali criteri etici dovrebbero essere applicati, per esempio, se un drone o un robot militare che agiscono autonomamente vengono dotati di armi letali? Tali criteri dovrebbero rivolgersi al dispositivo tecnico, all’essere o agli esseri umani che lo mettono in moto, o a chi li produce? Quali prospettive sono in grado di offrire strutture concettuali abbastanza robuste per far fronte ai sistemi cognitivi tecnici in espansione esponenziale e al contempo abbastanza sfaccettate da cogliere le complesse interazioni che intercorrono tra le cognizioni tecniche e i sistemi culturali e sociali umani?

Porre tali domande è come tirare un filo di lana da una smagliatura; più si tira, più l’intero apparato teorico che abbiamo ordito per spiegarci il significato dei media biologici e computazionali comincia a disfarsi. La prima e la seconda parte del libro tirano quel filo più forte che possono, per poi cercare di ritessere la maglia usando modelli diversi, che rivalutano la natura dell’intenzionalità umana e tecnica, ridefiniscono le cognizioni umane e tecniche e indagano sulle nuove opportunità e sfide lanciate agli studi umanistici.

Pensiero e cognizione

Il primo passo per tessere questi nuovi motivi è tracciare una distinzione tra pensiero e cognizione. Il pensiero, nell’accezione da me usata, è un’operazione mentale di alto livello, come un ragionamento astratto, la creazione e l’utilizzo linguaggi verbali, la dimostrazione di un teorema matematico e la composizione di un brano musicale, tutte operazioni associate alla coscienza superiore. Sebbene l’homo sapiens non sia l’unico a disporre di queste capacità, le possiede in misura maggiore e in forma più sviluppata rispetto alle altre specie. La cognizione, al contrario, è una facoltà molto più diffusa e presente in qualche misura in tutte le forme di vita biologiche e in molti sistemi tecnici. Questa concezione coincide con la posizione elaborata da Humberto Maturana e Francisco Varela nel loro celebre Autopoiesi e cognizione: la realizzazione del vivente. Si allinea anche con la scienza emergente della biologia cognitiva, secondo cui gli organismi sono costantemente impegnati in atti sistematici di cognizione mentre interagiscono con i loro habitat. Questo tema, inaugurato da Brian C. Goodwin, fu poi sviluppato dallo scienziato slovacco Ladislav Kováč, che diede contributo significativo codificandone i principi e esplorandone le implicazioni.

La biologia cognitiva tende a descrivere la cognizione usando i termini della vulgata corrente, ma alterandone radicalmente pesi e misure. Tradizionalmente, la cognizione è associata al pensiero umano; per William James, per esempio, “la cognizione è una funzione della coscienza”. Spesso inoltre si definisce la cognizione un “atto di coscienza” che include “percezione e giudizio”. I principi della biologia cognitiva, invece, muovono da una prospettiva molto diversa. Consideriamo, per esempio, l’osservazione di Kováč secondo cui anche un organismo unicellulare “deve avere almeno una conoscenza minima delle caratteristiche rilevanti dell’ambiente che lo circonda” che risulti in una corrispondenza, “per quanto grossolana e astratta”, tra queste caratteristiche e le molecole che lo compongono. La conclusione di Kováč è appunto che: “in linea di massima, a tutti i livelli della vita, non solo al livello delle molecole di acidi nucleici, una complessità, che si pone al servizio di una funzione specifica […] corrisponde a una conoscenza incarnata, cioè tradotta nei fatti costitutivi di un sistema. L’ambiente è un insieme ricco di nicchie potenziali: ogni nicchia è un problema da risolvere, sopravvivere nella nicchia significa risolvere il problema, e la soluzione è la conoscenza incarnata, un algoritmo che descrive come agire per sopravvivere”. Nella sua visione la cognizione non è una capacità esclusiva degli esseri umani o degli organismi dotati di coscienza, ma si estende a tutte le forme di vita, comprese quelle prive di sistema nervoso centrale, come le piante e i microorganismi.

Questa prospettiva conduce, vantaggiosamente, all’abbandono di una visione antropocentrica della cognizione e alla costruzione di connessioni tra diversi phyla, per veicolare una visione comparativa della cognizione. Come sostenuto da Pamela Lyon e Jonathan Opie, la biologia cognitiva è coerente con i dati empirici: “Sempre più risultati suggeriscono che anche i batteri sono alle prese con i problemi che da tempo tormentano gli scienziati cognitivi: integrare informazioni derivanti da una molteplicità di canali sensoriali per produrre una risposta efficace in condizioni aleatorie; prendere decisioni in condizioni di incertezza; comunicare con membri della propria e di altre specie (sia in modo onesto che in modo ingannevole); e coordinare il comportamento collettivo per aumentare le possibilità di sopravvivenza”. Kováč chiama il coinvolgimento di una forma di vita con il suo ambiente onticità, intesa come la capacità di sopravvivere e resistere in circostanze mutevoli. Egli osserva che “la vita, a tutti i livelli, in milioni di specie, ‘testa’ incessantemente tutte le possibilità per andare avanti”. Espandendo giocosamente questo ragionamento, Kováč immagina un batterio filosofo che affronta questioni riguardanti la sua onticità come potrebbe fare un filosofo umano, chiedendosi se il mondo esiste, e se sì, perché. Come gli umani, il batterio non può trovare risposte assolute nel suo ambito, ma nonostante ciò persegue “la sua onticità nel mondo” e di conseguenza “è già un soggetto, che affronta il mondo come un oggetto. A tutti i livelli, dal più semplice al più complesso, la costruzione del soggetto nel suo insieme, incarnazione della conoscenza raggiunta, rappresenta la sua complessità epistemica”. La complessità epistemica del mondo, secondo Kováč, è incrementata costantemente dall’incessante scrutinio di ciò che lui chiama le credenze degli organismi: “Solo alcune delle costruzioni degli organismi sono conoscenze incarnate, le altre non sono che credenze incarnate. […] Se considerassimo una mutazione in un batterio come una nuova credenza sull’ambiente, si potrebbe affermare che il batterio mutante è disposto a sacrificare la sua vita per dimostrare la sua adesione a questa fede”. Se continua a sopravvivere, la credenza si converte in conoscenza incarnata e, come tale, viene trasmessa alla generazione successiva.

Il confronto tra la prospettiva tradizionale e quella della biologia cognitiva mostra che le stesse parole possono portare a significati molto diversi. La conoscenza, nella visione tradizionale, rimane quasi interamente dominio della coscienza e senza ombra di dubbio ha luogo nel cervello. Nella biologia cognitiva, al contrario, è acquisita attraverso le interazioni con l’ambiente e incarnata nelle strutture e nei comportamenti dell’organismo. La credenza nella visione tradizionale è intesa come uno stato raggiunto da un essere cosciente attraverso una serie di esperienze, ideologie, condizionamenti sociali e altri simili fattori. Per la biologia cognitiva, invece, è una predisposizione verso l’ambiente che non è stata ancora confermata attraverso interazioni continue che testano la sua validità e capacità di rispondere a condizioni in continuo divenire, e dunque la sua robustezza in termini evolutivi. Infine, il soggetto nella visione tradizionale si riferisce agli esseri umani o almeno agli esseri coscienti, mentre nella visione della biologia cognitiva comprende tutte le forme di vita, compresi gli umili organismi unicellulari.

Cognizione tecnica

La biologia cognitiva, insieme alla correlata ricerca di fitobiologia discussa sopra, allarga notevolmente il concetto di cognizione, e in tal senso ben si coniuga con il percorso di questo studio. Queste attività di ricerca non si spingono oltre l’aspetto biologico, ma la ridefinizione terminologica che hanno avviato spiana la strada all’esplorazione della cognizione tecnica. Per illustrare la questione, mi rivolgo all’idea di cognizione proposta da Humberto R. Maturana e Francisco J. Varela nella loro opera seminale Autopoiesi e cognizione: La realizzazione del vivente. Il percorso di Maturana e Varela non è da confondere con la biologia cognitiva, che è invece storicamente associata alla scuola cilena di Biologia della Cognizione; ciononostante, i loro punti di vista sono abbastanza vicini alla biologia cognitiva da mostrare le modifiche necessarie per espandere il concetto di cognizione anche ai sistemi tecnici.

Maturana e Varela concordavano sulle capacità cognitive degli organismi viventi, ma non erano d’accordo fra loro sul fatto che queste capacità potessero essere estese ai sistemi tecnici: Maturana era convinto di no, mentre Varela avallava questa possibilità. Il disaccordo è comprensibile, perché nella loro definizione di cognizione, l’estensione ai sistemi tecnici non era un passaggio affatto scontato. Nella loro visione, la cognizione è intimamente legata a processi ricorsivi secondo cui è l’organizzazione di un organismo a determinare le sue strutture, mentre le sue strutture determinano la sua organizzazione, una ciclicità che successivamente è stata descritta da Andy Clark come causalità reciproca continua (si noti, tuttavia, che Maturana e Varela non avrebbero mai usato il termine ‘causalità’ perché ritenevano essenziale la natura chiusa o autopoietica della vita). La cognizione, per loro, non è altro che questa chiusura operativa, unita alla dinamica ricorsiva generata dal flusso autopoietico delle informazioni. La chiusura operativa degli organismi da loro postulata rende problematica l’estensione di tale quadro teorico ai sistemi tecnici, poiché i sistemi tecnici non sono chiusi dal punto di vista operativo, anzi accettano input di informazioni di vario tipo e sono soliti generare anche output. Per questo, esplorare appieno le capacità cognitive dei sistemi tecnici richiede una definizione di cognizione differente da quella adottata da Maturana e Varela.

È in La via di mezzo della conoscenza: le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, che Varela, Thompson e Rosch estendono queste idee confrontando i cellular automata (un tipo di simulazione computerizzata) con l’emergere della cognizione nelle cellule biologiche. La loro definizione di enazione è coerente con l’approccio che seguo, nella misura in cui riconosce che la cognizione prende forma attraverso interazioni correlate a un contesto (ad esempio incarnate): “Noi proponiamo di usare il termine enattivo per dar risalto alla crescente convinzione che la conoscenza non sia la rappresentazione di un mondo prestabilito da parte di una mente prestabilita, ma piuttosto l’enazione, la produzione, di un mondo e di una mente sulla base della storia delle diverse azioni che un essere compie nel mondo. L’approccio enattivo, quindi, prende seriamente in considerazione la critica filosofica all’idea secondo cui la mente sarebbe uno specchio della natura, ma si spinge oltre rivolgendosi a questo problema dal nucleo stesso della scienza”.

Nel suo lavoro successivo, Varela si interesserà non solo alle simulazioni computerizzate, ma anche al fenomeno della creazione di agenti autonomi all’interno delle simulazioni, un approccio conosciuto come Vita Artificiale. Diversi anni fa i pionieri in questo campo sostenevano che la vita è un programma teorico che può essere elaborato in molti tipi di piattaforme, tecnologiche e biologiche. Ad esempio, nel tentativo di dimostrare che i sistemi tecnici potrebbero essere progettati per svolgere funzioni biologiche, John von Neumann introdusse l’idea di automa autoreplicante. Più recentemente, il Gioco della Vita di John Conway è stato spesso descritto come uno scenario in cui diversi tipi di specie in grado di autorigenerarsi lottano disperatamente per la sopravvivenza, finché ironicamente il computer non si guasta o la corrente elettrica si spegne. L’impressione che tale ‘vita’ tecnica non potrà mai essere completamente autonoma nella sua creazione, manutenzione e riproduzione è un ostacolo insormontabile contro cui i ricercatori appena menzionati hanno dovuto sbattere mentre cercavano di dimostrare che la vita potrebbe sussistere nei supporti tecnici. Col senno di poi penso che questo campo di indagine, sebbene utile e produttivo nel generare controversie e domande, sia stato infine destinato al fallimento proprio perché i sistemi tecnici non potranno mai essere considerati vivi a tutti gli effetti. Possono, però, essere cognitivi a tutti gli effetti. Il paragone con i sistemi biologici, a mio parere, non dovrebbe essere focalizzato sulla “vita stessa”, ma sulla cognizione stessa.

La direzione di ricerca in cui sono impegnata da molti anni mi conduce a una definizione che amplia il campo fino a includere sia la cognizione tecnica che quella biologica. La cognizione è un processo che interpreta l’informazione in contesti che la connettono con il significato.

Ho trovato l’origine di questa formula già, in nuce, nella teoria dell’informazione di Claude Shannon, con cui Shannon sancì il passaggio da una concezione semantica dell’informazione a una combinatoria, basata sulla selezione degli elementi del messaggio da un set prestabilito, per esempio le lettere dell’alfabeto. Questo modo di pensare l’informazione ha dato frutti immensi, come ha spiegato James Gleick, perché permise lo sviluppo di teoremi e prassi ingegneristiche che vanno ben al di là del linguaggio naturale per investire l’elaborazione di informazioni in generale, compreso il codice binario. Questo approccio, tuttavia, era pressoché inutilizzabile per le discipline umanistiche. Come Warren Weaver ha sottolineato nella sua introduzione al classico lavoro di Shannon, la teoria dell’informazione finisce per separare l’informazione dal significato. Poiché la ricerca del significato è da sempre centrale nelle discipline umanistiche, Weaver si rese subito conto che la teoria dell’informazione avrebbe avuto un’utilità limitata per gli studi umanistici.

A posteriori penso che Weaver abbia sopravvalutato il problema in una maniera sottile ma significativa. Come Shannon sapeva bene, il processo di selezione, che lui descriveva con una funzione di probabilità, non è mai completamente separato dal contenuto del messaggio e di conseguenza dal suo significato. Di fatto, le probabilità condizionate che determinano quali elementi del messaggio seguiranno i loro predecessori sono già parzialmente determinate dalla distribuzione delle lettere e dalle loro frequenze relative in una data lingua. In inglese e nelle lingue romanze, per esempio, c’è quasi il 100% di probabilità che una ‘q’ sia seguita da una ‘u’, una probabilità più che casuale che una ‘e’ sia seguita da una ‘d’, e così via. Shannon collegò questa idea alla ridondanza dell’inglese (e di altre lingue), e i teoremi che ne seguirono furono cruciali per le tecniche di compressione dell’informazione ancora in uso per le trasmissioni telefoniche e altri tipi di comunicazione.

Tuttavia, per giungere al significato, i vincoli che operano attraverso processi di selezione non sono sufficienti. C’è bisogno di qualcos’altro: il contesto. Ovviamente la stessa frase, pronunciata in circostanze diverse, può cambiare completamente di significato. L’anello mancante tra la visione dell’informazione di Shannon e il contesto mi è stato fornito in un seminario tenuto dal fisico teorico Edward Fredkin, quando lo udii osservare con noncuranza che “il significato dell’informazione è generato dai processi che la interpretano”. Sebbene Fredkin non avesse dato segno di considerarla un’idea particolarmente importante, mi sentii come colpita da un fulmine. La considerazione di Fredkin espande vertiginosamente il problema del significato, perché i processi avvengono all’interno di contesti, e il contesto può essere inteso in modi radicalmente diversi per situazioni diverse. È un’idea che può essere applicata agli enunciati formulati in linguaggio naturale tra esseri umani, ma descrive altrettanto bene i processi informativi con cui le piante rispondono alle informazioni incorporate nelle sostanze chimiche che assorbono, il comportamento dei polpi quando percepiscono potenziali partner nelle loro vicinanze, e le comunicazioni tra strati di codice nei media computazionali. In un altro contesto, per via del fatto che il potenziale d’azione e i pattern dell’attività neurale possono essere esperiti in modi diversi a seconda di quale parte del cervello li elabora, questa intuizione potrebbe anche avere a che fare con i modi in cui il cervello elabora le informazioni sensoriali.

L’intuizione vertiginosa di Fredkin è compatibile con la concezione processuale e qualitativa dell’informazione (distinta dalla teoria quantitativa sviluppata da Shannon) proposta dal ‘meccanologo’ francese Gilbert Simondon negli anni Sessanta come parte della sua filosofia generale che abbandona i concetti ilemorfici (materia e forma) per incentrarsi appunto sui processi di individuazione. Per Simondon la realtà stessa è la tendenza a impegnarsi in processi. Il concetto di energia potenziale che tende sempre a fluire da uno stato superiore a uno inferiore, senza mai arrivare a un equilibrio stabile, ma permanendo in stati transitori metastabili, è una metafora centrale della sua ricerca. Questo flusso tra stati è da lui per l’appunto chiamato ‘informazione’ ed è intrinsecamente connesso al concetto di significato.

Un po’ come per l’intuizione di Fredkin, l’informazione secondo Simondon non è una distribuzione statistica degli elementi del messaggio, ma il risultato di processi incarnati che emergono dall’incorporazione di un organismo in un ambiente. In questo senso, i processi usati dalla cognizione nonconscia per riconoscere i pattern variano costantemente, e raggiungono stati metastabili quando i pattern vengono individuati, diventando sempre più nitidi via via che la corrispondenza temporale dei riverberi tra circuiti neurali fa sì che tali pattern vengano ritrasmessi alla coscienza. Questi processi di riconoscimento dei pattern sono costantemente esposti a nuovi input e a continue trasformazioni al variare, di momento in momento, dei contesti nonconsci e coscienti in cui le interpretazioni hanno luogo. Per Simondon, il passaggio da una modalità di organizzazione neurale a un’altra può essere concepito come un passaggio da un tipo di energia potenziale a un altro. L’informazione che arriva alla coscienza è già stata caricata di significato (ovvero interpretata nei relativi contesti) dal nonconscio cognitivo, ma ottiene un ulteriore significato quando viene ri-rappresentata all’interno della coscienza.

Come vedremo meglio più avanti, l’interpretazione contestuale avviene anche nei processi cognitivi nonconsci dei dispositivi tecnici. I sistemi diagnostici medici, l’identificazione automatica delle immagini satellitari, i sistemi di navigazione navale, i programmi per le previsioni meteorologiche e una miriade di altri dispositivi cognitivi nonconsci interpretano informazioni ambigue o contrastanti per arrivare a conclusioni che raramente possono azzeccare al 100%, anzi praticamente mai. Qualcosa del genere accade anche con il nonconscio cognitivo negli esseri umani. Integrando più marcatori somatici, anche il nonconscio cognitivo si ritrova a dover sintetizzare informazioni conflittuali e/o ambigue per arrivare a interpretazioni che poi verranno elaborate dalla coscienza, emergendo come emozioni, sentimenti e altri tipi di espressioni coscienti che verranno a loro volta sottoposte a ulteriori attività interpretative.

Nei sistemi tecnici automatizzati, le cognizioni nonconsce sono sempre più incorporate in sistemi complessi in cui i processi interpretativi di basso livello sono collegati a un’ampia varietà di sensori, e questi processi a loro volta sono integrati con sistemi di livello superiore che usano cicli ricorsivi per eseguire attività cognitive più sofisticate come trarre inferenze, sviluppare preferenze e prendere decisioni che poi si trasmettono agli attuatori, che infine eseguono le azioni nel mondo esterno. È significativo osservare che questi sistemi multilivello rappresentano esteriorizzazioni dei processi cognitivi umani. Anche se le basi materiali delle loro operazioni differiscono significativamente dalla analoga segnalazione chimica/elettrica nei corpi biologici, i tipi di processi hanno architetture informative simili. A ciò si aggiunge che i sistemi tecnici hanno il vantaggio di lavorare senza sosta ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, cosa che nessun corpo biologico può fare, e di elaborare grandi quantità di informazioni molto più velocemente degli umani. Non dovrebbe sorprenderci il fatto che le cognizioni nonconsce umane e tecniche abbiano attributi in comune, perché sono stati proprio i cervelli (che nelle loro operazioni fanno uso della cognizione nonconscia) a progettarle.

Analisi della cognizione

Con queste premesse, torniamo ad analizzare la mia definizione in modo più esaustivo, per tracciare le basi degli argomenti che seguiranno. La cognizione è un processo: ciò implica che la cognizione non è un attributo, come talvolta si pensa che sia l’intelligenza, ma è un processo dinamico collocato in un ambiente che ne esperisce le conseguenze. Per esempio, un algoritmo informatico, se è annotato su un foglio di carta, non è di per sé cognitivo, ma diventa un processo solo se istanziato da una piattaforma in grado di comprendere il set di istruzioni e di eseguirlo. Che interpreta l’informazione: l’interpretazione implica una scelta. Ci deve essere più di un’opzione perché vi sia interpretazione. Nei media computazionali, la scelta può essere semplice come la risposta a una domanda binaria: uno o zero, sì o no. Altri esempi includono comandi come if ed else (il termine if  indica che una procedura deve essere attuata solo se certe condizioni sono vere; else indica che se queste condizioni non sono soddisfatte, devono essere seguite altre procedure) presenti nei linguaggi di programmazione. Questi comandi possono essere annidati uno dentro l’altro per creare alberi decisionali molto complessi. La scelta qui, naturalmente, non implica il ‘libero arbitrio’ ma piuttosto decisioni programmatiche tra possibili linee d’azione, proprio come a sua volta un albero che muove le sue foglie per esporsi maggiormente alla luce del sole non implica il libero arbitrio ma piuttosto l’attuazione di comportamenti programmati nel codice genetico.

In Cognitive Biology, Gennaro Auletta scrive che “i sistemi biologici rappresentano l’integrazione di tre sistemi di base che sono coinvolti in qualsiasi processo fisico di acquisizione dell’informazione: il processore, il regolatore e il decisore”. Negli organismi unicellulari, il ‘decisore’ può essere un elemento semplice come la membrana lipidica che ‘decide’ a quali sostanze chimiche ammettere il passaggio e a quali no. Per gli organismi multicellulari più complessi come i mammiferi e per i media programmabili o connessi in rete, le possibilità interpretative diventano progressivamente più aperte e stratificate. In contesti che la connettono con il significato: cioè, il significato non è mai assoluto, ma si evolve in relazione a contesti specifici in cui le interpretazioni effettuate dai processi cognitivi portano a risultati che sono rilevanti per quella situazione in quel dato momento. Si noti che il contesto comprende l’incarnazione. Per evitare fraintendimenti, permettetemi di sottolineare che i sistemi tecnici sono istanziati in modo completamente diverso rispetto alle forme di vita biologiche, che non solo sono incarnate, ma anche inserite in contesti molto diversi da quelli dei sistemi tecnici. Nonostante queste differenze, sia i sistemi tecnici che quelli biologici si impegnano nella creazione di significato all’interno dei contesti istanziati/incarnati/incorporati per loro rilevanti. Per i processi cognitivi di alto livello come il pensiero umano, i contesti rilevanti possono essere molto ampi e altamente astratti, dal decidere se una dimostrazione matematica sia valida al chiedersi se la vita sia degna di essere vissuta. Nel caso dei processi cognitivi di livello inferiore, l’informazione rilevante può essere l’inclinazione dei raggi di sole per gli alberi e le piante, o la posizione di un predatore per un branco di pesciolini che sfreccia via per evitarlo, o la modulazione di un segnale radio per un chip di identificazione a radiofrequenza (RFID) che lo codifica e trasmette indietro il suo messaggio. Nel mio quadro interpretativo, tutte queste attività, e milioni di altre, sono considerate attività cognitive.

Un’implicazione di secondo livello è che gli umani non sono gli arbitri e custodi dei tipi di contesti e livelli in grado di generare significato. Molti sistemi tecnici, per esempio, operano attraverso segnali di comunicazione come onde radio, microonde e altre porzioni dello spettro elettromagnetico inaccessibili alla percezione umana diretta. I segnali che rimbalzano nell’atmosfera sono impercettibili e senza significato per i sensi umani, se non assistiti, ma per i dispositivi tecnici che operano in contesti rilevanti per loro, sono pieni di significato. Tradizionalmente, le scienze umane si sono occupate di significati rilevanti per gli esseri umani in contesti dominati dall’uomo. Il quadro teorico fin qui sviluppato punta a sfidare questo orientamento, rimarcando il fatto che i processi cognitivi avvengono in un ampio spettro di possibilità, che includono animali non umani e piante così come sistemi tecnici. Inoltre, i significati generati all’interno di questi contesti, profondamente degni di considerazione di per sé, hanno anche delle conseguenze sull’operare degli umani, dalla fioritura degli alberi nelle foreste pluviali ai segnali di comunicazione trasmessi agli aerei da una torre di controllo. Il mio approccio evidenzia che tutti questi diversi tipi di significato sono aggrovigliati gli uni agli altri in modi che trascendono qualsiasi singolo punto di vista umano e che non sono riducibili agli interessi umani. Così facendo, la nostra visione di ciò che conta come cognizione si espande, e così anche i regni in cui le interpretazioni e i significati emergono ed evolvono. Questo quadro teorico implica che tutti i regni concorrono alla creazione di significato e di conseguenza dovrebbero rientrare nel raggio di interesse delle discipline umanistiche, così come delle scienze sociali e naturali.


N. Katherine Hayles insegna e scrive intorno alla relazione tra letteratura, scienza e tecnologia nel Ventesimo e Ventunesimo secolo. Oltre a L’impensato (Untought, Chicago University Press, 2017), tra le sue pubblicazioni Postprint: Books and Becoming Computational (Columbia University Press, 2021), My mother was a computer (ed. italiana Mimesis, 2014) e How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics (vicnitore del Rene Wellek Prize). È docente di letteratura alla University of California e alla Duke University.

 

Ti è piaciuto questo articolo? Da oggi puoi aiutare L’Indiscreto a crescere e continuare a pubblicare approfondimenti, saggi e articoli di qualità: invia una donazione, anche simbolica, alla nostra redazione. Clicca qua sotto (con Paypal, carta di credito / debito)

0 comments on “Cos’è il non-conscio cognitivo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *