Nelle attività online siamo ormai abituati alla presenza del “trigger warning”, un avvertimento che compare per segnalare la presenza di una tematica considerata problematica – come ad esempio il suicidio, la morte, la violenza, l’uso di sostanze. Ma questo metodo funziona davvero?
in copertina, Francesco Bruno, Digital Safari; in mostra presso Pananti atelier, Via Saffi, 9 Milano, dal 17 novembre
Firenze è una città che offre molti servizi agli studenti di atenei che vogliono completare il proprio percorso formativo attraverso corsi di approfondimento inter-universitari o Erasums. Tra i miei amici ce ne sono alcuni che lavorano come docenti in università statunitensi e mi raccontano spesso di strani episodi che avvengono in aula. A Carlo, che insegna in diverse università, poco tempo fa gli è capitato di iniziare una lezione con la proiezione di alcuni fotogrammi de “Il portiere di notte”, celebre pellicola di Lililana Cavani, e una studentessa hanno preferito alzarsi e uscire dall’aula per non assistere alle scene più esplicite, lamentando che avrebbe preferito essere avvisata prima per non doversi esporre alla vista di certe immagini.
Nelle attività online siamo ormai abituati alla presenza del “trigger warning”, quella sorta di avvertimento che compare nelle discussioni social e sulle principali piattaforme di streaming, per segnalare la presenza di una tematica considerata problematica – come ad esempio il suicidio, la morte, la violenza, l’uso di sostanze – tuttavia, negli USA è uscito dai post sui social network e dagli schermi delle serie tv per approdare anche all’interno di scuole e università.
Nel suo volume Il conflitto non è abuso, Sarah Schulman dedica molti passaggi a questo concetto, sottolineando come quella di preallertare gli studenti rispetto agli argomenti affrontati a lezione sia ormai una pratica adottata da molti istituti. Nel 2014, l’Oberlin College, una scuola privata in Ohio celebre per essere stata la prima ad ammettere studenti afroamericani, si è fatta promotrice di un protocollo volto a garantire a tutti gli studenti un ambiente sicuro. La prevenzione delle molestie, in particolare di natura sessuale, l’esigenza di rendere il campus uno spazio davvero inclusivo è ovviamente un requisito importante per un contesto di apprendimento, tuttavia all’interno della guida si chiedeva ai docenti di riconoscere gli argomenti triggeranti evitando ove possibile di proporli e, in caso contrario, segnalarli adeguatamente. L’istituto ha poi ritirato il vademecum in seguito alle numerose perplessità avanzate dagli insegnanti, che si chiedevano quanto questi avvertimenti potessero influire sui programmi e sulla didattica.
In un articolo del New Yorker di qualche tempo fa, l’autrice Jeannie Suk Gersen segnala come recentemente l’Università di Brandeis abbia stilato una “lista del linguaggio suggerito” per rimuovere le espressioni considerate triggeranti. Sul sito si legge che l’individuazione di lemmi con cui sostituire quelli più problematici sia avvenuta per conto degli studenti che avevano vissuto sulla propria pelle episodi di abuso, con l’obiettivo di facilitare la creazione di un ambiente di apprendimento più sano. I suggerimenti invitano a riconsiderare espressioni di uso abituale, come “Rule of thumb” o “Beating a dead horse”, provando a sostituirle con altre, più neutrali. La prima perché deriverebbe da un’antica legge britannica che consentiva agli uomini di picchiare le mogli con bastoni non più larghi del pollice, la seconda perché normalizza la violenza contro gli animali. Gli autori suggeriscono anche di non usare “trigger warning” ma optare per un più generico “content note”, che non contiene implicitamente un riferimento al possibile elemento di innesco. Pur senza adottare una politica ufficiale, anche l’Università del Michigan fornisce dei consigli al corpo docente per creare classi più inclusive, segnalando mediante “etichette” quegli argomenti che potrebbero scatenare delle reazioni spiacevoli negli alunni.
Secondo Schulman si assiste a una contraddizione significativa: «proprio mentre le scuole sono sotto esame per aver minimizzato le denunce di aggressioni sessuali, e mentre le università-azienda vengono accusate di essere sempre più coinvolte nei processi di sfruttamento del lavoro e globalizzazione, le vediamo giocare un ruolo oppressivo/protettivo nella repressione di un contenuto emotivo».
Il “contenuto emotivo” a cui si riferisce Schulman è il trigger, che possiamo definire come uno stimolo, totalmente innocuo per alcuni, che in altri soggetti può innescare una reazione rispetto a un evento accaduto nel passato. Il trigger scatena la stessa risposta emotiva provata nel momento in cui il trauma si è verificato, creando di fatto una sovrapposizione tra passato e presente che porta la persona a reagire come se stesse ancora vivendo quell’esperienza, quando di fatto non è così. L’uso del trigger warning comincia a farsi strada all’inizio del Duemila, in particolare nei blog che trattavano tematiche importanti come l’abuso sui minori, i disturbi alimentari o psichiatrici, le relazioni disfunzionali e violente, nella convinzione che fornire un’avvertenza avrebbe impedito alle persone di imbattersi in contenuti capaci di attivare il ricordo di eventi traumatici.
-->Molti studiosi si sono chiesti però se ciò sia vero, cioè se comunicare in anticipo la presenza di un contenuto sensibile possa evitare l’innesco del trigger. Nella sua indagine sul New Yorker, Jeannie Suk Gersen ha osservato le principali ricerche pubblicate in ambito scientifico: esse paiono confutare l’ipotesi di partenza. Secondo lo studio condotto ad Harvard da Benjamin Bellet, Payton Jones, Richard McNally, le persone non in cura per disturbi post traumatici che hanno dichiarato di credere che le parole possano arrecare dolore hanno riportato una maggiore ansia semplicemente per essersi confrontate con un contenuto segnalato come potenzialmente triggerante. Un altro studio condotto sempre dalla stessa equipe ma su un campione composto da persone con un disturbo post traumatico da stress (PTSD) diagnosticato o in corso di valutazione ha riscontrato che il trigger warning rafforzava la convinzione, da parte di chi ha vissuto il trauma, che questo fosse un aspetto totalizzante, in grado di inglobare e definirne l’intera identità. Fondare la propria soggettività sull’evento traumatico vissuto, secondo Bellett, è una delle reazioni più documentate in traumatologia; secondo McNally i pazienti che hanno alle spalle un PTSD sono continuamente esposti al ricordo e al trauma. Ricevere un avvertimento circa i contenuti che potrebbero essere fruiti non attenua il problema: il processo che permette di contenere l’angoscia scatenata dall’ “innesco” è lungo, e passa attraverso un intervento sanitario e terapeutico.
Stando a queste ricerche, dunque, il ricorso al trigger warning non svolge il compito che si prefigge per diverse ragioni: nelle persone con un PTSD, il solo ricevere una segnalazione genera la riattivazione di sensazioni spiacevoli collegate all’esperienza dolorosa vissuta in precedenza; nei soggetti senza diagnosi è emerso che essere preallertati produca una sensazione sgradevole, generata dalla possibilità di imbattersi in argomenti considerati problematici.
In generale, sembra quindi che la clinica sostenga che evitare un argomento non sia sufficiente per disinnescare un trigger. Si potrebbe ipotizzare che l’uso di avvertimenti possa quantomeno contribuire a creare un ambiente più tollerante, per facilitare le interazioni di tutte le persone comprese quelle che non si sentono a proprio agio con argomenti come la morte, l’aborto, le dipendenze; anche da questo punto di vista i pareri sono discordanti.
Secondo la già citata Schulman l’utilizzo del trigger warning è problematico perché aumenta la confusione tra esperienze pregresse e attuali. L’elemento di innesco dimostra che «c’è un dolore irrisolto del passato che si esprime nel presente. Il presente smette di essere visto nei suoi termini reali». Secondo l’autrice ciò genera una confusione tra conflitto e violenza: «reagire al passato nel presente» può causare danni perché la persona è convinta di rivivere l’abuso, quando in realtà l’attuale esperienza ne rievoca solo alcuni aspetti. Questa sovrapposizione tra diversi momenti temporali è pervasivo e colpisce tanto la sfera intima quanto quella collettiva in cui le persone si muovono. Argomenta Schulman: «alimentando l’escalation quando siamo di fronte all’assenza di minaccia (…) e agendo come se dovessimo rispondere a un abuso, evitiamo di affrontare noi stessi, la nostra famiglia, il nostro gruppo, le nostre angosce personali o collettive derivanti da traumi irrisolti».
Il trigger contribuisce a produrre un’escalation, che si verifica secondo l’autrice quando «si prende un conflitto e lo si rappresenta erroneamente come abuso». Questa condizione genera una reazione di allontanamento e di fatto preclude la possibilità di un confronto trincerandoci dietro posizioni opposte e incomunicabili.
Se ovviamente proteggere se stessi ha senso quando si è invischiati all’interno di una violenza, la fuga davanti a un conflitto è controproducente. Anzitutto, attraverso il processo di escalation, sovrapponiamo i due fenomeni che possiedono però caratteristiche distinte. Come ben sanno le operatrici che lavorano nei Centri Antiviolenza e aiutano le utenti a riconoscere le forme di violenza subite, il conflitto pertiene alla sfera relazionale. È una dimensione complessa, scomoda, che tuttavia è indispensabile abitare perché favorisce il processo di crescita. Il conflitto si produce in ogni ambito della nostra vita, a partire dalla scuola. Qui, secondo bell hooks, sorregge un’educazione capace di insegnare a “fare comunità”, ovvero «affrontare il sentimento della perdita e ripristinare il senso della connessione reciproca».
La violenza – così come la guerra – riguarda invece l’area della distruzione relazionale: il soggetto nei confronti del quale si scatena diviene esso stesso il problema e la sua risoluzione passa solo mediante l’eliminazione, anche fisica, della persona coinvolta. La violenza si manifesta pertanto come un danno irreversibile e intenzionale; la persona verso cui è diretta subisce quello che Chiara Volpato ha definito un processo di deumanizazione, cioè una strategia che consente di guardare all’altro come a un “mostro”, un “oggetto”, nei confronti del quale non proviamo più empatia sentendoci così autorizzati ad agire in maniera deliberata.
Il trigger pare una strategia poco efficace sia in ambito clinico, dato che non serve a contenere il malessere della persona che sta gestendo un problema personale, sia in ambito sociale, perché alimenta l’incomunicabilità attraverso la percezione che certi argomenti siano “tabù” e pertanto contribuendo a rimuoverli dal discorso collettivo. Secondo Schulman è proprio questo uno degli esiti più preoccupanti del trigger warning: reprimere il turbamento si può rivelare un’azione utile più ai dominanti che ai dominati che, come ricorda Audre Lorde, hanno bisogno di vivere un certo turbamento per svelare i sistemi di potere interni ed esterni a cui sono stati sottomessi, per poi poterli smantellare. Il trigger warning innesca pertanto una reazione di fuga anche in contesti conflittuali, non pericolosi, in cui possono prendere vita quelle dinamiche funzionali alla crescita della persona, del gruppo a cui appartiene e della comunità. Abitare il conflitto non è semplice e molti autori, come il pedagogista Daniele Novara, insegnano fin dalla più tenera età a gestirli e a dirimerli. Nei contesti di apprendimento la creazione di un conflitto può avere una finalità pedagogica importante: se è vero che, come ricorda bell hooks, l’istituzione scolastica ha un problema con il pensiero critico, aiutare le nuove generazioni a stare in contesti scomodi ma dialogici – diversi quindi dalle echo chambers a cui i social ci hanno abituato – può costituire, parafrasando la studiosa, “una pratica liberatoria” sul piano personale e collettivo.
Nell’articolo si parla di come solo l’avvertenza del trigger può portare a situazioni di agitazione chi soffre di PTSD.
Nella mia esperienza (mi è stato diagnosticato il PTSD e sto iniziando un percorso di cura) l’agitazione causata è molto inferiore rispetto ad esserne esposto. Quell’agitazione può durare qualche minuto od ora mentre una situazione con il trigger mi può modificare il comportamento in negativo per giorni interi.
I miei trigger non sono comunemente filtrati quindi spesso devo riuscire io a capire quando una situazione è rischiosa per me.