Cos’è la “Dark Ecology”

Per il filosofo inglese Timothy Morton per affrontare la sfida climatica dobbiamo rivedere radicalmente la nostra idea di ecologia: non più locale e anti-globalista, ma capace di accogliere la grandezza, complessità e l’orrore della natura. Abbiamo insomma bisogno di una dark ecology.


IN COPERTINA e nel testo: Kunstformen der Natur, del biologo tedesco Ernst Haeckel.

Questo testo è tratto da “Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico” di Timothy Morton. Ringraziamo Aboca Edizioni per la gentile concessione.


di Timothy Morton (traduzione di Liza Candidi T.C.)

“L’intero pool genico della biosfera è disponibile per tutti gli organismi.”

Kwang W. Jeon, James F. Danielli

Piccolo è bello. Dieta per un piccolo pianeta. Locale è meglio che globale. Questi sono alcuni degli slogan dei movimenti ambientalisti a partire dalla fine degli anni sessanta. Sto per proporre l’esatto opposto delle convinzioni che essi esprimono. A mio modo di vedere, il miglior pensiero ambientalista è pensare in grande: quanto più in grande possibile, e forse ancora di più, più in grande di quanto possiamo immaginare. Il filosofo Immanuel Kant diceva che il sublime è l’idea di grandezza oltre ogni capacità di misurarla o raffigurarla; magnitudine oltre ogni idea di magnitudine. Nella sua profondità e vastezza, questa magnitudine mostra la radicale libertà delle nostre menti di trascendere la “realtà”, un determinato stato di cose. Come il software di un sistema operativo, essa non ci dice che cosa pensare, ma avvia le nostre menti perché siano pronte a ciò di cui abbiamo bisogno per pensare la democrazia. Ed è pure ciò di cui abbiamo bisogno per pensare l’ecologia.

[…]. E ne è testimone
il nuovo mondo, un altro cielo fondato non lontano dalla porta del cielo, in vista di quel limpido
oceano cristallino di là dal firmamento, d’ampiezza quasi non misurabile, di stelle numerose,
e ogni singola stella forse un mondo
destinato a dimora; ma tu conosci le loro stagioni; c’è fra di loro la sede degli uomini, la terra circonfusa dal suo oceano esterno, gradevole dimora.
( John Milton, Paradiso perduto, 7.617-625)

E se la luce effusa attraverso la vasta e trasparente
aria alla luna terrestre fosse come una stella
che di giorno la illumina, così come di notte
lei illumina la terra, reciprocamente, e vi fossero
laggiù terreno e campi ed abitanti? Tu vedi le sue macchie come fossero nubi, e dalle nubi discende la pioggia,

e le piogge sul suolo ammollito producono frutti,
in modo che qualcuno si possa nutrire; e altri soli
riesci forse a discernere con il corteggio delle loro lune, che emanano una luce maschile e femminile,
due grandi sessi che animano il mondo, raccolti
in ogni orbita, e forse là c’è qualcuno che vive.
Perciò non è strano discutere se un così immenso spazio della Natura, non posseduto da anime viventi, deserto
e desolato, debba soltanto risplendere, e solo un barlume di luce aggiunga ogni stella, trasmesso da tanto lontano a questo luogo abitato, e che a sua volta riflette la luce. (8.140-158)47

Nel poema epico di John Milton Paradiso perduto c’è un momento decisivo nella conversazione fra l’arcangelo Raffaele e Adamo. Raffaele mette in guardia Adamo contro i pericoli dell’immaginazione. Futili voli di fantasia potrebbero distrarre da un’azione giusta e misurata. Ma Raffaele usa la forma dell’intimazione negativa, come l’equivalente moderno “Non pensare agli elefanti rosa!”. Troppo tardi: noi, e Adamo, ci abbiamo già pensato. Che cos’è l’elefante rosa? È un’immagine di altri possibili Eden su altri pianeti, altre atmosfere, altri ecosistemi “circonfusi” dai loro “oceani” (7.624). Raffaele indica le stelle e la luna. Chissà, dice, lassù forse ci sono giardini dell’Eden extraterrestri, su cui un Adamo alieno e un altro Raffaele fanno conversazione. Raffaele lo rimarca nell’VIII libro, suggerendo che potrebbero esserci mondi abitabili oltre la Terra.

Che momento straordinario nella storia del pensiero ecologico! Anziché dire: “Ora sei qui, vedi di abituarti”, Raffaele offre un’immagine negativa della posizione umana, esortando gli umani a non pensare che il loro pianeta sia l’unico importante. Il linguaggio dell’arcangelo ha un chiaro significato teologico. Se evitano di pensare di essere così importanti, gli umani resisteranno alla messa in scena di Satana che pone gli umani al centro di un universo che, come la mela, è lì per essere colto. L’Eden è circondato da altri mondi. Le stelle non sono solo uno spettacolo di luci (8.153). Non è solo un universo immenso quello che Raffaele rivela, ma anche uno intimo: le stelle sono abitate. Questo è un formidabile affronto all’idea dell’unicità dell’“umanità”, e Raffaele la proibisce nel momento in cui la permette.

Secondo la vista prospettica di questo universo, gli umani non devono agire mossi da un irrazionale senso di connessione spontanea. Piuttosto, suggerisce Raffaele, devono riflettere ragionevolmente sul loro posto decentrato nell’universo, nonché sulla loro incapacità di spiegare questo disorientamento. L’ingiunzione di Raffaele libera la ragione e il piacere speculativo (che tipo di frutti mangiano quelli lassù?). Dischiude la capacità della fantasia mentre la trattiene, così che la promessa di una conoscenza completa eccede sempre le sue condizioni. Eppure proprio questo eccesso (di pensiero attento) è ciò che tale ingiunzione consente. Non possiamo vedere ovunque. Non possiamo vedere ovunque nello stesso momento (nemmeno con Google Earth). Quando guardiamo x, non possiamo guardare y. La scienza cognitiva suggerisce che la nostra percezione è quantizzata: arriva in piccoli pacchetti, non come un flusso continuo. La nostra percezione è piena di buchi. Il nulla della percezione – non possiamo sondare le profondità dello spazio – è la base dell’intimazione di Raffaele di non pensare ad altri pianeti. L’infinito non è un oggetto da vedere.

Raffaele non afferma che gli extraterrestri esistano: è questo il punto. La sola possibilità di ambienti extraterrestri e di esseri senzienti – la loro possibilità (ipotetica ma impercettibile) è la loro essenza – fornisce il punto fantastico da cui il lettore stesso, come Adamo ed Eva, può raggiungere la prospettiva “impossibile” dello spazio. Raggiungere questa visione implica un atto di autoriflessione razionale indipendente da feticci. Questa prospettiva “impossibile” è una pietra angolare del pensiero ecologico.

Raffaele sta dicendo: “Ci possono essere cose oltre la tua comprensione, ma questo è oltre la tua comprensione”. Questa affermazione leva il terreno da sotto i piedi. Sotto il terreno c’è un cielo pieno di stelle, e potrebbero esserci altre menti là fuori. Il condizionale “potrebbero” è importante. Milton lavora con le ipotetiche, perché avere un’ipotesi significa avere una mente aperta: la supposizione forse può essere sbagliata. Raffaele è esitante, non perentorio. L’iconoclastico Milton evita accuratamente l’organicismo premuroso e fondamentalmente autoritario su cui di solito si basano le pretese di interconnessione: un organicismo inteso come immagine estetica di un adattamento “naturale” tra forma e contenuto e fra le parti e l’intero. Quando Adamo ed Eva abitano il giardino dell’Eden, non sono staccati dal resto dell’universo. Gli umani devono agire non perché una potente figura autoritaria abbia detto di farlo, ma per un senso d’apertura dello spazio. È un modo diverso di immaginare il significato dell’ecologia, senza la comodità dell’arca di Noè. Secondo questa visione, ci prendiamo cura di ciò che ci circonda non perché Dio ce l’abbia ordinato, né in virtù di qualche autoritario “senso di verità”, ma in virtù della ragione.

Milton raggiunge il pensiero ecologico sia nella forma che nel contenuto. La metrica si spalanca, liberata da ciò che egli chiama “la moderna schiavitù della rima”. Perfino l’aria descritta da Raffaele è “trasparente” (8.141). L’atmosfera della Terra è limpida e trasparente, permettendo il passaggio di luce e quindi di conoscenza. La Terra e le stelle e i pianeti distanti si trasmettono luce a vicenda (156-158). Questa dinamica reciprocità di luce è come una repubblica, addirittura una democrazia. Dando una scorsa alle parole sulla pagina, il lettore deve metterle in scena da solo. I nostri occhi devono “ritornare” appena ci avventuriamo fuori nello spazio a destra della pagina, per poi viaggiare indietro alla riga successiva. Siamo collocati nella posizione di uno di quei mondi distanti che guardano la Terra. Siamo stati teletrasportati. Ci vediamo dal punto di vista dello spazio. Milton ama questo punto di vista. Lo usa altrove in Paradiso perduto per far sembrare Satana molto piccolo; è come se lo vedessimo guardando attraverso la parte sbagliata di un cannocchiale (3.590). Satana rappresenta un ego pieno di sé che vuole essere visto come molto grande. Il titolo di questo capitolo, “Pensare in grande”, dovrebbe farci sentire umili, non orgogliosi.

Come Milton, noi viviamo in un’epoca dell’astronomia. “L’alba della Terra”, l’immagine della Terra vista dallo spazio e fotografata dalla missione Apollo 8, è ora un’icona. A Milton sarebbe piaciuta. Probabilmente non l’avrebbe considerata iconica bensì iconoclastica. Gli sarebbe piaciuto come disorienta il nostro senso di centralità, facendoci vedere noi stessi da fuori. Shelley ha usato questa immagine nel suo poema radicale Regina Mab. La fata Mab porta su nello spazio una bambina perché veda la Terra da lontano e osservi le miserie della storia umana:

La sfera distante del mondo Pareva la scintilla più esile dei cieli; ma intorno al sentiero del cocchio galassie innumerevoli ruotavano
e sfere senza numero spargevano una gloria sempre cangiante. (1.250-255)

La distanza non significa indifferenza e il distacco (utilizzando la ragione) non è freddezza. Il linguaggio ambientale ci porta spesso ad arrabbiarci. Il pensiero ecologico mira a qualcosa di più tranquillo, almeno all’inizio. Al Gore e altri hanno usato “l’alba della Terra” per spingerci ad abbracciare e a prenderci cura di essa, come se fosse una fragile palla di vetro. Universe, un magnifico film d’animazione canadese (1960), e la sequenza iniziale del film Contact, basato sul romanzo di Carl Sagan, viaggiano fuori e fuori, e ancora più fuori, dalla Terra fin dentro l’universo. Sono zoom dal nulla. Archimede disse: “Datemi un punto d’appoggio e sposterò la Terra”. Il pensiero ecologico dice: “Non dateci alcun punto d’appoggio e ci prenderemo cura della Terra”.

Non viviamo più all’interno di un orizzonte (ma ci abbiamo mai vissuto?). Non viviamo più in un posto dove il sole sorge e tramonta, non importa quanto certi filosofi insistano nel dire che noi esperiamo le cose in quel modo. Abbiamo perso la percezione del significato degli eventi che appaiono all’orizzonte (l’abbiamo mai avuta?). Sono scomparse le strane configurazioni di stelle o di luci e le nuvole nel cielo come scritture di esseri cosmici (secondo una vecchia battuta: “Cielo rosso di sera, la casa del pastore è in fiamme; cielo rosso di mattina, la casa del pastore è ancora in fiamme”). Lo spazio non è qualcosa che accade oltre la ionosfera. Proprio ora ci troviamo nello spazio.

Possiamo renderci conto della fragilità del nostro mondo dal punto di vista dello spazio. Pensare in grande non ci impedisce di prenderci cura dell’ambiente. Google Earth e Google Maps trasformano questa visione in un atto di puntare-e-cliccare. Alcuni replicano che questa tecnologia è sorveglianza di massa. Hanno ragione. Solo in un’epoca di questo “sapere-potere” la consapevolezza globale può diventare accessibile ai razionalisti occidentali. Google Earth ci ha permesso di vedere che le mucche in tutto il pianeta si allineano sull’asse nord-sud. Questo sapere era inaccessibile alle persone apparentemente “integrate” in un “mondo vitale”. Considerate quanto siamo ora consapevoli dei rischi su scala globale e micro. Possiamo scoprire esattamente un diffuso tipo di plastica cola diossina. Più conosciamo i rischi, più i rischi si diffondono. Il rischio diventa democratizzato, e la democrazia diventa gestione del rischio. Ulrich Beck la chiama la “società del rischio”: vale a dire, come la nostra maggiore consapevolezza del rischio in tutte le dimensioni (nello spazio, all’interno dei nostri corpi, nel tempo) cambia la nostra consapevolezza di come coesistiamo. Non possiamo “non pensare” il rischio. La percezione di straordinario potere e delle fantasie voyeuristiche e sadiche di riuscire a vedere tutto (su Google Earth, YouTube, e via dicendo) va di pari passo con una percezione di pericolosa vulnerabilità.

Tibetani nello spazio

Dobbiamo andare nello spazio cosmico per prenderci cura della Terra? Abbiamo bisogno di tecnologie sofisticate? Abbiamo bisogno di Google Earth per immaginare la Terra? La scienza e il potere occidentali sono l’unica via per la consapevolezza ecologica? Molti ambientalisti si arrenderebbero sconfortati di fronte a questi miei presupposti. Innanzitutto, non è proprio la società occidentale – con tutto ciò che significa (il temuto dualismo cartesiano, la “tecnologia” e le sue conseguenze) – ciò che dobbiamo distruggere e da cui dobbiamo fuggire? E le cosiddette società preistoriche e pretecnologiche non offrono soluzioni per la nostra salvezza?

No. Consideriamo una società che ha sviluppato il pensiero ecologico fuori dal raggio della cultura occidentale: il Tibet. L’antico Tibet a stento aveva le ruote, fatta eccezione per il “mulino da preghiera”. Eppure i tibetani avevano l’idea di grande spazio e grande tempo quando questi concetti in Occidente sarebbero stati considerati eretici.

C’è molto da dire sul Tibet moderno, forse troppo: un’infinita successione di posti di blocco; prigionieri che costruiscono le strade a mani nude; il modo in cui vengono trattati i tibetani, come i nativi americani all’epoca dei pionieri; l’appropriazione New Age della loro cultura, come se il XIX e il XXI secolo accadessero in simultanea. Eviterò tutto ciò per andare dritto a un’idea. È l’“Occidente” a essere ossessionato dal luogo, a pensare che ci sia questa cosa chiamata “luogo”, che è solido, reale e indipendente, e che è stato progressivamente minato dalla modernità, dal capitalismo, dalla tecnologia o da quel che vi pare. La fissazione sul luogo ostacola un’autentica visione ecologica.

Prima di andare in Tibet, mi chiedevo se il popolo indigeno locale avesse effettivamente un’esperienza “autentica”, “non occidentale” del luogo. Sono tornato indietro più incerto che mai. Se fai campeggio in Tibet, come ho fatto io per quasi due settimane, dormi sotto lo spazio cosmico, quanto più sotto di esso si può stare senza volare. L’altopiano tibetano si trova in media circa 5.000 metri sopra il livello del mare: praticamente puoi camminare fino al secondo campo base dell’Everest dalla città di Tingri (una camminata di 21 miglia lungo una pianura). Guarda un aeroplano che vola: sei quattro volte più su e non ci sei nemmeno vicino.

La superficie dell’altopiano tibetano è già simile a quella di Marte. Sopra di me, la Via Lattea non è mai sembrata così grande. Immagina un tappeto guida davvero largo. Ora moltiplicalo per tre, circa. Riempilo di migliaia di punti di stelle simili a polvere. Aggiungi una trentina di nuove stelle al Grande Carro. Immagina stelle cadenti così frequenti che non devi aspettare più di mezz’ora per vederne una decina. Alcune di esse producono un suono quando si spengono nell’atmosfera. Una stella cadente aveva il diametro di una moneta da mezzo centesimo e mentre schizzava nel cielo faceva le bollicine come un gelato nella Coca-Cola.

I tibetani vivono molto vicino allo spazio cosmico, pertanto non sorprende che lo includano nella loro cultura. Interrogato da dove venisse, il primo re Bön (Bön è la cultura indigena) indicò in alto il cielo. No, non sto dicendo che i tibetani vengano dallo spazio. Gli insegnamenti tantrici dicono che ci sono 6.400.000 Tantra di Dzogchen (i testi sacri di un tipo di buddismo tibetano). Sulla Terra ne abbiamo diciassette. Lassù, nel cielo notturno così visibile, forse in altri universi, vi sono i rimanenti 6.399.983. Lassù, qualcuno sta meditando.

I tibetani sarebbero i migliori piloti dello spazio, soprattutto per lunghe missioni spaziali. Avrebbero solo bisogno di imparare a far funzionare l’attrezzatura. La cultura e la religione tibetana vertono intorno allo spazio. Tutti i tipi di immagini ci persuadono a pensare in grande. Una delle immagini di mente illuminata è quella che assomiglia allo spazio. Una corrente buddista dice che il nostro universo, insieme a un miliardo di universi simili a esso, galleggia all’interno di un singolo grano di polline dentro un’antera su un fiore di loto che cresce in un piattino da mendicante nelle mani di un Buddha chiamato “Immenso Oceano Vairochana”. I tibetani arriverebbero ai confini del sistema solare dicendo: “Wow, che bella occasione per imparare di più sul vuoto”. Lo spazio cosmico non metterebbe a rischio le loro “credenze”.

Può sembrare primitivismo? I primitivisti affermano che c’è stato un periodo – chiamala “epoca d’oro”, chiamala “preistoria” – in cui gli esseri umani non facevano tutte le cose brutte che fanno oggi, quando avevano migliori sistemi sociali, si godevano di più i piaceri della vita, e così via. Alcuni primitivisti credono che da qualche parte sulla Terra continuino a esistere società di resistenza. Prima di andare in Tibet avrei accusato di pura fantasia chiunque avesse parlato così. I tibetani apprezzano moltissimo lo spazio interno. Dunque si troverebbero meravigliosamente nello spazio cosmico. I tibetani non appartengono al passato o a un museo. Appartengono al futuro.

Pensare in grande non è in contraddizione con l’interesse per i minimi particolari. L’apocalittismo cristiano condivide con l’Ecologia Profonda una fondamentale assenza di interesse per il modo in cui vanno le cose. Visto che la fine del mondo è vicina, e visto che tutti nel lungo periodo ci estingueremo, non ha molto senso prendersene cura. La loro visione dello spazio non impedisce ai tibetani di sviluppare idee sulla compassione e sulla non violenza, nonché un eccezionale sistema di giustizia riparativa.

In Occidente pensiamo all’ecologia come a qualcosa di piantato a terra. Non solo piantato a terra: vogliamo che l’ecologia verta intorno al luogo, luogo, luogo. Nella fattispecie, il luogo deve essere locale: deve farci sentire a casa; dobbiamo riconoscerlo e pensarlo in termini di qui e ora, non come là e poi. Per il filosofo Martin Heidegger lo stesso pensare è una presenza ambientale, come suggerisce la parola “abitare”. Quando pensiamo qualcosa, abitiamo in essa. Originariamente, per Heidegger, il pensiero dimora sulla Terra. È paradossale che Heidegger pensasse di pensare come un contadino. Nessun contadino tibetano che si rispetti penserebbe in questi termini. Molto più probabilmente sarebbe portato a dire, come il gruppo rock Spiritualized: “Signore e signori, stiamo galleggiando nello spazio”. Il meme del localismo costringerà gli occidentali a divorarsi gli uni con gli altri non appena oltrepassano la fascia principale degli asteroidi. L’ambientalismo di Heidegger è una versione bonsai triste, fascista e rachitico, costretto a crescere in un vasetto di latta presso una casetta della Foresta Nera tedesca. Possiamo fare di meglio. Piuttosto che indietreggiare o scappare, possiamo battere Heidegger al suo stesso gioco. Vuoi il linguaggio religioso? Guarda in alto la Via Lattea. Immagina migliaia e migliaia di mondi abitabili, pieni di esseri senzienti che si meravigliano di quanto sia ampio il pensiero ecologico. Possiamo avere un’ecologia progressista che sia grande, non piccola; spaziosa, non situata; globale, non locale (se non universale); non incorporata ma dislocata, spaziata, estremamente spaziata? Il nostro slogan dovrebbe essere dislocare, dislocare, dislocare.


Timothy Morton (Londra, 1968) è professore alla Rice University di Houston. In precedenza ha insegnato alla University of California e alla New York University. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Noi esseri ecologici (Laterza 2018), Iperoggetti (Nero 2018), Cosa sosteniamo? (Aboca 2019).

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