Cos’è la magia?



Ha un’origine antica, è ben ancorata nel presente e delineare la sua storia è difficile: ma che cos’è davvero la magia?


In copertina e lungo il testo: Titania, Bottom and the Fairies, Johann Heinrich Füssli, 1793/1794

Questo testo è un estratto da “Theatre, Magic and Philosophy William Shakespeare, John Dee and the Italian Legacy” di Gabriela Dragnea Horvath. Ringraziamo Routledge per la gentile concessione. Traduzione di Francesco D’Isa.


di Gabriela Dragnea Horvath

I fenomeni classificati come magia, stregoneria o arti diaboliche nell’Italia e nell’Inghilterra della prima modernità erano i resti di culti rurali arcaici, residui della religione romana, della medicina popolare, delle conoscenze attorno alla distillazione di stupefacenti, veleni o medicine, delle invenzioni meccaniche e ottiche, degli esperimenti di astrologia e alchimia, delle tecniche di manipolazione psicologica e dei rituali volti ad aumentare il proprio potere sulla natura.

Riprendendo una critica espressa dal Lollardy, in Inghilterra i cristiani riformati definivano i riti cattolici “magia”. Si potrebbe dunque supporre che “magia” sia stato usato come termine dispregiativo per tutte le pratiche invise alla società – eppure anche gli uomini di cultura definivano le loro operazioni con questo termine, poi ripreso dagli studiosi moderni come una definizione generica di una vasta varietà di procedure.

I sinonimi vernacolari di magia evocano una grande stratificazione storica e una moltitudine di influenze convergenti, come suggeriscono i termini inglesi: sorcery, wizardry, witchcraft, necromancy, devilry, occultism, theurgy, conjuring, maleficium, soothsaying, legerdemain, trickery, enchantment, divination, augury, jugglery. Ci si chiede dunque se la magia sia definibile in una prospettiva transtorica, come la filosofia e il teatro.

L’analisi concettuale della magia è un compito impegnativo, nonostante la vasta letteratura sull’argomento in merito a fenomeni e costrutti culturali, europei ed extraeuropei, ad opera di antropologi, etnografi, storici della scienza, occultisti, storici delle idee o storici tout court. È proprio l’interpretazione delle pratiche magiche e la varietà delle loro narrazioni che rende difficile sviluppare una teoria della magia, nonostante i notevoli contributi di E.B. Tylor, J.G. Frazer, B. Malinowski, M. Mauss e S.J. Tambiah. Il dilemma principale è decidere se il genus proximum di queste pratiche sia la religione o la scienza, dato che la modernità li considera due domini inconciliabili.

Tentare una definizione tracciando l’Ur-Phänomen nel contesto mediterraneo presenta il problema della disparità di informazioni, rispetto al teatro o alla filosofia perenne: le uniche fonti dirette sono le cosiddette defixiones, (iscrizioni con nomi e maledizioni, dal latino defigo – maledire) trovate nei siti archeologici di Atene, mentre tutti gli altri riferimenti sono riflessioni personali sulla magia – vuoi quella di uno storico, di un medico anonimo, dei filosofi e dei poeti. Eppure tracciare la storia di questo concetto, con tutte le sue variazioni di significato, sembra il modo migliore per comprenderne le molteplici connotazioni nella prima età moderna.

In un’ipotetica ricostruzione dell’umanità arcaica basata sull’analogia con le culture indigene studiate dagli antropologi di tutto il mondo, le strategie di sopravvivenza messe a punto da quella che C. Lévi-Strauss chiama la Mente selvaggia appaiono come un insieme integrato di credenze, rituali, pratiche e competenze che possono essere lette come proto-religione, proto-scienza, proto-filosofia e inizio delle arti. La storia europea della cultura magica contempla la sua inalterata persistenza ai margini delle conoscenze ufficiali, la sua trasformazione in religione organizzata in un indefinibile passato, la sua assimilazione con la filosofia perenne e la sua trasmutazione in filosofia naturale e scienza. Tuttavia, fin dall’antichità, teologi, filosofi e scienziati sono stati ben attenti a distinguere i loro domini da questa ascendenza trascurata. Quando altri sistemi di credenze divennero dominanti e la medicina cominciò a separarsi dalla religione in veste di arte laica, queste procedure e la mentalità che le giustificava apparivano infatti come pseudo-scienza, pseudo-religione e manipolazione linguistica e psicologica.

Le fonti greche antiche citano una figura preistorica, il góēs, (da góos, pianto/lamento rituale) ancora attiva nel periodo classico, collegabile allo sciamano asiatico. Il góēs, infatti, fungeva da sacerdote, psicopompo, guaritore e indovino combinando incantesimi basati su parole, trance estatica e pianto rituale. Si può presumere che alcuni degli sciamani greci più efficienti fossero delle donne, temute e venerate come dee, come suggerisce la letteratura. Ecate, la regina della notte, dea della stregoneria e dei fantasmi, è citata da Esiodo nella Teogonia e da altri scrittori greci e latini dopo di lui, tra cui Ovidio (Metamorfosi). La Circe dai bei riccioli dell’Odissea di Omero era a conoscenza di sostanze e riti che potevano collegare i vivi con i morti. Mettere Circe in una competizione magica con Hermes, che fornisce a Ulisse l’antidoto per la sua pozione, può anche segnare il passaggio che portò dall’adorazione delle sciamane alla venerazione di figure maschili, considerate più esperte in fatto di magia.

Il trasferimento di competenze a esperti di sesso maschile e l’assimilazione di queste pratiche arcaiche nella religione organizzata in Asia è suggerito dall’origine della stessa parola magia, che suonava mageía, cioè l’arte dei mágos, la trascrizione ionica del magushu Accadiano e il makuis Elamico, ovvero il sacerdote zoroastriano. Secondo Erodoto, il primo greco che li menziona, i mágoi erano una tribù persiana o una società segreta incaricata di sacrifici reali, riti funebri, divinazione e interpretazione dei sogni; una realtà che entrò nella cultura greca al tempo di re Dario. Il mágoi itinerante Heraclitus, citato assieme ad altri personaggi della notte (D. 14, Diels e Kranz), deve essere stato un seguace dei sacerdoti zoroastriani che emigrarono in Grecia e continuarono a rimanere estranei alle principali tendenze culturali, nonostante l’introduzione delle dottrine iraniane nella cerchia di Diogene di Apollonia e l’impatto sui filosofi presocratici.

Ben presto questa trascrizione greca di un concetto iraniano acquisisce un doppio significato: secondo il libro Magikós, attribuito ad Aristotele (Diogene Laërtius), l’autentica mageía, l’abilità dei sacerdoti zoroastriani, fu contrapposta alla goētikē mageía, l’incantamento, un’arte ingannevole volta a produrre degli effetti stupefacenti. Mentre l’autentica mageía è un fenomeno di importazione, la goētikē mageía allude alla svalutazione del góēs autoctono, denunciata dagli intellettuali della polis secondo varie linee di pensiero. Per l’Eschilo de I Persiani (472 a.C.E.), il góēs non solo è un incantatore, ma anche colui che richiama i morti dalle tombe, dunque un’inversione del ruolo originario di psicopompo, che suggerisce anche la pratica della nekromanteía, una forma di divinazione che si realizza dialogando con gli spiriti dei morti. Nell’Encomio di Elena di Gorgia, goēteía kaì mageía sono due arti di persuasione ingannevoli, che inducono illusioni attraverso il potere della parola. Così Elena è vittima della versatile retorica di Paride. Per l’autore anonimo del trattato medico Sulla malattia sacra (fine del V secolo a.C.) i mágoi, gli esperti in riti purificatori (kathartēs) e i sacerdoti mendicanti (ágyurtēs), sono tutti ciarlatani (alazónes) che speculano sulla debolezza e l’ignoranza della gente, abusando della fede negli dei e del potere dei rituali. Le pratiche suggerivano l’uso di canti magici (epaoidē), ma in alcuni casi anche l’ingestione di phármaka, che potrebbe riferirsi sia a una medicina curativa che a una pozione con effetti dannosi.

I sacerdoti mendicanti e i divinatori (ágyurtēs kaì manteis) sono oggetto della critica di Platone nella Repubblica, in quanto annullano la differenza tra giustizia e ingiustizia, approfittando della centralità della hybris nella mentalità greca. Il filosofo dice che:

Vagabondi e indovini, convergendo alle porte dei ricchi, li convincono di aver ricevuto dagli dei il potere di rimettere le colpe, ricorrendo a feste e piacevolezze del genere, nel caso che loro stessi o i loro antenati si fossero resi responsabili di azioni ingiuste. Se poi qualcuno avesse anche nemici da sistemare – giusti o ingiusti, poco importa – con una piccola spesa, li rovinerebbero con certe fatture e certi legami magici, piegando, come essi sostengono, gli dei alla loto volontà.

La popolarità di queste pratiche ai tempi di Platone, documentata dai defixiones abbondantemente presenti nei siti archeologici, era possibile perché non li controllava alcuna autorità religiosa o civile. Quando Meno chiama metaforicamente Socrate “esperto di arte magica”, goēteía, poiché la sua dialettica lo incanta facendogli perdere il controllo della mente e della lingua, sostiene che il filosofo fa bene a rimanere ad Atene, perché se si comportasse così in un’altra città verrebbe cacciato per aver praticato la stregoneria (Meno, 80 b). È alla necessità di contenere questi fenomeni che Platone risponde nelle Leggi 909 b e 933, dove equipara la loro dimensione manipolativa all’avvelenamento, e propone punizioni drastiche:

Chi risulta compiere danni con nodi magici, evocazioni, incantesimi, [933e] ed ogni altro simile veneficio, se è un indovino o un interprete di segni divini, sia condannato a morte, se invece è riconosciuto colpevole di veneficio anche senza l’arte divinatoria, si proceda anche per lui secondo la stessa procedura: anche per questi il tribunale decida quale pena deve subire o quale multa deve pagare.

L’atteggiamento di Platone rivela quanto siano inaccettabili questi fenomeni per un filosofo che mira a riformare la società.

Nell’antica Roma le pratiche magiche coinvolgevano figure come l’aruspice, l’auguro l’indovino, l’esperto di incantesimi (carmina), compresi quelli malefici (mala carmina), e la preparazione di pozioni curative, erotiche o venefiche. In epoca repubblicana il mondo romano usava il termine magia con varie connotazioni, dall’etnografico all’esotico, riferendosi ai riti alessandrini e apparentemente senza alcuna implicazione negativa. Un esempio dato da F. Graf è l’invettiva di Cicerone contro Vatinius, accusato di eseguire inaudita ac nefaria sacra, che disdegnava gli auspici, ma non fa uso dei termini magus o magia. I Romani introdussero molto presto una legislazione che vietava i riti sospettati di causare danni sociali, nelle Leggi delle Dodici Tavole (450 a.C. circa), seguite da disposizioni più drastiche di epoca imperiale, quando il termine magia comincia a essere usato per indicare pratiche classificate come fraudolente e dannose, come attesta la Historia Naturalis di Plinio: nel libro XXVIII l’autore scredita i Magi e le loro pratiche inefficaci (257) e nel libro XXX, interamente dedicato a questo argomento, spiega che la magia iniziò in Persia con Zoroastro, che le sue origini erano la medicina, ma che diventò una pratica truffaldina proprio grazie alla scusa di guarire i malanni (268). Plinio è sorpreso che “non ci sia assolutamente alcun riferimento alla magia nell’Iliade, mentre gran parte dell’Odissea ne è pregna” (269). Secondo lui “Pitagora, Empedocle, Democrito e Platone andarono all’estero per imparare la magia” (269-270). Plinio cita anche “un altro tipo di magia derivata da Mosè, Iannes, Lotapes [Iotape] e gli Ebrei” e pone i Druidi accanto ai Magi di Persia: “oggi anche la Gran Bretagna pratica la magia, con riti così potenti che si potrebbe pensare che siano stati gli inglesi a esportare in Persia quest’arte” (270). L’apprensione greca e romana per il carattere antisociale di tali prassi rivela che queste erano alternative ai riti, alle credenze e alle procedure di guarigione ufficiali, ma anche che sia chi si rivolgeva ai maghi sia chi cercava di contrastarli era convinto della loro efficacia.

L’Antico Testamento esprime preoccupazioni analoghe nello stabilire delle norme che differenziano i riti religiosi da queste pratiche, ma il quadro di riferimento cambia. La fondazione di una religione che pone l’uomo sotto un unico dio onnipotente e invisibile richiede tutta una serie di distinzioni sia dai culti politeisti che dallo sciamanesimo tribale. La superiorità dell’ebraismo sulla casta sacerdotale egiziana, detentrice di grande prestigio e conoscenza, è illustrata nell’Esodo dalla lotta tra Mosè e Aronne contro i saggi e i maghi del faraone. Allo sciamanesimo tribale si contrappongono così dei comandamenti che vanno dal drastico divieto di consultare maghi o indovini (Deuteronomio (18:10) o Levitico (20:6)), all’istigazione all’omicidio: “Non dovete permettere che una strega viva” (Esodo 22:18); “Qualsiasi uomo o donna che richiama i fantasmi o gli spiriti deve essere messo a morte. Il popolo deve lapidarli, il loro sangue sia sulle loro teste!”. (Levitico 20:27). Il racconto ammonitore di Saulo e della Strega di Endor (I Samuele 28:8-25) dimostra che anche i re sono puniti, se disobbediscono.

La completa sottomissione alla legge divina implica che gli esseri umani non possano controllare i fenomeni naturali, a meno che non siano stati scelti per agire come medium di Dio, come Mosè e Aronne. Il fatto che la nuova religione condivida con lo sciamanesimo tribale il postulato della trascendenza, la convinzione che i rituali stabiliscono dei legami con l’invisibile e la credenza nel potere delle parole, potrebbe far sì che una persona comune si appelli indistintamente all’una o all’altra, ignorando la differenza tra miracoli divini e prodigi umani. Questo dilemma si risolve nel Nuovo Testamento, dove i miracoli di Cristo sono legati inequivocabilmente a Dio, e coprono tutte le paure più importanti dell’uomo, come la malattia, la fame, l’infermità e la morte. Insegnare il potere di mutare la condizione umana agli apostoli, e attraverso di loro ai sacerdoti, significava riportare tutti i problemi umani sotto il tetto della religione, conoscenza compresa. Nel Vangelo di Matteo (2:1-12) i mágoi, come sono chiamati nel testo originale greco, rendono omaggio al Cristo bambino sottoponendo simbolicamente alla religione cristiana la competenza dei sacerdoti orientali. Evocativo è anche il caso di Simone il mago (Atti 8:9-24) e i commenti su di lui nelle fonti paleocristiane, che mettono in guardia contro lo gnosticismo come la via sbagliata per la salvezza.

L’affermarsi della dottrina cristiana ha portato gradualmente a collegare altri culti e pratiche religiose a un presunto patto con i demoni. Già nella Vulgata di San Girolamo, i saggi del faraone (chakhamim), scribi (chartumim), esperti di incantesimi (mekhashefim) subirono una riduzione della loro competenza e acquisirono una connotazione negativa, come sapientes et maleficos (Esodo 7:11). Nella Città di Dio (Libro VIII, 14-22) e Sulla dottrina cristiana (Libro II, 20-24), Agostino sostiene che tutti i culti pagani e altri tipi di pratiche, compresa l’astrologia, avevano il sostegno dei demoni. Il patto con il diavolo non solo diventa l’assunto di base della definizione ecclesiastica della magia, ma anche la principale giustificazione per la creazione di un sistema repressivo. Qualsiasi rituale o pratica alternativa divenne sospetto di eresia, colpevole dunque di tradire Dio in favore di Satana. La contorta teoria sulla materializzazione di demoni dell’aria come succubi e incubi e la loro capacità di procreare con le donne divenne un’affermazione dottrinale, che legava la magia al genere femminile e rifletteva lo sforzo intellettuale di conciliare la credenza in entità invisibili con la filosofia aristotelica della natura.

Marsilio Ficino è un caso particolare nella rassegna delle definizioni di magia. Ignorando sia la critica di Platone contro rituali alternativi, sia l’intensificarsi della campagna contro le streghe, Ficino ha reintrodotto la magia nella cultura alta, ispirandosi principalmente ai testi neoplatonici ed ermetici. Convinto che la conoscenza e il potere della magia derivino dalla rivelazione edenica, Ficino non vede alcun motivo per rifiutarla, ma deve però rispondere all’opinione ufficiale nell’Apologia (aggiunta ai suoi Tre Libri sulla vita), dove ricorda ai lettori che i Magi furono i primi ad adorare il Cristo bambino e che il Magus è “un nome benvoluto nel Vangelo, che non significa incantatore e stregone, ma saggio sacerdote” (397). Nello stesso testo egli divide la magia in due categorie: una “praticata da coloro che si uniscono ai demoni con uno specifico rito religioso e che, contando sul loro aiuto, ottengono spesso dei presagi”, un’usanza che, come egli sostiene, “fu completamente respinta quando il Principe del Mondo venne scacciato” (399). E un secondo tipo “praticato da coloro che sottopongono la materia a cause naturali per formare effetti meravigliosi”, questa a sua volta si divide nella magia inquisitoria e nella magia necessaria: “La prima fa dei presagi inutili”, e deve essere evitata come “vana e dannosa per la salute”. Egli descrive ad esempio un esperimento dei Magi di Persia che “produsse un uccello simile a un merlo, con la coda di un serpente da salvia imputridita dal letame” (399). Tecnicamente la magia necessaria unisce la medicina con l’astrologia, ma, se la consideriamo nel suo ruolo di cura dei malati, è l’unione della medicina con il sacerdozio (397). Infatti Ficino si riferisce a Ippocrate, a Galeno e al dono di guarigione di Cristo trasferito ai discepoli.

Il suo seguace Giovanni Pico della Mirandola nella sua Oratio ripropone i termini antichi, goēteía e mageía, ma discerne attentamente la mageía, il tipo di magia divina e salutare, dalla goēteía che presenta un volto mostruoso e distruttivo. In Conclusiones Magicae numero XVII, secundum opinionem propriam attribuisce alla magia naturale, nobilissima pars scientiae naturalis (quarta tesi) un ruolo nell’elevare l’umanità alla perfezione (quattordicesima tesi) unendo le cose che in natura sono seminaliter et separate (undicesima tesi). La magia produce mirabilia (tesi 11), e sebbene sostenga con cautela che questi strabilianti effetti portino al Deum gloriosum et benedictum (sesta tesi), la magia trova il suo merito nella produzione di meraviglie artificiali. Seguendo i pensatori neoplatonici, Marsilio Ficino e Giovanni Pico incorporano la magia naturale nella filosofia perenne e la trasformano in uno strumento di emancipazione umana. Citando Plotino, Pico sostiene che il mago è il ministro della natura, non solo un suo abile imitatore; e mentre la goēteía rende l’uomo schiavo e segue dei poteri malvagi la mageía ne diviene signore e padrone.

Un secolo dopo, la popolarità di queste pratiche indusse Giordano Bruno a iniziare il suo trattato sulla magia divina, fisica e matematica, con una rassegna dei dieci significati di magia e di mago del tempo. La prima categoria della sua tassonomia è il mago inteso come uomo saggio; i suoi esempi sono “i trismegisti [sic] tra gli egiziani, i druidi tra i galli, i gimnosofisti tra gli indiani, i cabalisti tra gli ebrei, i magi tra i persiani (che erano seguaci di Zoroastro), i sofisti tra i greci e i saggi tra i latini”. Lo stesso termine si riferisce agli indovini, oltre che ai praticanti di magia naturale, capaci di manipolare “poteri attivi e passivi, come avviene nella chimica, nella medicina e in campi analoghi”; ma la magia naturale potrebbe anche significare “poteri di attrazione e repulsione tra le cose” come quelli di due magneti, “quando tutte queste azioni non sono dovute a qualità attive e passive, ma piuttosto allo spirito o all’anima che esiste nelle cose”. Un’altra classe era la magia matematica o, più precisamente, la filosofia occulta, intermediaria tra il naturale e il soprannaturale tramite “l’uso di parole, canti, calcoli di numeri e tempi, immagini, figure, simboli, lettere”. Altri maghi hanno aggiunto a queste tecniche “l’esortazione o l’invocazione di intelligenze e forze superiori, per mezzo di preghiere, dediche, incenso, sacrifici, riti e cerimonie a dei, demoni ed eroi”. Le invocazioni degli spiriti possono variare da quelle senza speranza di coloro che diventano “vasi di demoni malvagi” alla “magia transnaturale o metafisica, chiamata propriamente teurgia”.

L’invocazione delle anime dei morti per la divinazione o la necromanzia poteva essere diretta o indiretta, usando uno spirito come intermediario, con o senza l’uso di un cadavere; quest’ultimo tipo, di antica memoria, era “propriamente chiamato Pitico, perché, se così posso dire, era sinonimo di ‘ispirato’ al tempio dell’Apollo Pitico”. Bruno cita anche una sorta di magia teatrale, la prestidigitazione, che produce illusioni che suscitano meraviglia, e una forma molto comune di magia popolare basata su incantesimi “associati alle parti fisiche di una persona… e a tutto ciò che si ritiene abbia avuto qualche contatto con essa”. Questa branca della magia si divide in quella buona, una sorta di pratica guaritrice, e quella malvagia, “se porta al male”, o velenosa “se porta alla distruzione e alla morte”. Alla fine Bruno aggiunge che i pregiudizi negativi associati alla magia derivano da “commenti e credenze di sacerdoti ignoranti e stolti” per i quali il mago è “qualsiasi sciocco malfattore che sia dotato del potere di aiutare o danneggiare qualcuno, attraverso una comunicazione con, o anche un patto con, un diavolo”. In tal merito menziona il Malleus maleficarum senza nominare i suoi autori.

Nonostante le belle distinzioni, l’indagine di Bruno sull’uso del termine magia rivela che in realtà queste pratiche condividono ben più del nome. Una definizione transtorica della magia è possibile e si traduce nell’espressione della fiducia degli agenti umani nella loro intrinseca capacità di controllare il visibile, l’invisibile e il tempo, grazie a rituali e pratiche che implicano l’uso di parole, numeri, immagini e sostanze. Questa definizione si intreccia con la valutazione della magia da parte dell’antropologia moderna e un concetto essenziale in Bruno: alla fine della sua indagine, infatti, egli spiega che “…così come viene usato da e tra i filosofi, il termine mago indica un uomo saggio che ha il potere di agire”. Nello Spaccio de la bestia trionfante descrive in dettaglio l’uso della magia come strumento di emancipazione intellettuale:

Però in questo bisogna quella sapienza e giudizio, quella arte, industria et uso di lume intellettuale, che dal sole intelligibile a certi tempi più et a certi tempi meno, quando massima e quando minimamente viene revelato al mondo. Il quale abito si chiama Magia: e questa per quanto versa in principio sopra naturali, è divina; e quanto che versa circa la contemplazion della natura e persecutazion dei suoi secreti, è naturale: et è detta mezzana e matematica in quanto che consiste circa le raggioni et atti de l’anima che è nell’orizonte del corporale e spirituale, spirituale et intellettuale. (239).

Anche quando si basa su una teoria coerente, l’approccio della magia è dinamico e il suo scopo è sempre di operare sul mondo. Il fondamento della magia come azione si conferma due secoli dopo nel Faust di Goethe, quando il protagonista, non più soddisfatto dell’incipit di Giovanni In principio era il Verbo, inizia il proprio vangelo con In principio era l’Atto (1224-1237). Si unisce a questa idea di uomo come agente anche la percezione del mondo come manifestazione dell’interconnessione e dell’interazione tra cose, o meglio come materia viva, animata da varie entità, denominate in base alla cultura del tempo, anima del mondo, spiriti, demoni, angeli, fate, intelligenze ecc. La differenziazione scientifica in alta e bassa magia funziona senz’altro nel distinguere i suoi praticanti in termini di alfabetizzazione, ma questi condividono sempre un obiettivo, quello di agire nel mondo, e utilizzano strumenti analoghi – parole, numeri, immagini, sostanze e canti –, anche se in modo più o meno elaborato. Alcuni degli effetti di queste pratiche si basano sulle reali proprietà delle sostanze, altri sulla manipolazione psicologica e sull’immaginazione, cosa che rende la magia un sistema autofondato. Tutti questi esperti vantano l’accesso a uno specifico tipo di conoscenza. La loro capacità di persuasione può aver indotto Bruno a mettere insieme i sofisti greci con i druidi o i sacerdoti zoroastriani. Ogni mago, dal saggio primitivo al sofisticato mago rinascimentale, operava all’interno di un sistema di corrispondenze tra elementi del visibile e dell’invisibile, che rappresentano altrettanti criteri di ordinamento della realtà fisica e virtuale. Queste corrispondenze o simpatie si basavano su analogie minime (giallo, oro, sole) o su una combinazione di conoscenze naturali, astrologiche e metafisiche, spesso giustificate da un aneddoto mitologico. I principi delle funzioni magiche sono stati definiti da J.G. Frazer nel Ramo d’Oro (21-23), come la Legge di Somiglianza e la Legge di Contatto o Contagio. Il primo principio è spiegato come il simile produce il simile, dove l’effetto assomiglia alla sua causa e la causa è giustificata da minime analogie del tipo sopra menzionato. Quest’ultima è l’associazione di idee per contiguità, che suppone che “le cose che sono state in contatto tra loro restino sempre in contatto”(23), il che in realtà implica che tutte le cose siano costantemente e invisibilmente correlate. La presunzione di essere semi divinità che operano dei miracoli, signori della vita e della morte, del tempo e delle condizioni atmosferiche, pone questi praticanti al di là dei vincoli etici e del riconoscimento dei limiti, il che può rendere nocivo il loro controllo sugli altri esseri umani e divide la magia in due tipologie: benefica e malefica, o anche semplicemente moralmente ambigua.

In una prospettiva più ampia, le pratiche arcaiche, chiamate per comodità magiche, rappresentano il remoto antenato della religione, della scienza e delle arti come la poesia, la musica, la danza, la pittura e la scultura. L’idea di un antenato comune di tutta la creatività umana era presente nella filosofia perenne, con la differenza che le origini comuni della saggezza e della creatività umana erano in questo caso riconducibili alla rivelazione edenica. La giustapposizione di magia e religione messa in atto da Ficino e dai suoi seguaci è stata resa possibile da questo mito e dalla presenza dei Magi nei Vangeli, ma anche dalle ovvie comunanze strutturali dei due ambiti: la convinzione che l’invisibile sia popolato da esseri metafisici, l’importanza dei riti, tra cui quelli di purificazione, le preghiere e le invocazioni, l’uso di immagini, sostanze e parole, la necessità dell’immaginazione per dare coerenza a teorie e dogmi – tutte cose che rendono magia e religione due sistemi autofondati. Ciò che i filosofi preferivano ignorare erano le differenze tra magia e religione. Quest’ultima pone i fenomeni naturali e le azioni umane sotto un potere divino, promuove l’umiltà, fa nette distinzioni tra il bene e il male e rompe il presunto controllo della causa-effetto da parte dei maghi, partendo dal presupposto che la volontà umana non può imporre nulla a Dio. Le prerogative che la religione nega alla magia sono state assunte dalla scienza: la convinzione che l’uomo abbia il potere di controllare la natura, la prevedibilità del rapporto causa-effetto, in questo caso messo alla prova dai fatti, la divisione della natura in classi di oggetti, non più fondate su minime analogie ma sulla loro reale struttura, l’autonomia sull’etica – nella scienza la scoperta viene prima e i precetti etici per controllarne i possibili effetti negativi dopo.

In contrasto con la religione e la scienza, che delimitano rigorosamente i loro domini e difendono dogmi, rituali, tabù, teorie e metodi, la magia è inclusiva, tende ad assorbire tutto ciò che potrebbe aumentare il potere d’azione dell’uomo. Ciò motiva il suo carattere eclettico, la sua adattabilità e la sua persistenza nel tempo, sebbene relegata ai margini della cultura. Il successo della magia nella letteratura e nei film contemporanei conferma un’altra causa della sua resistenza: la magia si basa sull’indistruttibile speranza umana di superare la distanza tra le aspirazioni e le reali capacità di realizzarle.


Gabriela Dragnea Horvath insegna per il Global Liberal Studies Program della NYU ed è direttrice editoriale della pubblicazione on-line Voyages-Journal of Contemporary Humanism. Ha due Master, uno in Filologia germanica (Università di Bucarest), e uno in Letteratura inglese, con una specializzazione in Religione e Filosofia
(Università di Firenze), una laurea in Giornalismo (Accademia rumena di giornalismo) e un dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università libera di Berlino. Le sue pubblicazioni includono saggi, recensioni di libri, traduzioni di poesie e racconti in riviste e antologie in Italia, Romania, USA, Canada, Gran Bretagna, Australia. È autrice di una monografia in italiano, (Shakespeare ermetismo, mistica, magia Roma, 2003); è coautrice di un libro di narrativa in romeno (Preludi
epici
, Edizioni Preludi epici, Bucarest, 1990), ha co-tradotto con Stuart Friebert e Adriana Varga il volume Hands Behind My Back, di Marin Sorescu (Oberlin Translation Series, 1991), con una prefazione di Seamus Heaney. Il suo saggio Philosophie, Magie de la parole, enciclopédie: la Tipocosmia d’Alessandro Citolini è stato inserito nel volume Le masque de l’écriture, Droz, Ginevra, 2015. Il suo studio comparativo Theatre, Magic and Philosophy William Shakespeare, John Dee and the Italian Legacy è stato pubblicato da Routledge nel 2017. Nel 2019 il suo saggio A’ la recherche du sens perdu: Walter Whiter et la doctrine de Locke sur l’association des idées, è apparso nel volume John Locke: les idées et les choses, Editions Mimésis, Philosophie.

1 comment on “Cos’è la magia?

  1. Massimo Ortelio

    “Il mito del mago”
    E. M. Butler.
    Genova, 1993

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