«Quando un gruppo di persone si oppone a una qualunque forma di dominio e inizia a immaginare un mondo diverso, modificando di conseguenza le proprie relazioni con gli altri… beh è questa l’anarchia, comunque vogliate chiamarla». Una conversazione con David Graeber.
IN COPERTINA, il funerale dell’anarchico Galli, di Carlo Carrà (1911)
Questo testo è un estratto da Dialoghi sull’anarchia di David Graeber, ringraziamo Eleuthera per la gentile concessione.
di David Graeber
con Mehdi Belhaj Kacem, Nika Dubrovsky e Assia Turquier-Zauberman
Traduzione di Alberto Prunetti
In questa conversazione avvenuta poco prima della sua prematura scomparsa, David Graeber, uno dei più importanti scienziati sociali contemporanei, ci lascia la sua originale visione dell’anarchia: per farlo è stata scelta una forma dialogica che, a detta di autori e autrici della raccolta da cui è tratta l’intervista, è la modalità che consente meglio di costruire una visione non autoriale ma collettiva – in sostanza, una visione anarchica.
Mehdi Belhaj Kacem: C’è una definizione generica di anarchia in un libro che noi consideriamo molto importante, The Principle of Anarchy di Reiner Schürmann, che per noi è un ossimoro. Si tratta di una definizione controintuitiva perché non è politica, bensì storica. Nella nostra epoca, diciamo negli ultimi due secoli, non abbiamo avuto un punto di riferimento com’era l’Uno per i Greci, la Natura per i Romani, Dio per i medievali o il Sé/la Coscienza per i moderni. Noi abbiamo il principio dell’assenza di principi: appena provi ad afferrarli, questi ti sfuggono di mano. Pertanto in certo modo viviamo nell’anarchia. L’anarchia è nell’arte, l’anarchia è nel sesso e nell’amore, e ovviamente anche in politica. Qual è allora il significato della comparsa dell’anarchia nel xix secolo?
David Graeber: Stai quindi suggerendo che l’emergere dell’anarchismo come filosofia politica più o meno in contemporanea con Nietzsche non sia una coincidenza? Non ci avevo mai pensato prima, ma… Comunque, pensando a quel che è successo dopo il 1917 e dopo il 1968, due anni segnati da rivoluzioni su scala mondiale, una volta ho utilizzato il concetto di flame-out, ossia di fiammata improvvisa. Sostanzialmente l’espressione si riferisce a quel che accade quando una grande tradizione all’improvviso esplode e in un periodo molto circoscritto attraversa ogni possibile permutazione formale. Prendiamo il 1917: in poco tempo abbiamo Dada, Suprematismo, Costruttivismo e Surrealismo. Dalla pittura bianca su fondo bianco agli orinatoi che diventano sculture, fino alle poesie basate sul nonsense per fomentare esposizioni artistiche ribelli in cui i partecipanti ricevono un martello e sono incoraggiati a distruggere tutto quello che non è di loro gusto. Per alcuni anni il radicalismo formale e il radicalismo politico si erano sovrapposti, ma poi avevano bruciato ogni spazio, la fiammata si era esaurita e non era rimasto più niente. In seguito, un artista poteva essere radicale nella forma ma conservatore in politica (come Andy Warhol), o conservatore nella forma ma radicale in politica (come Diego Rivera), o ancora poteva essere radicale in politica e non produrre alcuna arte (come i situazionisti). Dopo la rivoluzione mondiale del 1968, qualcosa di simile è successo nella filosofia continentale. Nel corso di pochi anni, i filosofi hanno esplorato quasi ogni possibile tesi formalmente radicale che potesse avere implicazioni politicamente radicali (da «l’uomo non esiste» a «la verità è violenza»), lasciando i pensatori radicali degli anni a venire con nient’altro da fare se non guardare a loro, così come continuiamo a guardare ancora oggi alle avanguardie artistiche degli anni successivi alla prima guerra mondiale.
Quello che tu stai suggerendo è che qualcosa di simile sia accaduto in politica dopo la rivoluzione del 1848. Solo che in questo caso, ipotizzo, sarebbero comparse simultaneamente tutte le posizioni della politica moderna, dal socialismo al liberalismo fino al fascismo. E da allora non ci sarebbero più state nuove forme di pensiero politico. In effetti potrebbe funzionare, dato che anche il termine «anarchico» è stato coniato da Proudhon proprio in quel contesto. Volevano sapere da lui cosa fosse. Un repubblicano? Un monarchico? Un democratico? E alla fine Proudhon disse: «No, respingo tutte queste definizioni. Io sono un anarchico». Quindi questa ipotesi potrebbe funzionare. Ma non sono sicuro che sia un’analogia appropriata.
-->Quanto al termine «anarchia», usato in contrapposizione ad «anarchismo», è entrato nell’uso comune (per lo meno in inglese) solo successivamente, nel xx secolo, quando gli anarchici hanno cercato di prendere le distanze dall’ipotesi che la loro fosse un’ideologia come il socialismo, il liberalismo, il conservatorismo, ecc. E non avevano torto, perché i socialisti non sostengono certo la socialità o i liberali la liberalità… o almeno non è quella la loro prima istanza. In certo modo serviva a evidenziare che in molte filosofie politiche l’unità di teoria e pratica è vera solo in teoria ma non in pratica. Al contrario, per gli anarchici era una cosa molto concreta. Se poi questo comporti anche il fatto di rivendicare quel senso di frattura e destabilizzazione introdotto dal capitalismo – la pensavano così i dadaisti e i surrealisti, che vedevano nel caos e nella disgregazione delle vecchie verità veicolati dai mercati capitalisti una forza di tipo anarchico che alla fine avrebbe consumato il capitalismo stesso – beh, non ne sono affatto sicuro. Anzi, ho molti dubbi al riguardo. Per come la vedo io, si tratta di un impulso avanguardistico decisamente più in linea con certe tesi socialiste, come quelle formulate da Marx nel Manifesto del Partito comunista quando loda la borghesia come rivoluzionaria, affermando che è arrivato il momento di portare a compimento il suo lavoro.
Ma alla fine ci ritroviamo con un rompicapo concettuale: la storia dell’anarchismo è la storia di una parola? O di un generico orientamento politico? O di un atteggiamento che quella parola è arrivata a designare, ma che potrebbe prendere altri nomi, comprendendo anche persone che rifiutano l’etichetta di «anarchico»? In parte funziona così anche la parola «democrazia»: molte persone che si definiscono «democratiche» non sembrano tanto interessate a dare un senso pratico a questa parola (almeno come la definirei io), mentre molte altre persone che vivono nella pratica il senso di quella parola non si definiscono «democratiche».
Forse il problema è che prendiamo ancora il marxismo come modello paradigmatico di ogni movimento sociale radicale, ed è molto facile trattare la storia del marxismo come una serie di scoperte e sviluppi intellettuali, perché questo è il modo in cui si pensano i marxisti. Ma gli anarchici hanno preso un’altra strada e si trovano al lato opposto dello spettro delle possibilità. Prendiamo il modo in cui si dividono tra di loro. Le frazioni marxiste si riuniscono sempre attorno a grandi pensatori che litigano tra di loro attorno a definizioni e a questioni dottrinali, mentre gli anarchici…
mbk: Si dividono sull’azione…
dg: Sì, o almeno litigano su come dovrebbero agire. Quando gli anarchici formano delle fazioni, tendono a dividersi su modalità organizzative o su questioni etiche con riferimento all’azione: va bene spaccare una vetrina? E assassinare un funzionario governativo? Questo tra l’altro implica che anarchismo e marxismo potrebbero potenzialmente riconciliarsi, dato che il marxismo è un modello di analisi teoretica e l’anarchismo un’etica della pratica: quindi non c’è alcuna ragione per cui uno non possa aderire a entrambi.
Per quanto mi riguarda, la cosa più vicina a una definizione che sono riuscito a formulare è questa: l’anarchia non è un atteggiamento, non è una visione, non è neanche un insieme di pratiche: è un processo in continuo movimento tra queste tre cose. Quando un gruppo di persone si oppone a una determinata forma di dominio, e questo li induce a immaginare un mondo senza quel dominio, e tutto ciò a sua volta li porta a riesaminare e cambiare le loro relazioni reciproche… beh, questa è l’anarchia, che vogliate o meno affibbiarle un nome, e qualunque sia quel nome.
mbk: È l’idea di «libera associazione», come scrive Marx. Tuttavia ci sono differenze tra quello che i comunisti chiamano «libera associazione» e l’originaria idea anarchica. Possiamo leggere la storia degli ultimi secoli come un recupero dell’agire anarchico da parte dell’ideologia comunista? Forse tutto è cominciato con la frattura tra Marx e Bakunin nella Prima Internazionale.
dg: Sì, è del tutto evidente, se entriamo nei dettagli, che mentre Marx surclassa Bakunin nella teoria, sono poi state le predizioni di Bakunin ad avverarsi. Bakunin aveva ragione su quali fossero le classi che avrebbero davvero fatto la rivoluzione e su quale fosse la forma che avrebbe assunto nella realtà la «dittatura del proletariato». In seguito i critici marxisti avrebbero liquidato con un certo disprezzo Bakunin, dicendo che non poteva avere ragione, senza però spiegare perché invece ci avesse visto giusto. Al contrario, io capisco bene la capacità predittiva di Bakunin proprio perché sono stato un po’ sulle barricate (non in tante come Bakunin, ma più di molti intellettuali). Nella lotta sviluppi un senso profondo delle pulsazioni insite nella pratica rivoluzionaria, che allora come adesso era molto anarchica, nello spirito, ma se provi a dargli forma in parole, di solito finisce per suonare come qualcosa di rozzo e ingenuo. Ma in fondo si basa su una comprensione sofisticata delle cose.
mbk: Eppure quando Badiou, Žižek e Rancière parlano della Comune di Parigi non usano mai la parola «anarchia». Nondimeno, l’80% dei comunardi erano operai anarchici. Più tardi, con la rivoluzione bolscevica, assistiamo all’eliminazione degli anarchici da parte dell’Armata Rossa e al recupero dei Soviet da parte dei bolscevichi. Possiamo leggere l’intera storia dell’emancipazione politica degli ultimi due secoli come una forma di recupero – quasi un’ipostatizzazione – di quella radicalità da parte dell’ideologia comunista?
dg: Non sono sicuro che «recupero» sia la parola che userei io. Forse più «cooptazione». Ma sì, forse è questa la ragione per cui così tanti marxisti sembrano indignati per l’esistenza stessa degli anarchici.
Ricordo che da adolescente rimasi molto colpito quando lessi da qualche parte che in paesi come la Spagna e l’Italia metà dei sindacati all’inizio del xx secolo era composta da anarchici e l’altra da socialisti. E che la grossa differenza tra i due tipi di sindacati era che i socialisti chiedevano più salario e gli anarchici meno ore di lavoro. Una parte diceva: «Vogliamo una società dei consumi per tutti, ma vogliamo una fetta più grossa della torta (e vogliamo gestire noi la cosa)»; l’altra voleva farla finita del tutto con quel sistema.
Marx sosteneva che sarebbe stato il settore più «avanzato» del proletariato a fare la rivoluzione; Bakunin invece era convinto che l’avrebbero fatta i contadini, gli artigiani (o quei contadini e artigiani di recente proletarizzazione), ovvero persone che non avevano completamente dimenticato lo spirito della produzione autonoma. Ovviamente aveva ragione Bakunin: le rivoluzioni che hanno vinto sono quelle avvenute in Russia, Spagna e Cina, non in Inghilterra o Germania. (Trovate lo stesso tipo di pensiero oggi in marxisti come Negri, che negli anni Novanta sosteneva che sarebbero stati i maniaci del computer a lanciare la prossima rivolta globale, dato che erano il settore più avanzato del proletariato, per poi dover spiegare perché quella rivolta l’hanno invece fatta i contadini del Chiapas – in effetti con l’aiuto di maniaci del computer, che però erano per lo più anarchici). Si comincia dunque con forze anarchiche che fanno le rivoluzioni e si finisce con rivoluzioni governate dai socialisti. Ma – e lo faccio sempre notare – se guardate ai sistemi fondati sul socialismo di Stato… quello che si proponevano di realizzare come scopo ultimo era una sorta di utopia consumista (che non gli è riuscita tanto bene), ma quello che hanno davvero dato alla gente è stato più tempo. Non potevi essere licenziato dal lavoro. Quindi le persone non andavano a lavorare, oppure sviluppavano uno stile di lavoro straordinariamente rilassato. Un amico jugoslavo me lo raccontava così: ti svegli, compri il giornale, vai a lavoro e leggi il giornale… C’erano dunque benefici sociali straordinari. Pensateci un attimo: ci sono stati paesi che dopo la rivoluzione da paesi poveri e periferici sono diventati potenze mondiali, riuscendo persino a mandare la gente nello spazio… e tutto questo lavorando in media solo 4-5 ore al giorno! Ma per chi stava al governo quelli non erano considerati dei benefici sociali, anzi rappresentavano un problema: erano cioè «assenteismo». In altre parole, hanno fornito benefici sociali anarchici a masse in gran parte anarchiche, ma non potevano rivendicarli come una propria conquista.
mbk: Forse la differenza sta nel valore attribuito al lavoro. Nell’ideologia comunista troviamo una santificazione del lavoro…
dg: Esattamente. Ed è differente anche il modo in cui viene definito il lavoro, ovvero «produzione». Ultimamente ci ho molto riflettuto. Come ho sostenuto in Bullshit Jobs, il problema centrale della teoria marxista, che nel xix secolo è addirittura diventata senso comune, è che la teoria del valore-lavoro si basa interamente su una nozione di produzione essenzialmente teologica. Se torniamo a Esiodo o alla Genesi, troviamo sempre la stessa idea: Dio è concepito come un creatore. La nostra punizione per esserci ribellati a Dio è doverlo imitare nella maniera più dolorosa. «Vuoi essere come Dio e creare le cose? Vuoi creare la tua stessa vita?», direbbe Zeus, o Jehovah. «Bene, fallo, vediamo come te la cavi». È oltretutto un’idea molto legata al genere. Nella Genesi la maledizione di Dio obbliga Adamo a procurarsi il cibo con dolore ed Eva a partorire con dolore. In inglese usiamo il termine labor per indicare il travaglio del parto. La parola «produzione» viene invece dal verbo latino producere, che significa portare fuori, esporre, generare. L’immagine che se ne ricava rimanda alle donne che danno alla luce bambini già formati, e alle fabbriche che sembrano un tentativo maschile di imitare la procreazione con i loro prodotti già assemblati. Non sappiamo cosa avviene al loro interno, a parte il fatto che deve essere tremendamente difficile e doloroso. Ed è questa la nostra idea di lavoro: la creazione misteriosa e dolorosa degli oggetti. In effetti Carlyle sosteneva che il summenzionato Dio avesse lasciato la creazione incompleta almeno per il 20%, solo per darci la possibilità di condividere la sua divinità permettendoci di fare il resto.
mbk: A volte penso che Dio sia il risultato di tutto quel lavoro…
atz: Nella Cabala, una delle letture della creazione vuole che Dio abbia creato il mondo al fine di poter abbracciare sé stesso: un bisogno di produrre, di portare fuori, in modo da avere una prova esterna della propria interiorità e poter godere di sé stesso in questa estensione.
dg: Beh, interessante. Ma la versione di Assia mi sembra in realtà l’opposto di quella di Mehdi. Se ho ben capito (ma se sbaglio dimmelo), Mehdi sostiene che proprio come l’appropriazione tecno-mimetica (nella sua definizione)crea l’astrazione scientifica – che poi noi vediamo come una sfera autonoma che genera quelle stesse cose da cui viene astratta… – il medesimo processo crea l’idea stessa di Dio. Ma l’unico esito logico, il telos che motiva l’intera cosa, dovrebbe essere l’effettiva creazione di Dio, nel senso di un essere onnisciente e onnipotente. E infatti è esattamente quello che la Silicon Valley e i suoi concorrenti stanno cercando di fare.
mbk: L’idea è che la tecnologia sia Dio. Più esattamente: se compariamo il concetto che ci è sempre stato offerto di Dio con lo stato di avanzamento della tecnologia moderna, ci accorgiamo che i due ormai coincidono: parliamo di un’entità onnisciente, onnipotente, indistruttibile… tutti i predicati che la teologia e la metafisica classica attribuivano a Dio li ritroviamo, almeno virtualmente, nella tecnologia moderna. Nella loro stupidità i transumanisti hanno ragione: ripetono solo ad alta voce quel che la metafisica ha sempre annunciato, ad esempio in Leibniz, che considerava Dio come un super-calcolatore, proprio come i transumanisti.
dg: Ah, allora questi frammenti sparpagliati di Dio che abbiamo sin qui creato alla fine verranno ricuciti assieme. Ma il problema per me è… questo Dio, inteso come singolarità, davvero non sarebbe capace di sentire, di provare qualcosa? Nika e io ne parlavamo l’altro giorno con Bifo. Lui è affascinato dall’idea che l’intelligenza artificiale possa infine rendere possibile la separazione completa tra intelligenza e consapevolezza. L’intelligenza artificiale sarebbe allora pura ragione strumentale senza autocoscienza. Questo implicherebbe l’incapacità di esperire i qualia (le qualità, come i colori). Ma i neuroscienziati sembrano concordare sull’idea che senza l’emozione il raziocinio sarebbe impossibile. Le persone che a causa di danni cerebrali diventano incapaci di esprimere le proprie emozioni hanno anche difficoltà a risolvere problemi logici. È come se Cartesio avesse postulato una spaccatura totalmente immaginaria tra pensiero e sensazioni, e noi adesso stessimo cercando di renderla reale creando un Dio capace di pensare e incapace di percepire.
Il Dio cabalistico di Assia sembra invece l’esatto contrario. Comincia dove l’altro Dio finisce: un sapere, un potere, una capacità totali, e al contempo l’incapacità di esperire alcunché. D’altronde deve essere onnisciente, altrimenti come potrebbe sapere quel che sa? L’altra linea di pensiero invece culmina nel Dio di Alfred Whitehead, che esperisce ogni cosa e viene costantemente trasformato dalle cose. O se vogliamo rivolgerci all’antropologia, penso alla descrizione di Godfrey Lienhardt dell’idea di divino presso i Dinka del Sudan del Sud, simile a un’infinita rifrazione dell’esperienza. Per i Dinka, la manifestazione ultima di Dio è, secondo Lienhardt, il senso di comunione provato dai partecipanti nei rituali sacrificali.
Ma noi dovevamo parlare di anarchia. E invece ci ritroviamo a parlare di Dio! Mi sa che abbiamo fatto un passo troppo lungo…
nika dubrovsky: Non necessariamente.
dg: Perché no?
nd: Prima dimmi qualcosa di più sui Dinka.
dg: Sono una popolazione pastorale nilotica del Sudan del Sud. In realtà il loro linguaggio è collegato, alla lontana, all’ebraico e spesso vengono descritti come la società più simile a quella dei patriarchi biblici che possiamo osservare direttamente. Hanno un unico Dio, che si riflette senza sosta in ogni sorta di esperienza straordinaria. Ma la massima esperienza di Dio come unità si realizza durante il sacrificio di un bue. Tutti a quel punto devono confessare i propri peccati e risolvere i propri litigi, almeno temporaneamente. È un atto di violenza sanguinaria che però cede il passo all’esperienza della gioia comune e dell’amicizia nella festa che segue il sacrificio. Come se la divisione primordiale dell’universo tra Paradiso e Terra, nata con il peccato universale, scomparisse temporaneamente. E questa esperienza, suggerisce Lienhardt, è Dio.
nd: Per me, un po’ come per i Dinka, Dio è l’anarchia. Un momento di pura ricettività, un’utopia di interazione amicale. L’esatto opposto della singolarità, di un Dio asociale, del rifiuto di ogni realtà sociale.
dg: E forse proprio per questo abbiamo una paura istintiva che quel Dio si trasformi in una sorta di Skynet e ci distrugga.
mbk: Vai avanti…
dg: Sì, ma torniamo all’anarchia. Penso sia facile confondere i differenti significati di anarchismo. È noto che se ne lamentava già Malatesta, il quale diceva: la gente continua a dire che l’assenza di un sistema legale coercitivo può solo portare a un caos violento e pertanto gli anarchici sono quelli che sostengono il caos violento. Oltretutto, le persone che erano davvero a favore del caos violento hanno cominciato a definirsi «anarchici» e questo ha creato ulteriore confusione.
Anche se probabilmente non è vero, c’è chi sostiene che il famoso simbolo dell’anarchia, l’A cerchiata, sia stato inventato da Proudhon. In realtà non si tratterebbe di un cerchio bensì di una A dentro una O e si riferirebbe a una citazione di Proudhon: «L’anarchia è ordine; il governo è guerra civile».
mbk: Élisée Reclus diceva, sebbene forse non fossero davvero parole sue, che l’anarchia è la massima espressione dell’ordine.
dg: Sono anche convinto che le persone confondano l’anarchia con il relativismo estremo o con l’anti-fondamentalismo filosofico, cosa che mi fa sempre un po’ innervosire. Per questo non mi sento a mio agio di fronte a tesi come quelle di Schürmann. L’anarchia filosofica ha a che fare con l’anarchia politica? O di fatto toglie qualsiasi punto di appoggio per poter affermare che l’anarchia politica è preferibile a qualsiasi altra cosa? Per quanto riguarda l’etica totale o il relativismo morale, le persone più relativiste che io abbia mai incontrato sono gli sbirri. Una volta sono stato detenuto dentro a un cellulare della polizia per cinque ore, insieme ad altre quaranta persone tutte con le mani legate da manette di plastica, e c’era un ufficiale di polizia che ogni tanto veniva a discutere con noi (lo avevamo soprannominato, poco affettuosamente, Mindfuck). Questo ufficiale assumeva sempre una postura morale iper-relativistica. Ci diceva: «Certo, voi pensate di essere guidati da un imperativo morale superiore alla legge, ma il vostro problema è che voi pensate che il vostro sia l’unico punto di vista legittimo». Qualcosa di simile mi è capitato molte altre volte: se dei poliziotti ti danno un ordine completamente assurdo, ad esempio ti circondano e poi ti ordinano di disperderti, e tu sei così stupido da provare a ragionare con loro, ecco che subito ti ribattono: «Voi pensate di aver capito tutto, vero? Pensate di avere voi tutte le risposte…?». Succede questo, oppure ti picchiano col manganello. D’altronde, se sei un autoritario fatto e finito, il relativismo morale puro ha molto senso: in assenza della verità ti rimane solo la legge.
O meglio, la forza e la legge: proprio l’odiosa cosmologia che viene venerata nel linguaggio della fisica. Per questo alla fine poliziotti e criminali si intendono a meraviglia: abitano entrambi lo stesso universo. Che è sostanzialmente un universo fascista, in cui la forza e la legge sono i soli principi ontologici. Per me l’anarchia ha senso solo se proviamo a mettere da parte questa dialettica.
mbk: Per me siamo intrinsecamene fascisti, perché è questo il peccato originale: identificare le leggi della natura.
dg: È questo il peccato originale?
mbk: Sì, è la maledizione che pesa sugli esseri umani proprio a causa della loro capacità di identificare le leggi di natura, ossia la scienza. La scienza consente un regime di iper-appropriazione che non si trova in nessun’altra specie animale. La mia domanda è perché, in quanto esseri che possono descrivere le leggi della natura e dell’esistenza, non riusciamo a fare la stessa cosa in politica, in morale o in etica? L’esito della conoscenza, l’esito della scienza, per me si riassume in questa domanda: perché l’identificazione delle leggi della natura porta a una deregolamentazione delle relazioni tra gli esseri umani? E questa è una domanda per antropologi.
atz: Stai quindi dicendo che anche l’anarchia è «l’esito della deregolamentazione delle relazioni tra gli esseri umani causata dall’identificazione delle leggi di natura»?
dg: E dunque che la creazione delle leggi creerebbe sostanzialmente il caos?
mbk: Se volete. Il grande mistero è perché questo animale scientifico non riesce a controllare il proprio funzionamento quando può controllare il funzionamento di tutti gli altri esseri.
atz: Ma non è vero…
dg: Credo che Giambattista Vico la pensasse esattamente all’incontrario… Infatti ha detto: «Noi umani possiamo comprendere solo ciò che abbiamo fatto noi stessi». Ma in realtà noi possiamo comprendere tutto tranne quello che abbiamo fatto noi stessi.
atz: Proprio così. David, tu hai definito la realtà come qualcosa che ci sfugge continuamente. Mehdi, tu dici che noi controlliamo tutto quello che non abbiamo creato. Ma io non credo affatto che sia vero. Quando lo facciamo, è perché esercitiamo una qualche forma di violenza sopra le cose, e anche allora dobbiamo utilizzare la violenza per rimanere in controllo. In una prospettiva macro, la conseguenza di tutto questo è la crisi ecologica. La ragione principale per cui siamo stati capaci di controllare l’ambiente è perché l’abbiamo concepito come morto, e alla fine morirà davvero. Gran parte del mistero per me ha a che fare con questo: la nostra capacità di obbligare il mondo, con la violenza, ad adattarsi al modo in cui lo pensiamo, a cui corrisponde, all’inverso, la nostra incapacità di sostenere l’utopia in una prospettiva micro.
dg: Beh, se seguiamo il ragionamento di Assia, allora è questa la ragione per cui non possiamo applicare la scienza alle relazioni umane così come facciamo con tutto il resto.
atz: Nonostante gran parte dell’economia stia proprio provando a fare questo…
dg: Probabilmente c’è un limite al grado di violenza che possiamo infliggere agli altri esseri umani rispetto a quello che possiamo infliggere alle rocce, all’orzo o alle cavie. Anzi, per lo più non c’è un limite. Infatti, se anche per gestire un campo di concentramento servono dei collaboratori, la stessa cosa non è necessaria con le cavie. Peraltro, la gestione «scientifica» del comportamento umano, dal taylorismo ad Amazon, alla fin fine deriva dalle navi da guerra e dalle piantagioni schiaviste, ovvero da spazi delimitati e violenti in cui alcuni avevano di fatto un dominio assoluto sugli altri. Nasce insomma dalla frusta.
Io dico spesso che la teoria sociale consiste generalmente nello scrostare via il 97% di quel che accade in una data situazione per portare alla luce il restante 3%, ovvero proprio quello che configura un modello significativo, un modello che altrimenti non avresti notato. E non c’è niente di sbagliato in questo. Altrimenti come faresti a dire qualcosa di nuovo? Il problema inizia nel momento in cui questi modelli semplificati di realtà si procurano delle armi. Quando io definisco i debiti come delle promesse che sono state pervertite da una convergenza di matematica e violenza, penso lungo queste linee. Ma – e questo lo devo alla tua opera, Mehdi – tutto questo è il risultato dell’antica divisione tra filosofia e tragedia. Al fine di costituire un mondo di leggi scientifiche, in cui le astrazioni sembrano generare le realtà, bisogna che quella violenza sia negata. Ma ovviamente questo non si può fare e la violenza negata ritorna in forme perverse e terrificanti.
[…] L’Indiscreto un bell’articolo di David Graeber che prova a fare un’analisi organica delle dinamiche […]
Dialogo di grande interesse che incrocia vari ambiti dell’esperienza ed elaborazione culturale in vari periodi storici.
Lettura corroborante. Il pensiero è vivo! Evviva.
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